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La Howard University e la comunità intellettuale afro-americana

L’espressione “militancy is a strategy, not a goal” rispecchia appieno la posizione accademica di Frazier, tra la seconda metà degli anni Trenta e la fine degli

292 Frazier, “The Role of the Social Scientist”, cit., p. 18. 293 Williams, In search of the Talented Tenth, cit., p. 2617.

90 anni Quaranta.294 In un contesto nel quale l’oggettività dello studioso era stata portata ai suoi massimi estremi, al punto da provocare una radicale “bifurcation of self into public and private, scientist and citizen”,295 Frazier ridusse i propri contributi espressamente politici, ma non rinnegò le proprie idee, né esse smisero di influenzare la sua attività accademica. L’adeguamento formale ai canoni professionali della sociologia, e in particolare alla value-free sociology della Chicago school, permise a Frazier di operare all’interno del dibattito sulle relazioni razziali con la visibilità e, soprattutto, l’autorità conferita dalla propria professione. Questo processo non fu, tuttavia, solamente frutto di una genuina fiducia nella ricerca scientifica su base oggettiva, o di una mera strategia di carriera. Esso fu il prodotto di una precisa scelta politica.

Per quanto l’ascesa dei sistemi totalitari, e in particolare del Nazismo tedesco, avesse posto nuovamente il problema dell’imparzialità dello studioso in relazione al tema della democrazia, il dibattito sociologico sulle relazioni razziali, ancora dominato dalla Chicago school, continuò a svilupparsi su un terreno fondato sulla formale neutralità dello studioso.296 Nella pratica, le pretese di neutralità e oggettività assoluta avanzate dagli scienziati sociali nei confronti delle relazioni razziali funsero da paravento per l’elaborazione di modelli teorici tutt’altro che neutrali.297 Lo scientismo degli anni Trenta, e in particolare l’enfasi posta sull’analisi quantitativa dei dati tramite l’utilizzo della statistica, non spogliò gli scienziati sociali delle proprie convinzioni ideologiche. Al contrario, avvalorati dalla ricerca empirica, tali princìpi ― perlopiù elaborati a priori ― furono rafforzati e legittimati da un punto di vista scientifico nella maggior parte dei casi. Come si vedrà, tale aspetto divenne

294 Il sociologo Carl Jorgensen si è servito di questa espressione per descrivere l’attività politica di

Booker T. Washington in opposizione a Frederick Douglass. Carl Jorgensen, “Booker T. Washington and the sociology of black deficit”, in Donald Cunnigen (ed.), The Racial Politics of Booker T.

Washington, New York, JAI Press, 2006, p. 106. 295 Bannister, Sociology and Scientism, cit., p. 234.

296 Ciò fu in parte dovuto al fatto che, rispetto a economisti, scienziati politici e social worker, i

sociologi vennero impiegati in misura minore dalle istituzioni in qualità di service intellectuals. Lawrence Rhoades, A History of the American Sociological Association, 1905-1980, American Sociological Association Publication, 1981, pp. 19-20

91 particolarmente evidente a metà del decennio, quando al race relations cycle di Park si oppose un altro modello interpretativo, ad opera di William Lloyd Warner.

La posizione di Frazier e di altri black sociologists nel contesto accademico mette ulteriormente in evidenza gli aspetti fortemente ideologici del dibattito sociologico sulle relazioni razziali. Da un punto di vista politico e socio-economico, il processo di racialization aveva privato gli afro-americani dei diritti civili e politici. “It is a peculiar sensation” aveva scritto Du Bois in The Souls of Black Folk,

this double-consciousness, this sense of always looking at one’s self through the eyes of others, of measuring one’s soul by the tape of a world that looks on in amused contempt and pity. One ever feels his two-ness,—an American, a Negro; two souls, two thoughts, two unreconciled strivings; two warring ideals in one dark body, whose dogged strength alone keeps it from being torn asunder.298

Per coloro che, come Frazier, aspiravano ad un ruolo all’interno dell’accademia, la doppia coscienza si manifestava tramite il confronto quotidiano con le teorie sulla razza che negavano agli afro-americani le capacità cognitive e di astrazione necessarie per ricoprire una posizione intellettuale. Come evidenziato da Paget Henry, “this ‘Calibanization’ of Africans could not but devour their rationality and hence their capacity for philosophical thinking”:

