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La rupe di Orvieto

Nel documento POLITECNICO DI TORINO (pagine 30-40)

L’area circostante il colle su cui sorge l’abitato di Orvieto (figura 1.10) è interessata da fenomeni di instabilità generati dall’evoluzione morfologica naturale del pendio, aggravata dagli effetti di interventi antropici negativi, quali lo scavo di gallerie e cavità di varie dimensioni, sia nella zona di piede sia in corrispondenza della piastra tufacea. Per lo studio del fenomeno ci si è basati sul lavoro di Barla et al. (1990), in cui, dopo un inquadramento del problema, vengono riportati i risultati ottenuti mediante l’utilizzo di due differenti modelli matematici, il metodo degli elementi finiti e il metodo degli elementi distinti.

Il metodo degli elementi finiti è stato utilizzato per esaminare tre diverse condizioni in cui il pendio può trovarsi. A seguito di questa analisi è stata condotta una modellazione numerica con il metodo degli elementi distinti, per verificare l’efficacia di un possibile intervento di rinforzo della rupe. Questo metodo infatti permette di studiare il comportamento meccanico dell’ammasso roccioso attraverso l’analisi delle interazioni fra gli elementi che lo costituiscono. Ciascun blocco, dotato di proprie caratteristiche di deformabilità e resistenza, è separato da interfacce, rappresentanti le discontinuità, a cui sono assegnate angolo d’attrito e deformabilità normale e tangenziale (Barla, et al., 1990).

Di seguito verrà prima definita la composizione stratigrafica della rupe, al fine di comprendere al meglio le scelte attuate nel corso della modellazione numerica. Poi verranno introdotti i due metodi spiegando i risultati ottenuti.

Figura 1.10 Rupe di Orvieto e il suo abitato

La rupe è costituita nella parte sommitale da una piastra tufacea, nella cui formazione si riscontrano due litotipi: litoide e pozzolana. Al di sotto dei tufi si ha la “Serie dell’Albornoz”, costituita da sedimenti fluvio-lacustri, di spessore variabile sino a 15 m. In

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fine, alla base si incontra uno strato omogeneo di argilla. Tale successione stratigrafica è chiaramente illustrata in figura 1.11.

Figura 1.11 Sezioni geologiche della rupe di Orvieto (Barla et al., 1990)

I meccanismi di instabilità individuati nell’elaborato sopra citato (Barla, et al., 1990) sono i seguenti (figura 1.12):

A. Scoscendimenti rotazionali coinvolgenti la zona detritica in superficie e il tetto della formazione argillosa. Tale fenomeno in certi casi comporta anche lo scalzamento al piede della parete tufacea;

B. Ribassamento di zolle marginali della balza tufacea;

C. Ribaltamento e/o rotolamento di blocchi di tufo;

D. Crollo e rottura basale di prismi tufacei;

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Figura 1.12 Principali meccanismi di instabilità (Barla et al., 1990)

Attraverso le indagini eseguite e i dati reperibili in letteratura è stato possibile definire i parametri geomeccanici caratterizzanti i litotipi presenti. Di seguito si riportano alcune delle informazioni che sono state necessarie per la definizione del modello numerico.

Nell’elaborazione della modellazione numerica le argille di base sono state considerate come un mezzo continuo, omogeneo ed isotropo in quanto, da un’osservazione delle carote estratte dai sondaggi, emerge che queste hanno un grado di fratturazione ridotto in profondità. Le uniche zone in cui si rilevano più sistemi di discontinuità sono le parti affioranti. In modo analogo anche la serie dell’Albornoz è stata assimilata ad un mezzo continuo omogeneo.

Per quanto riguarda la formazione tufacea si riscontra una frantumazione sistematica nella parte litoide, per poi annullarsi in corrispondenza della parte pozzolanica.

I giunti hanno superfici poco scabre e lineari. Possono essere identificati quattro sistemi di giunti principali, tutti subverticali:

• Un sistema di giunti parallelo al fronte, la cui frequenza diminuisce addentrandosi verso il centro della rupe;

• Un sistema circa perpendicolare al precedente, riscontrabile in più punti, con giunti molto persistenti, la cui estensione copre quasi tutta l’altezza della rupe;

• Due sistemi congiunti, i quali formano un angolo di circa 45° con il fronte. Questi sono localizzati al bordo della rupe e negli speroni isolati.

