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La Genesi dell’enciclica nel suo contesto storico

Nel documento L'umanesimo di Paolo VI (pagine 54-88)

La Populorum progressio vede la luce nel cuore degli anni Sessanta, nell’immagi- nario collettivo un «decennio felice», segnato dal trionfo della civiltà del benessere, generata da una prosperità economica senza precedenti, nell’Occidente industria- lizzato. La crescita economica e il consolidarsi di un avanzato sistema di welfare sono i tratti determinanti della golden age. L’immagine, probabilmente più adatta, per descrivere ancora oggi questa società, dominata dal progresso e dalla crescita esponenziale dei consumi privati e dal riconoscimento di una nuova categoria di diritti, quelli sociali, è il best seller dell’economista americano John Kenneth Gal- braith, La società opulenta. Gli anni Sessanta rappresentano uno spartiacque nel fluire della storia contemporanea, una «stagione ponte», in cui maturano alcune delle contraddizioni e delle conflittualità che esploderanno successivamente negli

anni Settanta1. Una fase di transizione, un momento, secondo Charles Maier, di

cesura nella storia del XX secolo2. È un periodo caratterizzato dall’egemonia e,

nello stesso tempo, dall’inizio del declino delle ideologie, le quali assolvono a una funzione in passato svolta dalla religione e dalla filosofia, attraverso cui interpretare e rispondere ai grandi quesiti della storia e della vita. Anni in cui maturano una pluralità di radicali trasformazioni come il consolidarsi della società dei consumi, lo sviluppo dei mass media, la diffusione della radio e della televisione e la rivoluzione dei trasporti, che permettono all’uomo, secondo le parole di Marshall McLuhan, celebre teorico delle comunicazioni, di entrare in un «mondo nuovo di zecca fatto di subitaneità», dove «il tempo è cessato, lo spazio svanito»: il cosiddetto «villaggio globale». Cambiano radicalmente le mode e i costumi. Al di là degli aspetti folklo- ristici e delle musiche di Jimi Hendrix, una nuova generazione dà vita all’avventura degli hippy, fatta di love-ins, sit-ins, più o meno pacifisti.

Ma gli anni Sessanta consolidano, sulla scena internazionale, un mutamento epocale, caratterizzato da quella rivolta dei popoli dell’Asia, dell’Africa e dell’Ame-

1. F. Romero, Storia della guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Torino 2009; J. Fourastié,

Les trente glorieuses ou la révolution invisible de 1946 à 1975, Paris 1979.

2. C.S. Maier, Consigning the 20th Century to History Alternative Narratives for the Modern Era, in «American Historical Review», n. 105, 2000, pp. 807-831.

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rica Latina, che, secondo Geoffrey Barraclough, è «il sintomo più sicuro del sorgere

di una nuova era»3 che ci consegna, in un tempo relativamente breve, un mondo

non più eurocentrico, atlantico o solo bianco, né tanto meno autoreferenzialmente imbalsamato nei vincoli e nelle ragioni della Guerra fredda. Giovani popoli, nuove nazioni e antiche culture chiedono spazio e dignità alla comunità internazionale, rivendicando un mondo più attento ai loro bisogni e meno concentrato sui propri problemi. Gli anni Sessanta chiudono un ciclo, quello di una vera e propria «età europea». «Nuovi soggetti irruppero sulla scena della storia, mettendo in crisi

questo plurisecolare predominio»4.

Paolo VI coglie con lucidità come il processo di decolonizzazione costituisca un passaggio decisivo per la storia contemporanea e per il futuro del suo stesso pontificato. Un avvenimento all’origine di una serie di rivolgimenti che mettono in discussione l’impianto tradizionale della missione cattolica, segnando il passaggio da un cristianesimo «straniero» a uno autoctono. Il cardinale Achille Silvestrini, per lunghi anni responsabile della politica estera della Santa Sede, ricorda come «quando si parla del maggiore evento della Chiesa di questo secolo si cita sempre il Concilio Vaticano II. Si dimentica che in parallelo al Concilio c’è stata la deco- lonizzazione. Per la Chiesa è stato un fatto straordinario, che ha dato un nuovo slancio, ha permesso di aprirsi vie per evangelizzare nuovi popoli. Tutti i paesi di

nuova indipendenza hanno avuto l’incoraggiamento e l’appoggio della Chiesa»5.

