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Da più parti si sottolinea – al punto che ormai è un senso comune – come in Italia le questioni di ampio respiro vengano affrontate solo quando si manifestano nella loro forma più problematica: vale per la questione delle infrastrutture, del debito pubblico e, naturalmente, anche per l’immigrazione. Si registrano la difficoltà a vedere e comprendere i cambiamenti strutturali e una difficoltà ancora maggiore a intervenire. In particolare, gli studiosi sottolineano il rifiuto da parte della classe dirigente di riconoscere, a fenomeno abbondantemente avviato, come l’Italia si stesse trasformando da paese di emigrazione in paese di immigrazione.

Già alla metà degli anni Novanta, Guido Bolaffi, capo dipartimento del Ministero per gli Affari Sociali dal 1993 al 2001, riscontrava una realtà che si sarebbe rivelata di lunga durata. «In Italia l’immigrazione suscita interesse solo quando si presenta come emergenza o come problema di ordine pubblico. Scienze sociali, media e governo si preoccupano degli immigrati con modalità carsiche sull’onda di crisi o gravi tensioni e se ne dimenticano, invece, nei lunghi intervalli di quiete e di calma, spesso solo apparenti»1.

Gli attori del dibattito pubblico, le classi dirigenti e il mondo politico intervengono quindi nel momento in cui il problema assume i tratti dell’emergenza, ma con azioni dall’efficacia scarsa e, soprattutto, limitata nel tempo, generando quindi una situazione da emergenza continua.

Il risultato è che anziché pianificare una politica di medio-lungo termine ma dipanata in interventi ravvicinati, l’Italia ha da subito lasciato crescere il numero degli irregolari per intervenire poi con il colpo di spugna, peraltro non sempre efficace, delle sanatorie e delle regolarizzazioni.

Infatti, scrivono tre esperti di questioni migratorie, Marzio Barbagli, Asher Colombo e Giuseppe Sciortino, i programmi di regolarizzazione non sono una novità per l’Italia.

«A partire dalla sanatoria amministrativa lanciata dal ministero del Lavoro nel 1982 che regolarizzò circa 12.000 stranieri, gli stranieri presenti irregolarmente in Italia hanno potuto avvalersi di programmi di regolarizzazione nel 1986 (105.000 domande accolte),

1 Bolaffi, op. cit., p. 13.

nel 1990 (oltre 217.000 domande accolte), nel 1995 (245.000 domande accolte) e nel 1998 (217.000 domande accolte)»1.

Il risultato è che «l’ampia maggioranza degli stranieri presenti in Italia ha vissuto, almeno per un periodo, in condizioni di irregolarità prima di essere regolarizzato fruendo di uno di questi programmi. Nei fatti, la popolazione straniera in Italia è composta in larghissima misura da stranieri regolarizzati e dai membri delle loro famiglie che hanno potuto avvalersi del ricongiungimento familiare»2.

Data la mancanza di dati sistematici, è difficile ricostruire esattamente la portata delle regolarizzazioni e soprattutto i loro effetti sul processo di inserimento degli immigrati nella società italiana; tuttavia, affermano gli autori, «Le sanatorie degli anni

’80 e ’90 […] risultano essere state decisamente efficaci nel loro obiettivo dichiarato, consentendo a centinaia di migliaia di stranieri di fare ingresso – e permanere – nell’economia legale»3.

Secondo alcuni le sanatorie avrebbero fallito l’obiettivo di prosciugare la componente irregolare. Ciò può essere in parte vero per la sanatoria del 1990 che richiedeva la presenza sul territorio prima di una certa data. «I dati disponibili tuttavia suggeriscono quantomeno di usare una notevole cautela nel giudicare falliti i programmi di regolarizzazione precedenti. […] è da ritenersi probabile che i programmi di regolarizzazione siano sinora riusciti ad assorbire in misura significativa lo stock di stranieri irregolari presenti nel paese»4.