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Per tali ragioni la parte pozzolanica nella costituzione del modello è stata considerata un mezzo omogeneo continuo, mentre il tufo costituente la parte litoide, a causa della presenza di fratture, non può essere assimilata ad un mezzo continuo.

Attraverso il metodo degli elementi finiti sono stati studiati due modelli uno

“continuo” e uno “discontinuo”. Per quest’ultimo le fratture subverticali della parete tufacea sono state simulate attraverso l’introduzione di elementi giunto.

Per la definizione del modello si è scelta una sezione rappresentativa contenente le zone di maggior altezza della rupe, con condizioni che ben descrivono il sito d’interesse.

I modelli sono entrambi costituiti da 2100 elementi quadrilateri isoparametrici.

Quello “discontinuo” comprende inoltre 59 elementi giunto. I punti nodali sono 2195. Si osserva come la scelta della dimensione degli elementi costituenti la maglia non è casuale infatti sono stati utilizzate blocchi di minore dimensione nei punti in cui ci si aspetta una concentrazione di tensioni maggiore. Inoltre il passaggio dai blocchi più piccoli a quelli più grandi risulta essere graduale, conferendo omogeneità al modello (figura 1.13).

Figura 1. 13 Particolare del modello degli elementi finiti (Barla et al., 1990)

Le analisi sono state condotte in campo elasto-plastico, adottando per i diversi litotipi il criterio di resistenza di Coulomb. In tabella 1.3 sono riportati i valori assunti per i parametri di deformabilità e resistenza.

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Tabella 1.3 Parametri di resistenza e deformabilità adottati per la modellazione FEM (Barla et al., 1990)0.3

cp

(kPa)

cr

(kPa)

fp (°)

fr (°)

Ed

(MPa)

Ed post rott.

(MPa)

Detrito 0 0 35 35 50 --

Argilla

superficiale 0 0 18 18 50 --

Argilla

profonda 50 0 28 18 500 --

Albornoz 5 5 35 35 500 --

Tufo

lapideo 600 150 30 27 2000 1000

Tufo

pozzolanico 300 75 30 27 2000 1000

Giunti 30 0 30 30 -- --

Le cause scatenanti l’instabilità considerate nell’analisi con il metodo degli elementi finiti sono le seguenti:

A. Decadimento delle caratteristiche meccaniche del tufo e delle argille sottostanti;

B. Innesco di un evento franoso, al piede della rupe tufacea, interessante la coltre detritica ed il tetto delle argille. Ciò è stato simulato asportando del materiale appartenente alla coltre detritica e al tetto delle argille.

La figura 1.14 mostra uno schema riepilogativo delle analisi svolte. Lo stato tensionale iniziale è stato definito sulla base dell’applicazione del peso proprio agli elementi costituenti il modello.

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Figura 1.14 Condizioni esaminate nell’analisi FEM (Barla et al., 1990)

I risultati relativi alle diverse fasi di calcolo sono riportati sotto forma di curve di egual valore della tensione principale minima s3, della tensione principale massima s1 e del rapporto di mobilitazione, dato dal rapporto tra le tensioni massime di taglio agente e la resistenza a taglio disponibile sulla base del criterio di resistenza adottato (Barla, et al., 1990).

La configurazione iniziale, ossia quella soggetta al solo peso proprio dei litotipi, presenta uno stato tensionale molto differente dagli altri due casi esaminati. Nel modello continuo (figura 1.15 A) la concentrazione delle tensioni alla base della rupe è superiore al caso discontinuo (figura 1.15 C), nel quale si ha lo sviluppo delle zone soggette a trazione nella piastra tufacea. Sempre all’interno del modello continuo (figura 1.15 B) la zona plasticizzata è identificabile nella zona di passaggio tra l’Albornoz e l’argilla e in tutta la coltre detritica, mentre nel modello discontinuo è limitata all’area sottostante la parete (figura 1.15 D).