La decolonizzazione è, come sostiene Hobsbawm, uno dei più grandi avvenimenti

del Novecento6 e per il cattolicesimo occidentale «romano» un passaggio storico

epocale, i cui effetti e risvolti non sono stati ancora debitamente ricostruiti sul piano storiografico. Un giro di boa decisivo, per la Chiesa, nella riscoperta del volto di un «altro», nel significato profondo del diverso da sé. La decolonizzazione offre al pontefice un’opportunità inedita, quella di sviluppare, senza nessuna inter- mediazione, una nuova geografia di relazioni, con le giovani Chiese locali e con i problemi vitali della contemporaneità. Il 23 dicembre 1963, parlando alla Curia romana, Paolo VI afferma: «La nostra missione universale di Pastore delle genti Ci fa guardare con immensa simpatia e con amoroso interesse alle nuove nazioni che sorgono in questi anni alla coscienza, alla dignità e alla funzione di stati liberi

e civili […]»7. Sin dall’inizio, sottolinea la necessità di guardare con maggior senso

di responsabilità ai popoli in via di sviluppo e moltiplica i suoi appelli ai respon-

3. G. Barraclough, Guida alla Storia contemporanea, Roma-Bari 1971, pp. 157-158.

4. K.M. Panikkar, Storia della dominazione europea in Asia dal Cinquecento ai giorni nostri, Torino 1972.

5. A. Silvestrini, Quando il Vaticano pensa il mondo, (Tavola rotonda), in «Limes», giugno-agosto, 3 (1993), p. 16, con interventi di Michael Fitzgerald, Philippe Levillain, Andrea Riccardi e Pietro Scoppola.

6. E.J. Hobsbawm, Il secolo breve, cit., p. 437.

sabili europei a guardare al di là dell’equatore, evitando il ripiegamento egoistico su loro stessi. Paolo VI è convinto «che i destini della pace mondiale si giochino nell’immensa area del sottosviluppo, ove molto spesso il Cristo e il pane hanno

questo in comune: di essere entrambi sconosciuti»8. Il Vaticano diventa un punto

di riferimento autorevole, per le giovani nazioni, frequentato da numerosi leader politici del Terzo Mondo, che guardano alla Santa Sede, con stima e riconoscenza, per l’azione della Chiesa. «Voi siete la coscienza dei popoli», scrive al pontefice il presidente del Senegal Léopold Senghor. Tra le più importanti novità degli anni Ses- santa, c’è senza dubbio il mutato atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti del Terzo Mondo e il rapporto con la mondialità. Paolo VI è un acuto osservatore della scena internazionale, i cui complessi problemi politici e religiosi maneggia con competenza, come dimostra in una conferenza di grande respiro, tenuta il 27 aprile

1962, all’Ispi di Milano9. Non sono, a suo avviso, le contrapposizioni politiche e

ideologiche le vere cause dell’instabilità internazionale, quanto la fame, l’ingiustizia e la rabbia che dominano i sentimenti dei popoli, al di là dell’equatore. Critica la formula dell’«equilibrio del terrore», come deterrente per salvaguardare la pace, tanto che nelle prime allocuzioni al Corpo diplomatico ne condanna l’immorali- tà, la dispendiosità di mezzi ed energie, che dovrebbero essere consacrati ad altri scopi, e la competitività antieducativa, all’opposto di quei valori come la concordia e l’intesa reciproca. Descrivendo le relazioni Nord-Sud, ricorre con frequenza a termini come rancore, risentimento, sfiducia, animosità. «Sale dal Terzo mondo una richiesta di aiuto, che da fiduciosa attesa si sta facendo terribile denuncia, la quale potrebbe esplodere in collera irrefrenabile, le cui conseguenze potrebbero essere

funeste per la pace e per il vero progresso […]»10. Nel Radiomessaggio natalizio del

22 dicembre 1964, elenca tra i pericoli che rischiano di frantumare la fratellanza

tra gli uomini, il nazionalismo, il rinascente nazismo e il dilagante militarismo11. A

un mondo diviso in blocchi contrapposti e dominati dalla paura, Montini oppone l’equilibrio del dialogo o come scrive Jean-Dominique Durand, la «civilisation de la

confiance», da realizzarsi attraverso le giuste mediazioni culturali e politiche12. Non

è possibile cogliere la novità della portata teologica e culturale e la lungimiranza della Populorum progressio, se non la si colloca nel quadro delle grandi sfide della società del suo tempo, che Paolo VI raccoglie sulla scia del Concilio, facendosene attento interprete.

8. G. Zizola, La diplomazia vaticana in «Studium», LXII, 3, 1966, p. 163.

9. G.B. Montini, Il Concilio ecumenico nel quadro storico internazionale, in «Relazioni Internazio- nali», XXVI, n. 24, 1962, pp. 693-696.