Quindi, non c’è traccia di una politica dell’accoglienza, di una pianificazione dei flussi, di percorsi di accompagnamento e inserimento; le istituzioni semmai prendono atto della presenza degli stranieri in condizione di irregolarità e ne regolarizzano la posizione, perché le espulsioni sono difficili da realizzare e troppo onerose e anche per una necessità oggettiva da parte del mondo produttivo.

Va però ricordato che le sanatorie non sono uno strumento tipicamente italiano. In realtà vi hanno fatto ricorso molti Stati europei, la Francia ancor più spesso dell’Italia.

L’Italia ha però regolarizzato un maggior numero di stranieri. Inoltre, «i paesi europei tradizionali importatori di manodopera hanno vissuto larga parte della propria

1 Marzio Barbagli, Asher Colombo, Giuseppe Sciortino (a cura di), I sommersi e i sanati. Le regolarizzazioni degli immigrati in Italia, op. cit., p. 7.

2 Barbagli, Colombo, Sciortino, op. cit., p. 8.

3 Barbagli, Colombo, Sciortino, op. cit., p. 9.

4 Barbagli, Colombo, Sciortino, op. cit., p. 9-10.

esperienza migratoria post-bellica in uno stato di sanatoria permanente e decentrata.

Sino al blocco del reclutamento internazionale di manodopera operato nei primi anni

’70 dai paesi dell’Europa settentrionale, l’irregolarità era una pratica endemica dei flussi di lavoratori che, dopo essere entrati nel paese al di fuori dei canali ufficiali di reclutamento, ottenevano facilmente il permesso di lavoro e il titolo di soggiorno in presenza di un datore di lavoro disponibile ad assumerli»1. Nel periodo postbellico, questa procedura è stata largamente adottata in Francia, in Germania, in Olanda ecc.

«Non a caso, il cambiamento radicale nelle politiche migratorie europee non ha riguardato soltanto il blocco del reclutamento attivo di lavoratori sul mercato internazionale del lavoro ma anche, e forse soprattutto, la chiusura di questi canali di regolarizzazione ex post, rendendo sempre più difficile una permanenza legale a chi non poteva dimostrare un ingresso regolare operato secondo le procedure previste. […] Gli ultimi decenni non hanno quindi visto la nascita del fenomeno sanatoria, quanto il passaggio da sanatorie permanenti e decentrate a programmi di regolarizzazione selettivi e gestiti in modo fortemente centralizzato»2.

Quanto alla tesi che l’adozione di programmi di regolarizzazione sia la prova del fallimento dello Stato italiano nel contrastare la permanenza migratoria irregolare, i tre autori affermano che, in realtà, il punto cruciale è la capacità di contrastare non tanto la presenza quanto il processo di formazione della popolazione straniera irregolare.

«Nonostante l’incremento nel numero di espulsioni effettuate, si registra infatti comunque dopo ogni programma di regolarizzazione il rapido ricrearsi di un segmento di popolazione straniera irregolare di dimensioni notevoli»3.

Quindi, «la peculiarità della situazione italiana non risiede tanto nella frequenza con la quale vengono adottati programmi di regolarizzazione, quanto dall’uso sistematico di tale strumento come equivalente funzionale di una politica attiva degli ingressi»4. In Italia è maggiore che altrove il consenso sull’esistenza di una domanda di lavoro straniero; tale esigenza è riconosciuta anche nella formulazione delle politiche migratorie italiane, attraverso il decreto flussi e il sistema delle quote. Eppure, le possibilità di ingresso legale per i lavoratori stranieri sono state nulle o quasi. «Dopo il blocco del rilascio dei permessi di lavoro del 1982, è seguito un intero decennio dove il

1 Barbagli, Colombo, Sciortino, op. cit., p. 12-13.

2 Barbagli, Colombo, Sciortino, op. cit., p. 13.

3 Barbagli, Colombo, Sciortino, op. cit., p. 14.

4 Barbagli, Colombo, Sciortino, op. cit., p. 15.

contingente di ingressi legali è stato pari a zero o ristretto a poche migliaia di lavoratori, generalmente domestici. Le procedure previste dalla legge n. 943 del 1986 sono state disattese praticamente dal momento della sua approvazione, sovente proprio sulla base della considerazione che i datori di lavoro avrebbero potuto avvalersi dei cittadini stranieri regolarizzati. Per alcuni anni, i decreti di programmazione degli ingressi sono stati emanati negli ultimi giorni dell’anno ai quali si riferivano, vanificando di fatto interamente la loro funzione»1.