As a biological being, Caliban is not a philosopher. He or she does not think and in particular does not think rationally. […] rationality was a white trait that, by their exclusionary racial logic, blacks could not possess. Hence the inability to see the African now reinvented as Caliban, in the role of sage, philosopher, or thinker. In short, this new racialized identity was also the death of Caliban’s reason.299

Du Bois, Charles Johnson, lo stesso Frazier rappresentavano delle ‘anomalie’ rispetto alle masse inassimilabili che costituivano il Negro problem. “In American

298 Du Bois, “Of our spiritual strivings”, cit., p. 5. 299 Henry, Caliban’s Reason, cit., p. 12.

92 society”, scrisse Frazier al termine della propria carriera, “the very presence of a Negro intellectual has been a paradox.”300 In un panorama culturale e politico in cui il Negro incarnava l’antitesi dell’essere razionale, l’unico modo per giustificare la sua presenza nell’ambiente accademico era negare la sua blackness. “Quite gentlemanly and mentally white” fu la definizione che Frank Hankins, il suo professore presso la Clark University, diede di Frazier in una lettera di raccomandazione.301

In qualità di sociologo, Frazier non dovette solamente imparare “how to survive as a smart Negro, as a confirmed atheist, and as an activist interested in radical politics […] with his body and self-respect intact.”302 Il razzismo delle scienze sociali e la selettività del contesto professionale implicavano un crocevia politico, che andava oltre la necessità di assicurare la propria presenza fisica in ambito accademico. Scontrarsi direttamente con il sapere egemonico, e quindi collocarsi al di fuori del dibattito accademico, significava assicurarsi una libertà di critica più radicale, ma anche rinunciare all’autorità conferita dal riconoscimento professionale. A tale soluzione approdarono, seppur inizialmente loro malgrado, intellettuali come Du Bois e ― come si vedrà ― Frantz Fanon. Al contrario, il dialogo con il pensiero egemonico offriva la possibilità di influenzare il dibattito accademico dall’interno, ma obbligava lo studioso a sottoporsi al rigido controllo della comunità scientifica.

Fiducioso nei confronti delle possibilità di riforma della sociologia, durante gli anni Trenta e Quaranta Frazier ingaggiò con il razzismo scientifico un confronto non sempre facile né efficace, ma da cui si evince una precisa finalità politica. Così come per i propri colleghi bianchi, anche per Frazier la value neutrality divenne, quindi, un mezzo più o meno implicito tramite cui portare avanti una battaglia ideologica all’interno dell’accademia. Il silenzio del sociologo nei confronti del dibattito teorico sul ruolo dei valori nelle scienze sociali fu, infatti, controbilanciato

300 Frazier, “The Role of the Social Scientist in the Negro College”, cit., p. 9. 301 Frank Hankins cit. in Platt, E. Franklin Frazier Reconsidered, cit., p. 48. 302 Platt, E. Franklin Frazier Reconsidered, cit., p. 19.

93 dai tentativi pratici di costruire un’interpretazione alternativa delle relazioni razziali negli Stati Uniti, che fungesse da supporto teorico per la lotta per i diritti civili, politici e sociali degli afro-americani. In particolare, il ruolo di Frazier fu determinante nel favorire il passaggio da una analisi delle relazioni razziali basata su differenze di carattere biologico, ad una che tenesse in considerazione soprattutto il contesto storico, socio-culturale ed economico.

Allo stesso tempo, la peculiare posizione occupata da Frazier nel contesto accademico mette in discussione il modello dicotomico pubblico/privato = accademia/politica, su cui si basava il concetto stesso di value-free sociology. Per Frazier, la separazione tra pubblico e privato, vale a dire tra una dimensione professionale, caratterizzata dall’oggettività dello studioso intesa come assenza di preconcetti ideologici, e una sfera personale nella quale relegare le proprie convinzioni politiche, assunse caratteri meno netti. Nel contesto sociale e intellettuale afro-americano, il sociologo continuò, infatti, ad essere ampiamente noto per il proprio impegno politico. Le barriere fisiche poste dalla color line giocarono un ruolo fondamentale nel consentire a Frazier di mantenere questa immagine pubblica ambivalente, a metà tra il professionista di fama nazionale e l’intellettuale militante noto soprattutto all’interno della comunità afro-americana.

