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La doppia aura immaginaria della montagna

L’epopea della conquista del Monte Bianco e il mito che ne scaturì, furono alimentati, come abbiamo più volte ripetuto, da una nuova sensibilità che si diffuse in Europa a partire dalla seconda metà del XVII secolo. La comparsa del Monte Bianco e delle Alpi nell’orizzonte di ciò che era socialmente e umanamente visibile, necessaria affinché Saussure, Bourrit, Balmat, Paccard e altri potessero vedere nella montagna ciò che nessuno aveva visto prima, si doveva all’irruzione nel panorama culturale europeo di nuove intuizioni e di nuove elaborazioni scientifiche ed estetiche.

Da un punto di vista antropologico si potrebbe definire il periodo precedente alla conquista del Monte Bianco, come fase di gestazione

del mito; ovvero di incubazione delle immagini della montagna, di

sedimentazione e di stratificazione degli elementi che compongono le rappresentazioni, di consolidamento della loro forza evocativa, della loro “capacità lirica”, indispensabile per far presa sulla sensibilità e sull’affettività collettive. Benché questa fase, durata più o meno due secoli salvo sporadiche anticipazioni, sia stata alimentata da continue sovrapposizioni tra aspetti scientifici ed estetici (all’epoca del resto - XVII- XVIII secolo - non vi era ancora una rigida divisione tra sfera scientifica, letteraria, filosofica e teologica), qui, per maggiore chiarezza analitica, prenderemo in considerazione soprattutto una serie di rappresentazioni letterarie, proseguendo nel lavoro di archeologia delle immagini della

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narrazioni contenenti atmosfere, personaggi, situazioni e significati sui quali ci soffermeremo.

La prima di queste ci riporta al 1688. In quell’anno un giovane inglese di nome John Dennis, partito per il suo Grand Tour e diretto in Italia, attraversò la Savoia e il Moncenisio. La traversata alpina e il paesaggio montano lo impressionarono a tal punto che arrivato a Torino volle raccontare all’amico rimasto in patria ciò che aveva visto. Non era facile descrivere un ambiente e un paesaggio come quello di montagna a chi non aveva mai visto nulla di simile. Evidentemente l’unica cosa che poteva fare era usare il repertorio di immagini che la sua epoca metteva a disposizione, per esempio quello contenuto nelle teorie scientifiche come quella di Thomas Burnet. Nella lettera egli scriveva: «Se queste alture fossero state create col mondo, come a lungo è stato pensato, e la natura le avesse disegnate solo come terrapieno per proteggere il suo giardino, l’Italia, potremmo ben dire di essa quello che alcuni affermano per i grandi ingegni, che i suoi aspetti più trascurati, irregolari e audaci suscitano la maggiore ammirazione. Le Alpi infatti sono opere che la natura sembra aver disegnato ed eseguito in stato di follia. […] Ma se le montagne non sono una creazione, e sono state prodotte invece da una distruzione universale, quando l’arco con una grande crepa si ruppe e cadde nel grande abisso (questa è sicuramente l’opinione più valida), ebbene queste rovine del vecchio mondo sono il più gran prodigio del nuovo. […] Che vista sorprendente ci si presentava! Rovine su rovine in mostruosi mucchi e confusione tra cielo e terra».37 Continuava: «È facile descriverti Roma e Napoli, perché tu stesso hai visto cose che hanno almeno qualche somiglianza con quelle; ma è impossibile porre davanti ai tuoi occhi una montagna, che è quasi inaccessibile alla vista e stanca financo l’occhio a scalarla».38 Ad un certo punto però il linguaggio e la scrittura di Dennis si facevano più intensi, come se l’immaginazione avesse preso il sopravvento. Raccontando le impressioni e le sensazioni

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John Dennis, The Critical Work, Baltimora, Johns Hopkins Press, 1943, citato in P. Giacomoni, Il laboratorio della natura, Milano, FrancoAngeli, 2001, p. 45.