A proposito dell’approccio al tema della presenza irregolare, la posizione di Guido Bolaffi è molto polemica. «Dopo l’emanazione della legge n° 943 del dicembre del 1986, (ricordata più per la “sanatoria” delle situazioni illegittime che per le disposizioni sostanziali e innovative), fin dall’inverno dell’89 il legislatore aveva preferito la via di urgenza, limitandosi a introdurre poche modifiche a un decreto che venne convertito, tra molti contrasti, nella legge dai più conosciuta come Martelli»2. Questo provvedimento in realtà non ha l’obiettivo di riordinare per intero la materia, ma solo di anticipare una più organica disciplina in tema di asilo, soggiorno, assistenza sanitaria, lavoro autonomo e istruzione. Alla fine del 1990 il governo presenta effettivamente un apposito disegno di legge, ma questo cade nel dimenticatoio. «Successivamente – continua Bolaffi – non sono state poche, anche se quasi tutte inutili, le iniziative tese a modificare la legge Martelli»3.

Il risultato è un «prolungato, inconcludente girare a vuoto fatto di interventi spesso solo annunciati»4. Un’inconcludenza che affligge il sistema politico nel suo complesso e l’azione delle amministrazioni di governo e che quindi contribuisce ad aggravare i problemi.

L’intervento in tema di immigrazione – il metodo, fallimentare, dell’emergenza – è strutturalmente inadeguato, anche per un problema di «natura culturale, […] legato al tenace rifiuto della classe dirigente italiana a identificarsi nel ruolo imposto dalla trasformazione del nostro paese da terra di emigrazione in nuova nazione di immigrazione»5. Eppure gli stessi dati statistici hanno iniziato a parlare ben presto di una realtà che ha cominciato precocemente ad assumere consistenza: lo si apprezza ad

1 Barbagli, Colombo, Sciortino, op. cit., p. 16.

2 Bolaffi, op. cit., p. 14.

3 Bolaffi, op. cit., p. 14.

4 Bolaffi, op. cit., p. 16.

5 Bolaffi, op. cit., p. 18.

esempio dal numero degli studenti stranieri iscritti nelle scuole italiane, che passa, secondo i dati ISTAT, da un totale di 8.400 (dalla materna alle medie superiori) dell’anno 1983-84 a 15.583 del 1989-90, a 27.155 di due anni dopo. Nello stesso periodo triplica anche il numero di figli di coppie di origine straniera: da 5.415 a 15.755 unità. «Ma né la questione delle rimesse e neppure quella del crescente numero degli scolari stranieri sembrano aver interessato più di tanto i nostri decision makers»1, come dimostra il fatto che ciò è stato ritenuto più urgente è stato favorire, con la legge del 1992, l’accesso alla cittadinanza dei discendenti degli emigrati italiani all’estero.

La conclusione di Bolaffi è durissima. «Si penalizzano gli immigrati e si premiano i vecchi emigrati, punendo il nuovo per favorire il vecchio. Un atteggiamento che, oltre a cercare di fare girare all’indietro le lancette della storia, usa la memoria della sofferenza patita dai “nostri” ai tempi dell’antica emigrazione quasi come un salvacondotto morale per giustificare il lassismo e lo scarso rigore delle nostre autorità verso l’odierna immigrazione straniera. Un atteggiamento che all’ombra di questa falsa e astorica analogia per molti rappresenta un vero e proprio alibi autoassolutorio di fronte ai tanti, gravi ritardi delle istituzioni»2.

1 Bolaffi, op. cit., p. 23.

2 Bolaffi, op. cit., p. 27.