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Il ladro di bambini

Ho raccontato un percorso, un viaggio. Non cambia nulla dove sei e perché, conta ciò che porti appresso.

Gianni Amelio

Il cinema di Gianni Amelio risulta permeato dalle figure meridiane individuate all’interno del pensiero meridiano, in particolare nel film Il ladro di bambini (1992) e nel più recente Il

primo uomo (2011), che narrano entrambi di viaggi meridiani. In tutto il cinema di Amelio è

intrinseca infatti una riflessione sul Meridione, esplicitata in questi due film, che si delinea come un’autoriflessione, analoga a quella dei pensatori meridiani, condotta dal cineasta sulle proprie radici e sul legame con la propria terra meridiana originaria.

Il viaggio si delinea come forma di racconto privilegiata all’interno della produzione cinematografica del regista contemporaneo Gianni Amelio. In particolare, il viaggio svolge una funzione centrale nel film Il ladro di bambini, dove il viaggio meridiano che i personaggi intraprendono non si risolve nel tragitto che questi tracciano nell’ambiente esterno, ma corrisponde ad un percorso soggettivo che compiono attraverso la propria interiorità. Il viaggio geografico si viene a configurare dunque nel film come metafora di un percorso psicologico ed intellettivo interno agli stessi personaggi, di un processo di identificazione personale e ricerca esistenziale.

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La tematica dell’erranza si rivela così intersecare la questione della costituzione identitaria. In particolare, il viaggio compiuto dai personaggi nel film ha la capacità di liberare quella dimensione emozionale e patetica più nascosta e relegata in profondità – soprattutto nel protagonista – elemento costitutivo di una molteplice identità, con cui i personaggi riescono nel corso del viaggio ad entrare in comunicazione e a dialogare. Il viaggio si viene a costituire così per i personaggi come un’occasione che permette loro di esplorare la propria interiorità, di scoprire uno spazio ignoto ed impercorso di sé con cui iniziano ad entrare in contatto, attraverso un itinerario di trasformazione di sé e di autoscoperta.

Il viaggio, inoltre, trasforma i rapporti e modifica le dinamiche interpersonali, favorendo il confronto e gli scambi culturali, personali ed intersoggettivi, ed intessendo nuove relazioni. In particolare nel film, la relazione tra i protagonisti subisce, nel corso del viaggio, un processo di evoluzione e di crescita: dalla distanza iniziale che separa l’adulto e i bambini, che si pone all’inizio quasi come un divario incolmabile che si frappone tra due mondi eterogenei ed incomunicabili, si assiste al progressivo dischiudersi di una reciproca apertura degli uni verso l’altro. La diffidenza e l’atteggiamento di ostilità che, all’assegnazione della missione, tengono distanti il carabiniere e i bambini, vanno via via dissolvendosi; il disconoscimento iniziale si trasforma, attraverso un percorso di accettazione e riconoscimento, in una relazione di interazione ed interdipendenza, in un legame affettivo che pone i protagonisti in un rapporto di intima unione.

Il terreno su cui si produce tale metamorfosi – relazionale, tra i diversi personaggi, ed interiore, all’interno dei protagonisti stessi – è il paesaggio meridiano. Tuttavia il paesaggio mediterraneo non si limita ad assolvere ad una funzione di sfondo, di cornice del processo trasformativo, viceversa assume esso stesso un ruolo da protagonista, configurandosi come l’agente che produce e fa scaturire tale metamorfosi delle dinamiche relazionali tra i personaggi e della loro costituzione identitaria. È infatti con la loro discesa nel Sud che si avvia una ricerca identitaria e con il loro approdo nel Meridione che inizia a dischiudersi la dimensione recondita

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ed inesplorata del sé ed uno spazio di apertura e confronto tra i protagonisti: il paesaggio mediterraneo, con le sue caratteristiche quali il mare, il sole, l’ozio, allenta le inibizioni, fa crollare le barriere che separano i personaggi l’uno dall’altro, ognuno dei quali fino a quel momento chiuso nel proprio isolazionismo.