Durante gli anni Trenta e Quaranta, il sociologo si destreggiò, quindi, tra una realtà interdisciplinare e fortemente politicizzata come quella della Howard University, e un dibattito sulle relazioni razziali dichiaratamente neutrale su scala nazionale.303 In un racconto autobiografico, Hylan Lewis ha descritto l’arrivo del sociologo alla Howard e ha ben evidenziato il doppio status di cui Frazier beneficiava:

Frazier […] came to the university as an academic star-that is, with a reputation based upon scholarly achievements, publications, and ongoing research. The reputation and status of some senior contemporaries were tellingly enhanced for junior faculty if their activities and achievements had included political activism and/or

94 acting as mentors for more junior persons. Frazier had been a

rebellious character in the early 1930s; it was said that whites had thrown him out of Atlanta because he was too radical. Therefore, he came to Howard with a reputation as an activist, adding to his star status.304

Non vi è, inoltre, dubbio sul fatto che Frazier stesso si percepisse come tale, e che sentisse su di sé la responsabilità di portare avanti l’opposizione al razzismo scientifico e istituzionale attraverso la propria attività intellettuale all’interno dell’accademia. L’ambiente della Howard gli consentì di sviluppare questo progetto insieme ad alcuni degli intellettuali presenti ad Amenia, ora suoi colleghi.

Il sociologo afro-americano si trasferì a Washington, DC nel 1934 e vi rimase, ad eccezione di alcuni periodi trascorsi all’estero, per il resto della propria carriera. Il contesto istituzionale della Howard University è, quindi, di fondamentale importanza per inquadrare l’attività accademica di Frazier, e in particolare il contrasto tra teoria e prassi. In particolare, questo black college aveva attraversato una profonda trasformazione in seguito all’elezione del suo primo presidente afro- americano, il pastore battista Mordecai Johnson, avvenuta nel 1926.

Come si è visto nel precedente capitolo, durante gli anni Dieci la Howard era un’istituzione piuttosto conservatrice, ostile ai black studies e all’attivismo. Il consiglio di amministrazione aveva rifiutato categoricamente tutte le proposte per la creazione di corsi specifici sulla storia, la cultura e l’arte afro-americana presentate da parte del corpo docente: dai primi tentativi di Kelly Miller, a quelli successivi di Alain Locke e Carter J. Woodson. Divenuto dean dell’università poco dopo la laurea di Frazier, Woodson aveva lasciato la Howard nel 1919, proprio a causa dell’ennesimo giudizio negativo dato dal board of trustees ― composto per la maggior parte da bianchi ― nei confronti dell’istituzione di un corso in black studies. Durante il decennio successivo, la stessa partecipazione degli intellettuali della Howard al New Negro movement, in primis quella di uno dei suoi fondatori, Alain

304 Lewis, “A Focused Memoir”, cit., p. 22.

95 Locke, era avvenuta a titolo personale e in contrasto con il consiglio di amministrazione dell’università.305

A metà degli anni Venti, due eventi avevano contribuito a trasformare la Howard, e tale cambiamento si era rispecchiato nell’elezione di Johnson. I bassi salari avevano accresciuto il malcontento di parte del corpo docente non soltanto nei confronti del consiglio di amministrazione, ma anche del presidente J. Stanley Durkee, l’ultimo di una serie di white Congregationalists. Come evidenziato da Williams,

Not only were salaries low, there were significant inequities among Howard professors that contributed to faculty discontent. Ultimately, these inequities were attributed to favoritism on the part of President Durkee. Locke believed that Durkee awarded higher pay raises to professors who were loyal to him and punished those who opposed him with only meager raises.306

Contemporaneamente, gli studenti avevano contestato maggiormente e in maniera organizzata la rigida disciplina imposta dalla Howard, e in particolare l’obbligo a partecipare all’addestramento dei Reserve Officers’ Training Corps (ROTC).307 Nel 1925, il corpo studente aveva coordinato un boicottaggio del ROTC, che aveva portato ad una serie di provvedimenti disciplinari nei confronti di alcuni ragazzi. La protesta si era protratta per mesi e aveva messo a rischio l’approvazione dei fondi che la Howard riceveva annualmente su votazione del Congresso. Dopo una lunga negoziazione condotta dall’associazione degli ex-alunni della Howard, la rimozione