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J. Dennis, The Critical Work, Baltimora, Johns Hopkins Press, 1943, citato in Robert MacFarlane, Come le montagne conquistarono gli uomini, Milano, Mondadori, 2005, pp. 77-78.

che la montagna gli aveva procurato, scriveva: «Camminavamo, letteralmente, sull’orlo della distruzione: un passo falso, e vita e carcassa sarebbero state immediatamente distrutte. L’impressione che da tutto ciò mi venne suscitò in me moti contrastanti, ovverosia un dilettevole orrore, una terribile gioia, e mentre ero infinitamente soddisfatto, allo stesso tempo tremavo di paura».39 E ancora: «Essa – la natura - ci commuove di meno dove cerca di piacerci di più. Mi piace molto, è vero, la vista di colline e vallate, di campi fioriti di torrenti mormoranti, ma è un piacere che si accompagna alla ragione, che crea o stimola la meditazione. Furono piaceri entusiasmanti quelli che seguirono la vista delle Alpi, e pensa che tipo inusuale di estasi potesse essere quella mescolata a orrore e talvolta a disperazione».40

L’esperienza di John Dennis, potrebbe essere definita allucinatoria, nel senso dello sgomento e della vertigine prodotti dai precipizi e dagli abissi sulla sua immaginazione. L’ossimoro orrido-piacevole – che diverrà il motore della visione pre-romantica e romantica della natura – in realtà era già stato utilizzato da alcuni pittori e da alcuni viaggiatori agli inizi del secolo per esprimere la stessa impressione di fronte alla grandezza della montagna. Johann-Jacob Grasser, autore di una guida della Svizzera pubblicata a Basilea nel 162441, per esempio, scriveva: «Se apprezzate i doni della natura, anche le distese di ghiaccio che riempiono le valli, la selvatichezza dei colli di montagna hanno il loro fascino; perfino nell’orrore, potrete trovare qualcosa di piacevole».42 Pochi anni più tardi, nel 1702, di ritorno dal Grand Tour in Italia iniziato nel 1699, un giornalista inglese di nome Joseph Addison, fondatore della celebre rivista Spectator, contemplando dalla sponda del lago di Ginevra la catena di montagne all’orizzonte scriveva: «Durante la passeggiata da un lato avete una prospettiva ravvicinata delle Alpi che

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Ibid., p. 78. 40

J. Dennis, The Critical Work, Baltimora, Johns Hopkins Press, 1943, citato in P. Giacomoni, Il laboratorio della natura, Milano, FrancoAngeli, 2001, p. 45. Corsivo dell’autore.

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J.J. Grasser, Itinerarium historicum-politicum per celebriores Helvetiae urbes, Basel, 1624.

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J.J. Grasser, Itinerarium historicum-politicum per celebriores Helvetiae urbes, citato in, P. Joutard, L’invenzione del Monte Bianco, p. 60.

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sono suddivise in tanti ripiani e precipizi che vi riempiono lo spirito di una specie di piacevole orrore e che costituiscono uno dei paesaggi più irregolari e più accidentati del mondo»43. Dieci anni più tardi, nel 1712, nel trattato The Pleasures of Imagination44 apparso proprio sullo

Spectator egli scriveva che il piacere dell’immaginazione si basava sulla

grandezza, l’inconsueto e il bello. Gli eccessi della natura e quindi la violenza incontenibile e incontrastabile della montagna erano particolarmente indicati per smuovere nel profondo la fantasia e l’animo dei viaggiatori. Qualche anno più tardi fu il famoso naturalista bernese Albrecht von Haller, nella relazione del suo primo viaggio alpino, pubblicata nel 1728, a sintetizzare i caratteri del paesaggio e dell’ambiente naturale svizzeri: «Noi contemplammo qui da una terrazza uno dei più bei panorami del mondo, il più grande e il più piacevole bacino d’Europa, bordato su un lato da vigneti di molte giornate di lunghezza e sul lato opposto dalle montagne spoglie della Savoia, sopra le quali ne sorgono altre più scoscese ancora e soprattutto il Mont Maudit […]. Questa mescolanza di orrido e di piacevole ha un fascino che quanti sono indifferenti alla natura non possono capire».45 Le manifestazioni letterarie dei sentimenti ambivalenti scaturiti dall’esperienza di alcuni viaggiatori in montagna - sgomento-gioia, orrore-piacere, terrore- bellezza – che qui abbiamo riportato, rappresentano una sorta di fenomenologia sintomatica di quei gusti estetici che si sarebbero diffusi in Europa durante il Settecento e che avrebbero rappresentato il passaggio dal Classicismo al Romanticismo; vale a dire il sublime e il suo cugino più mite il pittoresco.

La nuova attenzione dei viaggiatori per le montagne e quindi i frequenti viaggi sulle Alpi, sono stati resi possibili da un cambiamento graduale ma non per questo meno radicale e profondo, nel modo di concepire e di vedere la natura. Per quanto riguardava il pittoresco, la nuova sensibilità

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J. Addison, Remarks on several parts of Italy, London, 1702, citato in P. Joutard,

L’invenzione del Monte Bianco, p. 70.