La genealogia della tematica del viaggio, così come del tema del Meridione, ha in Amelio anche una matrice autobiografica. Il viaggio rappresenta infatti un nodo esistenziale dell’esperienza dell’autore, il cui padre è emigrato in Sudamerica abbandonando la famiglia in Calabria, ed “migrante” egli stesso. L’origine autobiografica del motivo del viaggio inquadra in particolare il viaggio dal nord al sud dell’Italia compiuto dai protagonisti del film come un richiamo alle radici culturali e, soprattutto, affettive dell’autore, come una confessione velata del legame con la sua storia personale e con la sua terra originaria. L’idea del viaggio che il regista ci restituisce è avventurosa e rocambolesca, raffigurando – come ha rivelato egli stesso – «il sentimento lieve di chi va verso qualcosa che non conosce, con senso di libertà, lasciandosi alle spalle il passato senza troppo rimpianto. Soffre chi resta, non chi parte»499.

Il ladro di bambini muove da una frattura che appare insanabile tra adultità ed innocenza

infantile, impressa dalla violenza subita dalla piccola protagonista di appena undici anni prostituita dalla madre che apre il film. L’unico spazio che rende possibile rimarginare tale lesione è il non-luogo del viaggio – che si configura appunto come un “non-luogo” in quanto non è mai il medesimo date le sue coordinate spazio-temporali sempre cangianti – che si rivela il tramite attraverso cui i due mondi possono riavvicinarsi. La dimensione del viaggio infatti crea quella distanza dai propri riferimenti familiari e quotidiani che permette non solo di ripensare i rapporti, ma anche, soprattutto, di riappropriarsi di se stessi. In questo risiede il valore del viaggio, anche secondo il fondatore del pensiero meridiano – pensiero con cui il cinema di Amelio trova appunto molti punti di incontro – Camus:

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164 il pregio del viaggiare consiste nella paura. Spezza in noi una specie di

apparato scenico interno. […] Il viaggio ci toglie questo rifugio. Lontano dai parenti, strappati a tutti i nostri sostegni, privi delle nostre maschere […], siamo completamente alla superficie di noi stessi. Ma sentendoci male all’anima, restituiamo ad ogni essere, ad ogni oggetto, il suo valore di miracolo500.

Così, soltanto il distacco dalla situazione familiare e consueta preesistente consente ai tre protagonisti, attraverso il viaggio che induce insieme ad un mutamento degli spazi un prolifero mutamento di sé, di trovare l’altro e ri-trovare se stessi: è l’isolamento a cui il viaggio consegna che costringe, soli con se stessi, a ripensarsi.

A differenza dei luoghi quotidiani, che in quanto tali acquisiscono per il soggetto che li frequenta abitualmente una certa consistenza e familiarità, i luoghi attraversati dai protagonisti sembrano non trovare nel viaggio una propria compattezza e solidità, come se i personaggi, in quanto erranti, non avessero modo di dargliela. I luoghi riflettono così la precarietà e l’instabilità a cui consegna il viaggio: a partire dalla casa disordinata dei carabinieri colleghi del protagonista adulto sullo sfondo della capitale caotica ed immersa nel traffico, al ristorante e alla casa della sorella non finiti, così come le altre abitazioni intorno, fino agli uffici del commissariato, in corso di ristrutturazione.

I non-luoghi e gli spazi anonimi del film, che richiamano gli spazi vuoti antonioniani, oltre ad essere contigui al vissuto esperienziale dell’autore, assumono una portata universalistica. Essi, come nota Vittorio De Seta, per il quale Amelio ha lavorato per la prima volta come assistente alla regia nel film Un uomo a metà, diventano «i luoghi della precarietà e della violenza del mondo intero, gli stessi che ci scorrono tutti i giorni sotto gli occhi»501. Analogamente i tempi del film si configurano come dei “non-tempi”: i lunghi viaggi, le attese interminabili, i percorsi illimitati dei treni, allo stesso modo

500

A. Camus, Il rovescio e il diritto, cit., pp. 50-51.

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165 si traducono nei tempi dell’universo concentrazionario di tutto il mondo, dei

reclusori, delle carceri, della deportazione di sempre; nei tempi del non-amore dell’umanità tutta, sempre più profusa e rifugiata, rappresentata da questi bambini oltraggiati, chiusi in sé, nell’elaborazione di un dolore così vasto da non lasciare spazio nemmeno al risentimento502.