10. «La Civiltà Cattolica», III, 4 luglio 1970, p. 175.

11. Radiomessaggio Natalizio al mondo per la fraternità vera operante universale, 22 Dicembre 1964, in Insegnamenti, II, 1964, pp. 759-766.

12. J-D. Durand, Paul VI, un pontificat à la recherche d’une civilisation humaine, in Verso la Civiltà

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L’enciclica è pubblicata alla vigilia di una nuova stagione nella storia delle rela- zioni internazionali, segnata dal progressivo miglioramento dei rapporti tra le due superpotenze e dal passaggio dalla cosiddetta distensione alla società del disordine bipolare. Nel giro di pochi anni il mondo si trasforma in un unico planetario campo strategico, che rende tutte le nazioni improvvisamente interdipendenti. La crisi di Cuba porta le due superpotenze alla serena accettazione della parità strategica, tanto che gli esperti di entrambi gli schieramenti concordano che sia giunto il mo- mento di «regolamentare la rivalità». Russi e americani non hanno altra opzione

che trasformare la rivalità in collaborazione13. La ricerca di rapporti più distesi tra

i due schieramenti, «[…] non è figlia di un mondo finalmente pacificato – come scrive Giorgio Caredda –, ma al contrario frutto d’una paura ancora maggiore di quella che aveva caratterizzato il primo decennio successivo alla Seconda guerra mondiale: è proprio la volontà di scongiurare il rischio che dalle crisi locali si

giunga alla distruzione totale, resa possibile dagli arsenali atomici […]»14. Anche

dal Terzo Mondo la voce del movimento dei non allineati collega la pace alla que- stione cruciale dello sviluppo, rivendicando l’urgenza di liberare risorse attraverso un processo di ampio disarmo tra i due blocchi. La firma del Trattato del 5 agosto 1963 sulla messa al bando degli esperimenti atomici nell’atmosfera, primo timido approccio al controllo degli armamenti, rompe quel clima di incomunicabilità tra le due superpotenze, segnando un punto di svolta nella storia delle relazioni interna- zionali. L’immagine di un mondo unificato dal pericolo della distruzione nucleare e il nuovo clima prodotto dalla distensione fanno affiorare una nuova sensibilità internazionale, estranea alle premesse ideologiche e politiche che avevano dato fon- damento alle ragioni della Guerra fredda, che fanno incontrare due tipi di protesta, quella che matura nell’università della California e tra i giovani delle città europee, nutrita dal sogno pacifista di Martin Luther King, del rifiuto del consumismo e dai linguaggi della pop art e della musica dei Rolling Stones e quella che sale dal Terzo Mondo, anticolonialista, antimperialista, che invoca l’autodeterminazione e la liberazione delle giovani nazioni dalla miseria e dall’oppressione, attraverso una paritetica cooperazione economica e culturale. Le giovani generazioni fanno del pacifismo, del rifiuto della leva e della solidarietà internazionale i contenuti della loro alternativa di vita. Nonostante il nuovo clima internazionale generato dalla distensione, le due superpotenze incontrano non poche difficoltà a stabilizzare e controllare la propria zona di influenza. La distensione è messa alla prova dallo scoppio di una serie di crisi politiche «a bassa intensità», soprattutto nei paesi del Terzo Mondo, alla periferia dei rispettivi imperi, oggetto di confronto tra i due blocchi o prodotte da specifiche tensioni interne ai singoli paesi, che viste nel loro insieme ci danno la dimensione della vastità e dell’instabilità del quadro politico

13. L. Freedman, The Evolution of Nuclear Strategy, London 1981, pp. 192-193. 14. G. Caredda, Le politiche della distensione, 1959-1972, Roma 2008, p. 9.

internazionale, frutto anche dell’inedita crisi egemonica americana e dell’ascesa di nuovi protagonisti. Una precarietà avvertita con preoccupazione dalla Santa Sede,

che teme una scomposta deriva del quadro internazionale15.

È questo lo scenario internazionale all’interno del quale l’enciclica prende forma, come espressione compiuta del pensiero del papa sui problemi del Terzo Mondo. Ma la Populorum progressio è anche la risposta alla questione chiave degli anni Sessanta, quella dello sviluppo e delle sue ricette per emancipare il Terzo Mondo dalla sua miseria.