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J. Addison, The Pleasures of Imagination, «The Spectator», n. 411-421, 1712, Routledge and Sons, London, a cura di G.A. Aitken, vol. V, 1920.

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A. von Haller, Relation d’un voyage fait dans la lus grand parte de la Suisse, l’an

verso la natura probabilmente derivava, come ci ricorda il filosofo Eugenio Pesci, dall’influenza che ebbe in Inghilterra l’opera del pittore napoletano Salvator Rosa46. Infatti, la sua immagine del mezzogiorno italiano trovava dei punti di sovrapposizione con quella che gli inglesi elaborarono a proposito delle Alpi. È importante qui ricordare Salvator Rosa poiché fu proprio lui ad introdurre il termine “pittoresco”, successivamente ripreso per indicare un particolare gusto per la natura selvaggia. Il pittoresco era legato ad una concezione “pittorica” del mondo; si basava su un’interpretazione della natura, poco fedele al reale, che lasciava spazio all’immaginazione. Per cogliere meglio questo particolare punto di vista, questo tentativo di allucinare seppur blandamente il reale, potremmo ricordare a mo’ d’esempio la curiosa

lente che i “viaggiatori pittoreschi”, agli inizi del XVIII secolo, portavano

con sé: il famoso “specchio di Claude”. Come scrive ancora il filosofo Raffaele Milani nel suo saggio Il Pittoresco, «Si trattava di uno specchio concavo dalla leggera colorazione grigia che mostrava l’immagine riflessa sfumandone i contorni: il paesaggio vi appariva come in una camera oscura o in una grotta catottrica evocando l’atmosfera coloristica delle opere di Lorrain. La visione appariva così ammorbidita e le distanze appiattite, ma tutte ugualmente a fuoco all’interno di un unico formato miniatura».47 La lente permetteva di “de-formare” la natura, di falsarne la percezione, innescando e agevolando il lavoro dell’immaginazione; lo stesso lavoro che John Dennis e Joseph Addison sperimentarono di fronte alla grandezza e alla violenza della montagna, di fronte alla sua forza incontenibile, all’impressione sconvolgente prodotta dai precipizi, dai crolli e dalle rovine. Non sorprende allora che proprio il paesaggio alpino, date le sue

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Eugenio Pesci, La scoperta dei ghiacciai. Il Monte Bianco nel ‘700, Torino, CDA, 2001, pp. 109-110. Scrive Pesci: «Il gran numero di tele di Rosa, comprate da raffinati viaggiatori e mercanti d’arte inglesi agli inizi del Settecento, trova nello scenario fisico dei due grandi vulcani italiani, del Vesuvio e soprattutto dell’Etna, il proprio punto di riferimento concettuale e di motivazione». Ibidem.

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Raffaele Milani, Il Pittoresco L’evoluzione del Gusto tra classico e romantico, Bari, Laterza, 1996, p. 15. Continua l’autore: «Immaginiamo l’osservatore amante della natura: egli agisce come spettatore in una teatralizzazione della visione. […] Giplin, il primo riconosciuto teorico del pittoresco, utilizzerà lo specchio di Claude ma in movimento; mirerà non a immagini statiche, ma a una successione di quadri che scorrono davanti agli occhi come paesaggi di sogno». Ibidem.

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caratteristiche elementari più volte ricordate, cioè la totale alterità, il suo essere ambiente cosmico e inospitale, abbia cominciato a destare qualche interesse nei viaggiatori pittoreschi

Il sentimento del sublime, invece, fu introdotto da Edmund Burke nel 1757 con la pubblicazione della sua opera Philosophical Enquiry into