È durante il viaggio dunque che i due universi, quello adulto e quello infantile, violentemente separati, possono lentamente tornare a comunicare e ad avvicinarsi, dapprima soltanto sfiorandosi, per poi iniziare a dialogare, fino a pacificarsi. Così nel viaggio, perdersi è la condizione per ritrovarsi, per ritrovare un rapporto autentico con l’altro e per ritrovare se stessi: come secondo Hölderlin si è “a casa” soltanto nella spaesatezza, così per i protagonisti la condizione del viaggio è il luogo privilegiato per sentirsi “a casa”.

Il film si apre con una frattura violenta che sembra separare irrimediabilmente il mondo adulto da quello innocente dell’infanzia. La bambina protagonista della storia infatti, Rosetta, come si è anticipato, viene fatta prostituire a soli undici anni dalla madre, che alla fine del prologo, viene arrestata. L’immagine che apre il film non riguarda tuttavia la bambina che comparirà solo più avanti, ma, significativamente, il fratellino Luciano. Nella prima inquadratura campeggia infatti un intenso ed insistente primo piano del bambino che racchiude e racconta tutto il senso del film. Inizialmente non era neanche previsto, sulla base delle dichiarazioni del regista503, che il bambino fosse presente in questa scena, doveva trovarsi fuori a giocare a pallone, mentre la sorella riceveva il cliente. Ma poi l’autore ha ritenuto essenziale la presenza del piccolo protagonista proprio lì, nella casa in cui si consuma l’abuso, collocato

502

Ibidem.

503

Cfr. L. Ravera, Gianni Amelio (intervista a G. Amelio a cura di L. Ravera), in “marie claire”, n. 7, luglio 1992, p. 57; B. Roberti, E. Bruno, Conversazione con Gianni Amelio (intervista a G. Amelio a cura di B. Roberti, E. Bruno), in “filmcritica”, n. 424, aprile 1992, p. 152.

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nella scena come un tacito ed impotente spettatore della violenza subita dalla sorella, «come uno che sa tutto, che capisce tutto, e che non può dire niente»504, a suggerirci che la prospettiva da cui è guardata, e da cui dover guardare, la vicenda è quella innocente del bambino. Negli occhi di Luciano poi, oltre ad identificarvisi quelli dello spettatore che vi osserva lo sviluppo della storia attraverso, si confonde lo sguardo dello stesso autore, come egli stesso svela:

ho sentito il bisogno di partecipare io all’avvenimento, e l’unico modo di farlo era di entrarci attraverso gli occhi del bambino. […] Il bambino, proprio perché ha assistito a quella “storia”, dentro si porta un sentimento che va dalla gelosia, all’amore, alla frustrazione. Penso che il bambino sia ancora più vittima della bambina. […] Il bambino si sente […] delegato come maschio a difendere le donne, ma non lo ha fatto e non lo sa fare. Questo è il peso che il bambino inconsapevolmente si porta dentro505.

Lo sguardo su cui insiste la macchina da presa – «sguardo addolorato e impotente del mio piccolo protagonista, che vorrebbe difendere le sue donne, ma non sa come fare. E allora tace. E si ammala»506 – tradisce l’infanzia negata del bambino, così come il suo atteggiamento di mutismo e la sua malattia sintomatica, l’asma, come anche il suo rapporto duro con la sorella, sono manifestazioni del suo malessere esistenziale, per l’impossibilità di sentirsi figlio e bambino.

La madre dà a Luciano mille lire perché esca di casa e non veda da dove provengono i soldi. Il bambino rannicchiato sulle scale esterne stringe la banconota nella mano, mentre il cliente sale accarezzando il volto di Luciano che si ritrae: la ricchezza dell’uomo è resa metonimicamente dal grosso anello d’oro che campeggia sulla sua mano, inquadrata in primo

504

L. Ravera, Gianni Amelio (intervista a G. Amelio a cura di L. Ravera), cit., p. 57.

505

B. Roberti, E. Bruno, Conversazione con Gianni Amelio (intervista a G. Amelio a cura di B. Roberti, E. Bruno), cit., pp. 152-153.

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piano nel gesto della carezza rifiutata. La madre, a casa, conta i soldi contenuti in una busta; la macchina da presa stacca allora su Luciano e inquadra in primo piano le sue mani che srotolano le mille lire accartocciate, esplicitando come il denaro destinato al divertimento del bambino derivi dal sacrificio della sorella, a sottolineare il senso di impotenza e di colpa vissuto da Luciano.