305 Williams, In search of the Talented Tenth, cit, pp. 516-30. 306 Ivi, p. 627.

307 Il ROTC fu introdotto su scala nazionale con il National Defense Act (NDA) del 1916, per gli

studenti universitari maschi. L’NDA riservò alle università la possibilità di decidere se la partecipazione ai programmi del ROTC dovesse essere un requisito obbligatorio o facoltativo per il completamento del percorso di studi, ma quasi tutti i college lo resero obbligatorio. Le proteste che investirono la Howard a metà degli anni Venti sono da collocarsi nel contesto di una crescente e diffusa opposizione al ROTC nei campus universitari dopo la Prima Guerra Mondiale. Vedi: Michael S. Neiberg, Making Citizen-Soldiers: ROTC and the Ideology of American Military Service, Cambridge, MA, Harvard University Press, 2009, pp. 23-34, e pp. 54-56.

96 del presidente dell’università era apparsa come la soluzione migliore per riconciliare il corpo studente e docente con il consiglio di amministrazione.308

La presidenza di Mordecai Johnson aveva segnato l’inizio di una nuova fase per la Howard. Già noto all’interno della comunità afro-americana come un uomo di “sound character, good judgment, and strong belief in social justice”,309 il pastore battista intendeva trasformare la Howard in un punto di riferimento per la comunità afro-americana, ma anche in un college in grado di competere con le migliori università del Paese. Questo progetto si era concretizzato nell’ampliamento dei dipartimenti e del personale, un risultato raggiunto tramite uno stretto controllo dei fondi e una redistribuzione del budget disponibile. Nel 1928, grazie al sostegno di un gruppo di rappresentanti repubblicani, il Congresso aveva concesso alla Howard dei finanziamenti annuali, di cui Mordecai Johnson si era servito soprattutto per incrementare i salari dei docenti. Durante la Depressione, la Howard si era trovata, quindi, nella condizione di attrarre ricercatori afro-americani con pubblicazioni di alto livello. La combinazione di questi elementi aveva reso questa università il più importante black college degli Stati Uniti. 310

Nel 1934, Frazier lasciò la Fisk, presso cui aveva ricoperto un breve incarico grazie all’intercessione di Charles S. Johnson, per divenire chairman del dipartimento di sociologia della Howard. Frazier condivideva con Mordecai Johnson l’aspirazione che la Howard, e in particolare il dipartimento di sociologia, potesse diventare uno dei centri accademici più importanti del Paese. I due, tuttavia, avevano opinioni completamente diverse sulla realizzazione di questo progetto. Da un punto di vista personale, l’ateismo di Frazier e la sua fiducia nel metodo scientifico mal si conciliavano con la religiosità di Johnson, e con la sua convinzione che il proprio lavoro presso la Howard fosse frutto di un preciso progetto divino ― un

308 Richard I. McKinney, Mordecai, The Man and His Message, Washington, DC, Howard University

Press, 1997, p.60.

309 Williams, In search of the Talented Tenth, cit., p. 946.

310 Clifford L. Muse, “Howard University and The Federal Government During The Presidential

Administrations of Herbert Hoover and Franklin D. Roosevelt, 1928-1945”, The Journal of Negro

97 atteggiamento che gli era valso il soprannome di black Messiah. Da un punto di vista istituzionale, poco dopo aver consolidato la propria posizione, Johnson sposò una linea meno conciliante nei confronti delle richieste del corpo docente. Entrambi gli aspetti provocarono frequenti attriti tra Frazier e Johnson. Mordecai Johnson sviliva spesso gli scienziati sociali del dipartimento, tentando di indicare loro quali fossero gli argomenti su cui fare ricerca. D’altro canto, Frazier mise in discussione l’autorità di Johnson e le sue qualifiche professionali.311