Il mito dello sviluppo: dal take off all’equità sociale

Dopo la Seconda guerra mondiale, un nuovo protagonista sale alla ribalta della

scena internazionale, il cosiddetto «Terzo Mondo»16. Come scrive Léopold Sédar

Senghor, un evento che segna «la presa di coscienza, espressa su scala planetaria della loro eminente dignità, da parte dei popoli di colore; e con ciò la morte del

loro complesso di inferiorità»17. La decolonizzazione, per quella generazione dei

padri della patria, che va da Kwame Nkrumah a Julius Nyerere, ad Amilcar Ca- bral, a Jomo Kenyatta, a Patrice Lumumba, a Habib Bourguiba, a Sékou Touré, è l’evento che muta l’ordine universale della storia, attraverso un programma di «disordine assoluto». Disgregare l’ordine coloniale non significa solo abolire le frontiere, ma scrivere una pagina nuova della storia, frutto di una rivoluzione e non di un’amichevole intesa. Le aspettative che l’indipendenza porta con sé si traducono in diverse strategie di sviluppo, amalgamate da un variegato pantheon

15. A Cipro un conflitto che mette a dura prova il sistema dell’Alleanza atlantica e porta alla rottura delle relazioni diplomatiche tra Atene e Ankara. Una sequenza di colpi di Stato diffondono instabilità e insicurezza, mettendo in discussione la validità del modello democratico: in Togo è assassinato il presidente Sylvanus Olimpio, in Iraq è rovesciato il regime di Abdul Al-Karim Kassem, in Perù è destituito il presidente Ricardo Pérez Godoy, in Guatemala è estromesso Miguel Ydígoras Fuentes. Nella Repubblica Dominicana un colpo di Stato mette fine alla presidenza di Juan Bosch. Nel Congo- Brazzaville, dopo gravi disordini il presidente Foulbert Youlou è costretto ad abdicare, lasciando il paese in balia di uno dei più cruenti conflitti nella storia dell’Africa post coloniale. In Algeria il padre della rivoluzione Mohammed Ben Bella è messo agli arresti dall’ex compagno d’armi Houari Boumedienne. Nella Repubblica Centraficana, in Alto Volta e in Nigeria i militari assumono il po- tere. In Africa, ancora una volta, è una guerra a far scoprire l’esistenza di popoli sconosciuti come i Vatussi, abitanti pacifici del Ruanda, al centro di una grave persecuzione. In Indonesia, T.N. Suharto depone il presidente Achmed Sukarno. In Argentina, i militari si insediano al vertice dello Stato con il generale Juan Carlos Onganía, mentre in Brasile l’11 aprile 1964 un colpo di Stato mette fine al regime socialisteggiante di João Goulart, temendo che il paese si stia «castrizzando». È il primo di una serie di golpe che trascineranno l’America Latina nella «notte della democrazia».

16. A. Sauvy, Le «Tiers Monde», Sous éveloppement et développement, a cura di G. Balandier, Paris 1956.

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di ideologie politiche, alcune più radicali, altre più moderate, che vanno dalla ne-

gritudine di Léopold Senghor, all’umanesimo di Kenneth Kaunda, alla ujamaa di

Julius Nyerere. La decolonizzazione è vissuta da questa prima generazione, come scrive Frantz Fanon, nel suo libro più famoso, I dannati della terra, come l’avvento di una nuova era fondata sulla negazione radicale del passato e sulla condanna

globale dell’esperienza coloniale18. Una nuova visione, quella del sottosviluppo, si

impone, per definire quell’insieme di paesi a basso reddito, che nelle pubblicazioni delle organizzazioni internazionali e tra gli economisti sono definite con una ter- minologia negativa economically backward areas, aree economicamente arretrate, che di lì a poco muterà in espressioni più ottimiste e meno discriminatorie: «paesi in via di sviluppo», per esprimere meglio un’idea di transizione piuttosto che una condizione di condanna. Una trasformazione dei rapporti Nord-Sud, sino ad allora organizzati secondo l’opposizione colonizzatori-colonizzati. «La nuova dicotomia “sviluppati”/“sottosviluppati” propone – scrive Gilbert Rist – un rapporto diverso, conforme alla nuova Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo e alla progres-

siva mondializzazione del sistema statale»19. La questione dello sviluppo domina

d’ora in poi la politica internazionale e, nello stesso tempo, monopolizza la ricerca teorica in campo economico, da parte degli accademici di ogni latitudine, nello sforzo di elaborare nuove concettualizzazioni, da applicare ai paesi emergenti, spe- rando che anch’essi possano ripetere quel virtuoso percorso sperimentato dai paesi europei: dall’arretratezza all’industrializzazione, dal sottosviluppo allo sviluppo, dalla povertà alla ricchezza.