La scena della violenza di Rosetta è risolta in maniera ellittica, a differenza della sceneggiatura in cui era più esplicita: la bambina, inquadrata di spalle, aspetta seduta sul letto il cliente, pregando piano. È di nuovo la mano dell’uomo, ora significativamente quella ornata di fede, che elargisce una carezza ad essere inquadrata, stavolta rivolta verso la piccola mano di Rosetta, che stringe fatidicamente nella sua.

Se il personaggio di Luciano nasconde il proprio disagio esistenziale chiudendosi nei suoi silenzi, quello di Rosetta viceversa esplicita il proprio malessere di bambina violata protendendo verso gli altri, con un atteggiamento aspro ed aggressivo. Ma è proprio il personaggio della bambina, con il suo carattere ispido e respingente, che sta più a cuore al regista, come egli stesso rivela:

Il mio cuore è dalla parte di Rosetta, per tante ragioni. Una delle ragioni, lo confesso, è anche la natura del personaggio. Devo dire che, probabilmente senza accorgermene, allora quando giravo, mi sono identificato non tanto nel carabiniere e nemmeno nel personaggio di Luciano, ma potrei dire «Rosetta sono io». Ho cercato, ma forse senza riuscirci, di nascondermi, ma è venuto fuori che il personaggio più vicino alle cose che sentivo, e anche a certi miei dolori, a certe rabbie, o a certe aperture, a certe gioie, era il personaggio di Rosetta507.

507

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La dimensione dell’infanzia è così stata rubata ai due piccoli protagonisti dagli adulti, è stato loro sottratto lo spazio dell’innocenza e del gioco (è questa “la fine del gioco”, come recita il titolo del primo film di Amelio, che conteneva in nuce tale tematica essenziale sviluppata poi in

Il ladro di bambini), è stata lesa quella sfera emozionale e sensibile che pertiene peculiarmente

ai bambini e che essi nel film vengono a rappresentare, di contro al mondo adulto che ne risulta dimentico. È infatti evidente il carattere “patetico”, nel senso di carico di pathos, dei due piccoli protagonisti, dei quali, in quanto catalizzatori affettivi, emerge la connotazione passiva: i bambini infatti “patiscono” – Rosetta attraverso la violenza subita e Luciano in quanto spettatore passivo ed impotente – l’ambiente in cui si trovano, loro malgrado, collocati. La violazione del mondo infantile va imputata, dunque, al mondo adulto; responsabile di questa sottrazione dell’infanzia è in particolare la famiglia biologica, come mette in evidenza l’autore stesso: «La figura del genitore si disintegra qui con il gesto più osceno, quello di vendere il corpo della propria figlia. Ma non a caso il padre non si vede, dà il seme, genera i bambini e poi sparisce»508.

Il teatro della violenza è la periferia di Milano, la cui architettura tetra ed opprimente sembra riflettere il malsano e depravato ambiente domestico in cui vivono i bambini. I palazzoni di periferia – come più avanti nel film la statale calabra – sono un’esemplificazione di quel cupo paesaggio urbano, prodotto della modernità contro cui il regista polemizza. In particolare gli squallidi edifici milanesi, entro cui si consuma la violazione dei bambini, contrastano figurativamente con il paesaggio naturale meridiano, che contiene – come dirà il protagonista adulto più avanti – il mare e al contempo le montagne, patria da cui i piccoli protagonisti sono stati strappati a causa dell’emigrazione dei genitori. Amelio anche si fa allora, proprio come i pensatori meridiani, critico della modernità. Il pensiero meridiano come si è visto509, contesta infatti l’antropocentrismo dell’uomo moderno che, distaccatosi dal mondo naturale da cui

508

J. A. Gili,Entretien avec Gianni Amelio (intervista a G. Amelio a cura diJ.A.Gili), in “L’Avant-Scène. Cinéma”, n. 415, ottobre 1992, pp. 1-11, tr. it. in D. Scalzo, Utopia di una famiglia nuova, in Gianni Amelio. Un

posto al cinema, a cura di D. Scalzo, Lindau, Torino 2000, p. 146.

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proviene che disconosce come patria originaria, si autoproclama superiore, rivelandosi un «soggetto saccente e arrogante»510. L’uomo della modernità così, resosi autonomo dalla natura, procede alla colonizzazione e alla demolizione dell’ambiente naturale, instaurando una vera e propria «signoria del soggetto»511, in cui la natura è ritenuta di suo dominio512.