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Figura 1.15 Analisi FEM con configurazione iniziale. A sinistra modello continuo a destra modello discontinuo. Le figure A e C rappresentano le isolinee delle tensioni principali massima

e minima. Le figure B e D rappresentano le isolinee del rapporto di mobilitazione (Barla et al., 1990)

La riproduzione della condizione relativa al caso A (figura 1.14), comporta nel modello continuo un abbassamento dei valori di tensione nella fascia di tufo e nell’argilla sottostante (figura 1.16 A), zone per le quali si è imposto il decadimento delle caratteristiche meccaniche. Nel modello discontinuo la ridistribuzione tensionale è meno evidente e si assiste ad una riduzione delle zone di trazione dei blocchi (figura 1.16 C). Sia per il modello continuo che per quello discontinuo si osserva un ampliamento delle zone plasticizzate rispetto al caso precedente. Nello specifico appaiono evidenti zone plasticizzate anche in corrispondenza della parete tufacea soprattutto nel modello continuo (figura 1.16 B).

B

C

D A

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Figura 1.16 Analisi FEM con configurazione A. A sinistra modello continuo a destra modello discontinuo. Le figure A e C rappresentano le isolinee delle tensioni principali massima e minima. Le figure B e D rappresentano le isolinee del rapporto di mobilitazione (Barla et al.,

1990)

La riproduzione del caso B (figura 1.14) comporta risultati simili a quelli ottenuti attraverso il caso A. In particolare i valori del rapporto di mobilitazione in parete sono di poco inferiori al caso precedente mantenendo la medesima zona di plasticizzazione (figura 1.17).

A

B

C

D

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Figura 1.17 Analisi FEM con configurazione B. A sinistra modello continuo a destra modello discontinuo. Le figure A e C rappresentano le isolinee delle tensioni principali massima e minima. Le figure B e D rappresentano le isolinee del rapporto di mobilitazione (Barla et al.,

1990)

Da quanto osservato mediante le analisi dei tre casi riprodotti si può conclude che la scelta dei parametri geotecnici ha notevole influenza sullo stato tensionale iniziale. Per tale ragione l’individuazione di questi e delle condizioni iniziali rivestono un aspetto fondamentale per il calcolo numerico.

La presenza dei giunti influenza la distribuzione tensionale nel tufo, riducendo i valori di trazione in parete. I blocchi di valle tendono a ruotare sul piede fenomeno effettivamente riscontrato in sito.

Alla luce dei risultati ottenuti gli interventi proposti sono i seguenti:

• Interventi passivi atti al consolidamento della fascia corticale di tufo in parete;

• Interventi attivi con l’intendo di ricomprimere, per quanto possibile, il piede;

• Risistemazione del pendio circostante la rupe con attenzione alla zona di frana.

A

B

C

D

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L’efficacia degli interventi proposti è stata verificata attraverso l’utilizzo del metodo degli elementi distinti. In questo caso il procedimento è stato scomposto in tre fasi iniziali, che hanno consentito di condurre il modello alle condizioni effettive osservate in sito (figura 1.18). Nello specifico la fase “a” simula semplicemente le condizioni iniziali con l’applicazione dello stato gravitativo al modello. Nella fase “b” viene simulata l’erosione attraverso la rimozione dei due blocchi di tufo più esterni. La fase “c” permette il raggiungimento della configurazione reale attraverso la rimozione di un altro elemento di tufo e di un cuneo di Albornoz.

Figura 1.18 Modello numerico ad elementi distinti: simulazione delle fasi di erosione (Barla et al., 1990)

Giunti a questa fase di calcolo si ipotizza un meccanismo capace di indurre i fenomeni deformativi a cui è soggetta la rupe (scoscendimenti, rotazioni, ecc.). Viene quindi imposta la perdita di resistenza dei materiali alla base della parete per due modelli differenti: per il primo non viene previsto l’inserimento di alcun elemento di rinforzo, per il secondo si prevede invece la realizzazione dell’intervento. Dal confronto fra i risultati ottenuti mediante i due diversi modelli è possibile dedurre l’efficacia dell’intervento proposto. In particolare vengono confrontati gli spostamenti delle due configurazioni (figure 1.19 e 1.20).

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Figura 1.19 Spostamenti calcolati in assenza di intervento di consolidamento (Barla et al., 1990)

Figura 1.20 Spostamenti calcolati nel caso di realizzazione degli interventi di consolidamento (Barla et al., 1990)

Nel documento POLITECNICO DI TORINO (pagine 30-40)