L’ostilità nei confronti di Mordecai Johnson era piuttosto diffusa tra gli scienziati sociali della Howard. Un circolo ristretto, in particolare, era solito riunirsi settimanalmente per discutere di questioni di carattere politico, ma anche di problemi che riguardavano l’ambiente universitario. I ‘thinkers and drinkers’ comprendevano, oltre a Frazier, Harris e Bunche, i sociologi Hylan Lewis, G. Franklin Edwards e Harry Walker, lo storico Harold Lewis, lo scienziato politico Sam Dorsey e il poeta Sterling Brown. Qualche anno dopo entrò a farne parte anche lo storico John Hope Franklin. “During our meetings”, ha ricordato Franklin,

there were no-holds barred discussions of a variety of social and intellectual topics, but we would invariably end up in a discussion of Howard University and its need to improve its intellectual and educational health. 312

Malgrado il moderato incremento dei finanziamenti, le scienze sociali non costituivano, infatti, una priorità d’investimento per la Howard: “The available limited funds were invested in the schools of medicine and dentistry.”313 Frazier, così come Harris presso economia e Bunche a scienze politiche, dovette spesso far fronte

311 Rayford Logan, Howard University: The First Hundred Years, 1867-1967, New York, NYU Press,

1969, pp. 249-250. Vedi anche: William A. Darity Jr. e Julian Ellison, “Abram Harris Jr.: The economics of Race and Social Reform”, History of Political Economy, Vol. 22, n. 4 (1990), pp. 611– 27.

312 John Hope Franklin, “E. Franklin Frazier: A Memoir”, in Teele (ed), E. Franklin Frazier and Black Bourgeoisie, cit., p. 18.

98 alla mancanza di fondi per la ricerca e l’amministrazione del dipartimento.314 Nel corso degli anni, le difficoltà economiche accrebbero il malcontento di Frazier nei confronti della Howard, poiché limitarono il suo progetto di trasformare questo black

college in un centro di eccellenza per la formazione di ricercatori afro-americani.

Con suo grande rammarico, il sociologo afro-americano non riuscì mai, ad esempio, ad istituire un programma di dottorato in sociologia.315

D’altra parte, non sarebbe corretto attribuire l’intera responsabilità della carenza di fondi per le scienze sociali alla presidenza di Mordecai Johnson. Frazier stesso non era mai stato un buon burocrate: il sociologo detestava il lavoro d’ufficio e gli impegni amministrativi e ciò influì sulle finanze del dipartimento. Per quanto la Howard fosse tra i black college più finanziati del Paese, i fondi a disposizione erano, in ogni caso, limitati dalle condizioni della Depressione: il divario economico con le università storicamente bianche (o predominatly white institutions, PWI) era enorme.

Anche sopravvalutare le conseguenze degli screzi tra Frazier e il pastore battista sarebbe errato. Sebbene i conflitti tra Johnson e il sociologo si ripetessero periodicamente, Frazier divenne uno dei professori più pagati della Howard e non fronteggiò particolari ostacoli burocratici nei confronti del proprio progetto di riforma dei curricula.316 Le prime decisioni prese da Frazier in qualità di chairman del dipartimento di sociologia riguardarono, infatti, la riorganizzazione dei corsi di laurea e il reclutamento del personale. Inizialmente, Frazier introdusse dei corsi di

social work all’interno del corso di laurea in sociologia, e li tenne personalmente. Il

dibattito sulla value neutrality e la consolidata separazione delle carriere di sociologo e social worker influenzarono la sua attività di chairman durante la seconda metà

314 Tali limiti spinsero Harris e Bunche a lasciare la Howard, il primo per la University of Chicago e

il secondo per Dipartimento di Stato. Williams, In search of the Talented Tenth, cit., p. 2326

315 Edwards, “E. Franklin Frazier”, cit., p. 113.

99 degli anni Trenta:317 si tradusse nella decisione di istituire un programma separato interamente dedicato al social work, e ― in seguito ― nella creazione di una School of Social Work.318

Alcuni dei vecchi docenti, ad esempio Kelly Miller, erano più vicini al concetto di social activist dell’età progressista, piuttosto che ai professionisti loro contemporanei. Altri, come il sociologo addottoratosi a Yale Henderson Donald, possedevano le qualifiche professionali adatte, ma non erano aggiornati sugli sviluppi più recenti della disciplina. Come ha ricordato Lewis, Frazier confrontò personalmente Donald sulla sua preparazione:

Frazier began to ask him [Donald n.d.r.] about his sociological interests and credentials. He once asked him about his activities in