Montini non è ancora papa quando il Segretario generale, ad interim, dell’Onu, U Thant, in seguito alla morte di Dag Hammarskjöld, in Congo, chiede all’Assem- blea generale, nel 1962, di proclamare il Decennio delle Nazioni Unite per lo svilup- po. L’economia dello sviluppo emerge come disciplina autonoma, secondo Gunnar Myrdal, dal rapido smantellamento del potere coloniale, dalle pressanti richieste da parte dei paesi sottosviluppati e, soprattutto, dalle tensioni internazionali, frutto della Guerra fredda, che hanno trasformato il destino dei paesi del Terzo mondo,

in una questione di rilevante interesse della politica estera mondiale20.

Attorno al tema della crescita economica dei paesi del Terzo Mondo si sviluppa una copiosa letteratura, sia in ambito accademico, che all’interno delle istituzioni internazionali, in particolare l’Onu. Il superamento di questa condizione transi- toria di inferiorità si può realizzare, secondo il sentire comune dell’epoca, a tre condizioni: applicando le ricette messe a punto dallo sviluppo capitalistico occi- dentale; rimuovendo quei valori e comportamenti antieconomici, presenti nelle culture delle società dei paesi del Terzo Mondo; realizzando un big push esogeno,

18. F. Fanon, I dannati della terra, Torino 1962.

19. G. Rist, Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Torino 1997, p. 77. 20. G. Myrdal, Asian Drama, New York 1968, p. 9.

proveniente dallo Stato o dagli organismi internazionali, con cui dar vita a quello

start up indispensabile alla crescita di queste economie depresse. Due scuole si

contendono il monopolio dello sviluppo, inteso come «crescita», tra il 1945 e il 1965: da un lato la teoria strutturalista o della «dipendenza», che ha come princi- pale centro di diffusione la Cepal, Commissione economica per l’America Latina, guidata dall’economista di origine argentina Raúl Prebisch, dall’altra quella della «modernizzazione» e degli «stati di crescita», elaborata da un gruppo di economisti del Mit, Massachusetts Institute of Technology e riconducibile al suo più autorevole

esponente Walt W. Rostow21, l’economista americano teorico della metafora orga-

nicista dello sviluppo. Rostow mette a fuoco la sua teoria aeronautica del decollo,

take off, un’espressione che contribuisce enormemente al successo dell’opera. Un

programma articolato in cinque tappe, attraverso cui le economie dei paesi in via di sviluppo sarebbero dovute passare dallo stadio della società tradizionale, il grado zero della storia, la condizione naturale del sottosviluppo, a quelle del decollo della maturità e, infine, all’ultima tappa, «il periodo del grande consumo di massa», quello del fordismo americano.

Le tesi dell’economista latinoamericano, Raúl Prebisch, sono contenute in uno studio pubblicato dalle Nazioni Unite, nell’aprile 1950, dal titolo: Studio Economico

sull’America Latina e alcuni dei suoi principali problemi. Il commercio internazio-

nale non rappresenta, a suo giudizio, per i paesi in via di sviluppo, un motore di crescita economica. I rapporti tra le due aree del pianeta sono caratterizzati da uno scambio ineguale, perché i secondi sono schiavi dei prezzi e della domanda dei

primi22. Prebisch e i suoi seguaci elaborano il proprio modello teorico secondo uno

schema centrato su un nuovo rapporto centro-periferia, grazie al quale superare le storiche asimmetrie, frutto della teoria economica di scuola liberale. Le idee e le visioni di Prebisch hanno grande popolarità tra i gruppi dirigenti dei paesi del Terzo Mondo, che ne faranno il loro manifesto ideologico e politico. Questo mo- dello teorico è centrato su una radicale riconsiderazione dei rapporti Nord-Sud e su una revisione del principio dei vantaggi comparati, che sino ad allora ha asse- gnato sviluppo e ricchezza solo ai paesi sviluppati. Nel contesto della tradizionale dottrina dello sviluppo, le idee e la visione della Cepal sono considerate, da alcuni

come rivoluzionarie e da altri come utopiche23.

21. W.W. Rostow, The Stages of Economic Growth. A Non-Communist Manifesto, Cambridge 1960, tradotto in italiano, Gli stadi dello sviluppo economico, Torino 1962.

22. Cfr. Cepal, Estudio economico de America Latina, Cepal, Santiago 1949; R. Prebish, The eco-

nomic-development of Latin America and its principal problem, Onu, New York 1950.

23. Sul finire degli anni Sessanta, l’impianto teorico delle analisi cepaline è radicalizzato dagli studi di un gruppo di giovani economisti latinoamericani: Celso Furtado, Osvaldo Sunkel e Pedro Paz,

Nel documento L'umanesimo di Paolo VI (pagine 54-88)

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