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Il lavoro buono nell’epoca del risveglio

Il lavoro allontana da noi tre grandi mali: la noia, il vizio e il bisogno.

Voltaire (2007, 189)

l’epoca del risveglio

Sul finire della modernità, ci ritroviamo in una posizione di forte inquietudine e spaesamento. L’essere umano è come paralizzato da due laceranti tensioni che ta- gliano trasversalmente la sua esistenza, il modo in cui intende il suo io ed il legame che instaura con il mondo.

La prima di queste riguarda il rapporto tra l’uomo e l’opera delle sue mani, la straordinaria potenza tecnica che ha saputo creare; di questa egli si inorgoglisce e ne fa largo uso, ma nel contempo avverte in essa una minaccia di distruzione dei fattori che erano alla base del progresso che pure l’ha prodotta.

Superare la rottura della modernità

«Siamo minacciati non da una mancanza di progresso tecnico, ma dal suo surplus, da un ec- cesso di sviluppo. Nella modernità avanzata la produzione sociale di ricchezza va di pari passo con la produzione sociale di rischio. [...] L’idea di fondo è che lo sviluppo storico della modernità abbia reso distruttivo ciò che alla sua origine era stato positivo e costruttivo. La modernità si de-costruisce nel momento in cui porta alle estreme conseguenze quegli stessi processi che, per una lunga fase storica, l’avevano costruita. Se il bisogno di ricomposizione razionale rientra ancora nel disegno lineare della prima modernità, il riferimento alla con- temporaneità storica richiama l’idea della rottura, ottenuta non attraverso la negazione dei propri principi funzionali ma in forza della loro radicalizzazione: il rovesciamento di tutti i valori della modernità industriale trasforma in minaccia mortale la precedente promessa».

(Marco Revelli 2007, 154)

Non è difficile cogliere dietro queste parole l’influsso della “profezia” di Hans Jonas e la sua “euristica della paura”: l’uomo moderno dubita della positività degli effetti delle sue opere e si chiede quali siano i riferimenti etici favorevoli alla conservazione della vita, che evitino che la successione delle tappe della civiltà sia fondata solo sulle possi- bilità realizzative delle tecniche. Egli si è spinto tanto avanti in un territorio sconosciuto, dove è richiesto di assumere decisioni in base non all’Hybris della potenza, ma alla simpatia richiesta nei confronti di ogni vita minacciata, riassumibile nella domanda: che cosa capiterà a quell’essere, se io non mi prendo cura di lui?

Il tema del rapporto dell’uomo con la tecnica non riguarda soltanto la minaccia nei confronti della natura esterna all’uomo, ma anche di quella naturalità di cui egli stesso è costituito. Emerge pertanto una seconda tensione, quella tra la ricerca di au- tenticità e la “grande distrazione”, quel modo di vita che dissipa le facoltà umane entro una miriade di operazioni senza scopo, incapaci di stabilire relazioni stabili e generative tra le persone e quindi di apportare un valore autentico al vivere comune.

Quello della fine della modernità è un tempo in cui vengono prodotti beni e modi di vita in cui i singoli individui, nel rinchiudersi in se stessi per sfuggire alla minaccia insita nel legame con gli altri, finiscono per ritrovarsi terribilmente soli, incapaci di dire il proprio nome, e quindi di giustificare appieno la propria esistenza. Così in- ventano oggetti e pose cercando di assecondare ciò che detta la moda del momento, e tutto questo per compiacere agli altri, per trovare un riconoscimento, per poter af- fermare se stessi per mezzo del giudizio degli altri.

Strano tipo di città, quella presente, popolata da individui che prediligono il dia- logo con se stessi per paura di essere menomati nella propria intima libertà. E che provando noia e tedio ed insieme senso del vuoto, finiscono per mettersi sull’uscio, non visti, ad osservare gli altri per carpire ciò che fanno, con quali vestiti si abbigliano, quali oggetti portano con sé, come si atteggiano, quali espressioni usano. Affinché, al fine di ottenere quella promessa di felicità insita nell’essere “in”, glamour, “di suc- cesso”, l’essere sulla bocca degli altri, tenuti vivi dalla ripetizione del proprio nome nel parlare comune, di ciò che gli altri più propongono, essi possano sentire final- mente di esistere, per sentirsi vivi.

È il paradosso del borghese segnalato da Allan Bloom: quando è con gli altri pensa a sé, quando è da solo pensa agli altri: «Il borghese è colui che nei suoi rapporti con gli altri non pensa che a se stesso, e nei suoi rapporti con se stesso non pensa che agli altri; il borghese vive combattuto nella via di mezzo»1, dove l’ossessione del pa-

ragone io-altri, l’amour-propre senza consolazione, diviene la nuova forma dell’in- vidia.