La ferita inferta dal mondo adulto a quello bambino, con la lacerazione della sua precipua dimensione emotiva e patetica, si potrà rimarginare solo nel luogo del viaggio, la cui costante condizione di mobilità e mutamento lo rende lo spazio privilegiato per mettere in discussione e riconcepire i rapporti e le identità. Il viaggio muove dalla città di Milano, la cui periferia è il luogo del tetro antefatto, a Civitavecchia, dove il carabiniere Antonio Criaco è incaricato di scortare i bambini in un istituto per l’infanzia. Il collega che dovrebbe affiancarlo lo abbandona, scendendo dal treno alla stazione di Bologna: la corruzione del carabiniere fa già intravedere la sfiducia dell’autore nei confronti delle istituzioni, con cui i protagonisti nel corso del loro viaggio si trovano a scontrarsi, fino alla scena nel commissariato. Antonio, rimasto solo con i bambini, si toglie la divisa, per non incutere timore ai bambini: non è infatti nel ruolo istituzionale del protagonista adulto che potranno trovare un confronto ed il loro riscatto.

Giunti a Civitavecchia, che da luogo prefissato di destinazione diverrà la prima tappa di un lungo inaspettato viaggio, l’istituto religioso a cui i bambini sono assegnati rifiuta di accoglierli, visti i trascorsi della bambina. La macchina da presa non riprende il sacerdote quando nega l’asilo ai bambini, quasi a non voler dare un volto, tanta è l’indignazione, alla corruzione e all’inadempienza dell’autorità religiosa che si sottrae al proprio dovere e tradisce i precetti che invece professa con tanta ostentazione, come quello dettato dalla suora agli alunni, di cui emerge tutta l’ipocrisia: «La vita va vissuta come un dono da scoprire e da realizzare». La macchina da presa si sofferma invece sulle diverse immagini sacre presenti nell’istituto, a rafforzare la discrepanza tra la religiosità esibita e la mancata accettazione dei bambini

510

M. Alcaro, Filosofie della natura. Naturalismo mediterraneo e pensiero moderno, cit., p. 111.

511

Ivi, p. 114.

512

Cfr. M. Alcaro, Filosofie della natura. Naturalismo mediterraneo e pensiero moderno, cit.; M. Alcaro,

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bisognosi. Così, se la famiglia tradizionale è stata per i bambini l’ambiente della negazione dell’infanzia, neanche le istituzioni religiose si rivelano il luogo dell’accoglienza, demandando ad altri la cura della lacerazione subita.

Della capitale poi, dove Antonio si ferma per una sosta con i bambini, il regista ci restituisce l’immagine di una città caotica e trafficata, degradata sia dal punto di vista ambientale che umano, dove la condizione di marginalità degli immigrati e dei barboni che ne popolano le strade non appare distante da quella vissuta dai bambini. La degradazione dell’ambiente esterno si ritrova negli interni dell’appartamento dei colleghi di Antonio che ospita i tre viaggiatori. Sia il decadente paesaggio urbano capitolino che l’abitazione disordinata dei carabinieri, affacciata su dei cavalcavia lungo i quali corrono di continuo macchine roboanti, rendono il senso di assoluta provvisorietà ed approssimazione proprio del viaggio. Ancora una volta una grande metropoli, ora la centrale Roma come nel prologo la nordica Milano, restituisce l’immagine di un paesaggio urbano degradato e caotico, cui fa da contraltare quello naturale ancora custodito nel cuore del Meridione, verso cui i protagonisti sono inconsapevolmente diretti. Nuovamente dunque una ferrata critica, costruita per immagini, alla modernità, in linea con il pensiero meridiano513. Fa da specchio alla squallida capitale il comportamento del carabiniere napoletano che tenta di approfittarsi di Rosetta, scongiurando l’idea di una possibile salvaguardia dei bambini da parte delle autorità, oltre che religiose, anche statuali, come già preannunciato dalla defezione dell’altro carabiniere.

Se già dalle prime tappe del viaggio è chiaro ai due piccoli protagonisti che non potranno trovare sostegno e tutela, dopo che la famiglia istituzionale si è macchiata della colpa della violazione del loro essere bambini, nelle istituzioni – né in quelle religiose rivelatesi ostili né in quelle ufficiali corrotte – non sembra possibile un confronto neanche con il protagonista adulto, rispetto al quale sono divisi all’inizio del viaggio da una profonda distanza ed incomunicabilità.

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