the Origin of our Ideas of The Sublime and Beautiful. Egli affermava che

nella stessa paura della morte vi era qualcosa di piacevole, una forma insolita di godimento legata allo scampato pericolo, al venir meno della paura. Come sostiene lo storico della filosofia Paola Giacomoni, si tratta di un piacere, «[…] che nasceva dalla scomparsa di un dolore o di un pericolo, nell’attimo in cui, guardando con terrore una possibilità di dissoluzione della base fisica dell’io, si era consapevoli di esserne per il momento esenti».48 Per Burke quindi il sublime era legato allo scampato pericolo, ad uno spettacolo che tendeva a procurare orrore senza minacciare effettivamente il soggetto che osservava. L’esperienza di John Dennis sul ciglio del precipizio, come quella di altri esploratori alpini, esemplificava anche questa nuova sensibilità estetica; lo stesso Burke scriveva: «Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in certo senso terribile, o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore, è una fonte di sublime; ossia è ciò che produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire».49 Non c’è dubbio che i caratteri del sublime appartengano alle esperienze dei viaggi alpini che in quel periodo cominciavano ad essere abbastanza frequenti e che si addicano in modo particolare alle irregolarità dell’ambiente montano, al caos formale delle vette, alla forza straordinaria dei grandi sconvolgimenti naturali, alle distruzioni, ai crolli continui, alle spaccature, agli abissi, ecc.

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Paola Giacomoni, Il laboratorio della natura, 2001, p. 60. Continua l’autrice: «Si guarda nel baratro attraverso la vita di un altro, ad esempio nella tragedia, si osserva da vicino il pericolo della caduta mortale, se ne coglie il brivido orrendo e al tempo stesso si assume la posizione dello spettatore, la dimensione di che contempla senza essere posto direttamente in pericolo». Ibidem.

49

Edmund Burke, A Philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas of The Sublime

and Beautiful, Oxford Univesity Press, 1757. Trad. It., Inchiesta sul bello e sul sublime, Palermo, Aestethica, 1985, p. 71.

Il nuovo sentimento estetico alimentava il turismo e i viaggi verso le montagne, non soltanto quelle alpine ma anche quelle della Scozia e del Galles. Tra gli ammiratori più famosi di queste zone vi era, per esempio, un certo Samuel Johnson che visitò la costa nord-orientale della Scozia nel 1773. Egli, che conosceva già la regione, in quell’occasione era interessato al Buller di Buchan; una curiosa e rinomata formazione rocciosa della costa scozzese. Si trattava di uno stretto ponte di roccia che dal mare saliva verticalmente in alto fino a saldarsi alla scogliera. La maggior parte dei visitatori si limitava ad osservare lo sperone di roccia dall’alto, contemplando in tutta sicurezza l’inquieto mare sottostante. Alcuni spiriti temerari, invece, si spingevano fin sul dorso del ponte di roccia, avvolti nel fragore e nella nebbia provocati dallo spumeggiare del mare. Come racconta lo storico inglese Robert MacFarlane: «In alcuni punti, il passaggio era largo meno di un metro e il terreno erboso era sconnesso e franoso ai bordi. Guardando in basso, poi, si vedeva il mare muoversi sotto l’arco, sicché si aveva l’impressione che fosse la roccia stessa a oscillare al ritmo della onde, pronta a scaraventare l’incauto nel gorgo».50 Ma era proprio quello lo scopo per cui alcuni si spingevano sul ponte di roccia: indurre la mente a immaginare la caduta, assaporare il terrore profondo dell’annientamento, la totale paralisi del corpo e delle membra. Lo stesso Johnson scriveva: «Il bordo del Buller non è ampio e a quanti lo percorrono appare assai stretto. Chi si azzarda a guardare di sotto scopre che, dovesse mai scivolargli il piede, da quella spaventosa altezza precipiterebbe da un lato sulle rocce e dall’altro direttamente nell’acqua. Ma il terrore senza pericolo non è che una fantasia, un volontario turbamento della mente che è permesso solo nella misura in cui provoca piacere».51

Potremmo dire quindi, ricapitolando, che il pittoresco, in effetti, era una sorta di versione addomesticata del sublime; i due sentimenti estetici si differenziavano per il grado di libertà lasciato all’immaginazione. Il pittoresco tendeva a non estremizzare mai l’impressione prodotta

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R. MacFarlane, Come le montagne conquistarono gli uomini, 2005, p. 84. 51

Samuel Johnson, citato in: R. MacFarlane, Come le montagne conquistarono gli

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dall’ambiente naturale sull’uomo. Come scrive Milani: «Il piacere che dà il pittoresco riamane un piacere positivo perché l’immaginazione non usa violenza sulla sensibilità come invece accade nel sublime».52