C’è nel dominio dell’immagine, nell’industria dell’apparenza, una pretesa di as- soluto, la presunzione di poter afferrare la vita e dominarla, di modellare il mondo, di edificare un uomo nuovo. Ma il difetto sta nella dissipazione, nel senso del vuoto estenuato.

Il circolo della vanità, che si alimenta della contraddizione insanabile tra la spinta a rinchiudersi al mondo entro la propria sfera ed il desiderio esagerato di compiacere agli altri assumendo una disposizione in grado di farci apprezzare dagli altri, è costi- tuito da un tipo nuovo di lavori, che possiamo chiamare i mestieri dell’effimero. Sono le molteplici attività di coloro che si dedicano all’elaborare i canoni della moda che si è introdotta fino nello spazio intimo dell’individuo, là dove egli, a causa della po- vertà culturale ed alla mancanza di coraggio, di un io coraggioso, non è in grado di

esprimersi in modo autentico, indifferente alle opinioni degli altri, finisce per adottare esattamente ciò che gli viene suggerito.

Ci sono i designer che oggi dominano dappertutto e con la loro saccenza hanno spodestato i tecnici resi deboli dall’essere semplicemente competenti; ci sono i rea- lizzatori di oggetti, ma soprattutto di immagini. Ci sono i cercatori di stili eccentrici o perlomeno di accostamenti improbabili. Ci sono i comunicatori, vere e proprie ve- stali del circolo della vanità, forti della loro inabilità ad esprimere contenuti, ma bra- vissimi nel trovare i giusti toni allusivi, così da lasciar credere che abbiano davvero pensieri personali, profondi. Ci sono i personaggi della moda e dello spettacolo, com- presi gli elfici indossatori, persone dalla doppia vita, a meglio dominate dalla vita pubblica mentre quella personale si dissolve per mancanza di tempo e di spazio. Ci sono i venditori, maestri nella difficile arte di far credere al cliente di essere l’unico individuo ad indossare quel capo di abbigliamento e di poter così acquisire la stima di tutti.

Ma ci sono anche veri lavoratori, gente concreta che, pur vivendo nel mondo della vanità, coltivano pensieri reali, passioni umane, affetti contenuti. C’è vita anche nel mondo dell’effimero, della finzione dell’esistenza.

Le due tensioni tra potenza e smarrimento, vitalità e dissipazione, segnalano una posizione di sospensione delle dinamiche della civiltà, una sorta di paralisi agitata tipica dello spirito del tempo che stiamo vivendo. È una condizione che Walter Ben- jamin assimila a quella del sogno e che necessita di un risveglio, una brusca provo- cazione che ci liberi dallo stato onirico in cui siamo caduti e produca un distacco au- tentico dal passato.

Egli sostiene che le figure del sogno sono prodotti del passato che non derivano da premesse o principi di ordine universale, ma dalla sublimazione mitica delle im- magini che il tempo trascorso ha proiettato sul futuro, e che vorrebbe fissarle nell’in- conscio collettivo come archetipi del tempo a venire. Questo mondo immaginifico finisce per sovrapporsi e sostituire l’ordine del reale esistente, quello che apparirebbe al risveglio.

Il sogno vissuto come realtà è l’atteggiamento che dà origine alla “distrazione”, quel modo di porsi nei confronti del mondo tipico della società decadente, incapace di scuotersi e quindi impelagata nelle sue fantasie. Ciò presenta due caratteri, ambe- due di origine intellettuale: le teorie e la moda.

Le teorie sono rappresentazioni “costruite” concettualmente con le quali si cerca di rendere credibile e quindi convincente una certa visione sul mondo. L’intellettuale “sognante” cerca di carpire nelle vicende del tempo i segni premonitori della deca- denza, ma non si accorge di essere preda di un errore ottico, quello che accade quando un’immagine del passato viene estenuata oltre la sua epoca. Egli è perennemente in- tento ad un’operazione concettuale tesa a decifrare i segni che annunciano il declino della storia e produce “vacui filosofemi e l’idea del “sempreuguale”.

La moda consiste nel sedurre il consumatore per mezzo di materiali che prescin- dono dalla ragione, operando sulle forme estetiche e sulle emozioni, e che cercano di

convincere ad aderire ad un certo comportamento in quanto conforme ad una promessa di felicità o perlomeno di vita autentica. Essa ricorre al surrealismo, alla filosofia del- l’ebbrezza, allo choc metropolitano, ma costruisce solo sogni arcaici, rituali mitici, in- troduce il consumatore entro territori che in realtà non esistono, nei quali cresce solo la follia da cui occorre essere bonificati attraverso l’“ultraebbrezza” della ragione.