Ritornando alle impressioni di John Dennis, di Johann-Jacob Grasser, di Joseph Addison, di Albrecht von Haller e di altri esploratori e pittori dell’epoca, possiamo senza dubbio affermare che esse costituivano il primo stock, il primo nucleo di immagini attorno al quale la

simbolizzazione e la mitizzazione hanno lavorato, elaborato, rimuginato

e definito in modo sempre più preciso quegli elementi primari su cui si fondava l’invenzione. L’elemento di novità era senza dubbio il sentimento provato di fronte alla potenza della montagna, espresso per mezzo dell’ossimoro orrore-bellezza, paura-piacere, terrore-fascino, anche se il primo termine delle dicotomie, l’orrore, la paura, il terrore in realtà coincideva con il sentimento all’epoca più diffuso nei confronti dell’ambiente montano. Salvo qualche coraggioso e intrepido spirito, infatti, quest’ultimo non interessava e non attraeva nessuno. Anzi, nella maggior parte dei casi era un ostacolo che doveva essere affrontato e superato per raggiungere l’Italia, la principale meta del Grand Tour europeo. La traversata delle Alpi, come ricorda Claire-Eliane Engel, era altrettanto pericolosa della traversata del Mediterraneo, con le sue bufere, i temporali, le nevicate, il freddo; inoltre da sempre le montagne avevano dato asilo a ribelli, fuggiaschi, banditi e briganti. Molti dei resoconti delle traversate risalenti agli inizi del XVIII secolo, elencavano e descrivevano i pericoli e i rischi. Nel 1718 per esempio lady Woetley Montague passò il Moncenisio sotto una pioggia fortissima. Nel suo racconto affermava che il freddo talvolta non era la cosa più terribile, il caldo poteva essere anche peggio, per non parlare del cambiamento repentino tra caldo e freddo. Anche Montesquieu qualche anno prima, nel suo viaggio da Graz a l’Aia attraverso il Tirolo del 1713, aveva espresso giudizi negativi rispetto al rigore climatico, alle fastidiose irregolarità del territorio che sembravano esclusivamente spaventare e allontanare il viaggiatore. A questo bisognava aggiungere anche la totale mancanza di rifugi, di luoghi di ristoro. Persino Goethe si era

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sempre dimostrato reticente di fronte allo spettacolo alpino per non parlare di un viaggiatore ottocentesco come Chateaubriand che nel suo

Voyage au Mont-Blanc pubblicato nel 1806 scriveva: « […] dirò che

come non ci sono bei paesaggi senza un orizzonte di montagne, così non ci sono luoghi piacevoli da abitare né soddisfacenti per gli occhi e il cuore dove ci mancano l’aria e lo spazio; ora è quanto accade all’interno delle zone montuose».53 In una lettera indirizzata a Madame de Staël, nel settembre 1805, egli scriveva ancora: «Sono rimasto incantato dalle rive del lago di Ginevra, ma per nulla da Chamonix. Le alte cime mi soffocano. Non mi è piaciuto avvertire la mia gracile esistenza chiusa così strettamente da questi grossi massicci».54 Lo stesso de Saussure che come abbiamo già detto era letteralmente ossessionato dalle Alpi, non era immune da una certa impressione di orrore; nei suoi Voyage

dans les Alpes, infatti, scriveva: «La quiete e il profondo silenzio calati su

questa distesa immensa e amplificati dalla mia immaginazione mi ispiravano una sorta di terrore […] Mi sentivo l’unico sopravvissuto dell’universo, il cui cadavere vedevo giacere ai miei piedi».55

Insomma il tono con cui si descriveva la montagna era intriso di sentimenti quali l’ostilità, la preoccupazione, la pena, la sofferenza, la

paura; ad essa erano costantemente associate sensazioni come la tristezza, lo scoraggiamento, il malessere, l’orrore provocato dall’altitudine e dalla grandezza. Del resto tradizionalmente le montagne erano il luogo del diabolico, erano abitate da mostri, da esseri spaventosi, da streghe; le leggende che alimentavano queste credenze erano innumerevoli. La pittura, sin dagli albori del romanticismo era

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François-René de Chatobriand, Voyage au Mont-Blanc, Paris, 1806. Trad it.

Viaggio sul Monte Bianco, Verbania, Tarara, 1996, p. 13. Scriveva ancora: «Chi è

riuscito a scorgere diamanti, topazi, smeraldi nei ghiacciai è stato più fortunato di me: la mia immaginazione non è mai stata capace di ravvisare quei tesori. Le nevi in fondo al Glacier des Bois, mescolate con la polvere di granito, mi sono sembrate simili a cenere; in molti punti si potrebbe scambiare la Mer de Galce per una cava di calce

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