L’immagine del sogno ed il mondo della veglia non hanno nulla in comune, sono separati da un movimento che richiede il mettersi in piedi del soggetto deciso ad af- frontare la realtà mobilitando tutte le prerogative umane.

Il passaggio dallo stato del sogno a quello del risveglio non avviene per riflessione, ma istantaneamente, come quando ci si sveglia davvero. Sono due stati di coscienza separati da un passaggio fulmineo che coincide con il mettersi all’opera, vivere la pro- pria giornata mobilitando tutte le facoltà dell’uomo. Il tempo del risveglio viene vissuto in modo idoneo da persone attive, razionali, che non cedono al vaniloquio delle im- magini oniriche, ma guardano alla realtà con un’empatia ed un’intuizione cercando di coglierne il significato tenendo nel giusto conto tutte le sue dimensioni.

In ciò consiste il risveglio: scuotersi dal sogno e vivere in piena chiarezza e libertà intellettuale il presente, trovando col passato legami non mitici né estetici, ma razio- nali, per svelare il senso dell’epoca che si sta vivendo e cogliere le reali dinamiche della storia.

Il tempo presente è quell’adesso, nel quale sono disseminate ed incluse schegge del tempo messianico. La conoscenza consiste quindi nella possibilità dell’uomo ri- svegliato di afferrare la sua esistenza, mosso dalle forze che costituiscono l’amore della vita, il punto di incontro con coloro che ci hanno preceduto: «Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. Non sfiora forse anche noi un soffio del- l’aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiamo ascol- to, un’eco di voci ora mute? ... Se è così, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una ‘debole’ forza messianica, a cui il passato ha diritto» (Benjamin 1997, 23).

Benjamin ci mette in guardia da una lettura meramente materiale dell’opera uma- na: se nello stato onirico l’uomo si distoglie dalle esigenze della vita rievocando le arcaiche visioni del cosmo, nella veglia egli avverte di essere stato atteso sulla terra, di possedere anch’egli una scheggia dell’esperienza messianica, mobilita le forze dell’innovazione che confermano l’indistruttibilità della vita.

È qui che possiamo identificare il “lavoro della civiltà”: scuotersi dal sogno, porsi in azione al servizio delle forze della vita, richiamare il passato per edificare in forma nuova il futuro. In tal modo il soggetto umano entra in rapporto vivo con la propria origine ed il proprio compimento, tramite le tre tappe del risveglio: lo scuo-

timento dal sogno tramite il risveglio, il riconoscimento del legame vitale con la tra-

dizione e l’innovazione apportando al mondo l’originalità insita nel proprio nome. Il risveglio indica un tipo di vita cui attribuire valore, che occorre imitare, che meriti la nostra lealtà.

Quando agisce in vista di uno scopo meritevole, l’uomo si rivela e riesce a su- perare e a trascendere interessi contingenti e individuali. Ciò riguarda sia le opere dei grandi che hanno contribuito ad arricchire il patrimonio della civiltà, sia dei co- struttori e dei piccoli che hanno fornito il loro apporto originale all’opera della vita comune. Non basta l’azione ad esprimere in modo significativo la vita “umana”, oc- corre anche il discorso tramite cui essa viene narrata rendendola comprensibile e me- morabile, vale a dire meritevole di attenzione e di ricordo da parte degli altri.

L’individuo, nel momento in cui si coinvolge entro un’azione significativa ed utile, dotata di valore per gli altri, e quando ne pone in luce il significato, si inse- risce pienamente nel mondo umano. Ciò equivale ad una “seconda nascita”, poiché consente di entrare, dopo la piccola comunità, nella comunità sociale più vasta, sulla spinta del desiderio di conferire la novità insita nel proprio nome come dono al vivere comune.

«Agire, nel suo senso più generale, significa prendere un’iniziativa, iniziare (co- me indica la parola greca archein, ‘incominciare’, ‘condurre’ e anche ‘governare’), mettere in movimento qualcosa (che è il significato originale del latino agere). Poiché sono initium, nuovi venuti e iniziatori grazie alla nascita, gli uomini prendono l’iniziativa, sono pronti all’azione» (Arendt 1999, 128-129). Azione e discorso creano l’evento dell’identità umana, rendono possibile l’Io nel tempo: agire significa sia dare l’avvio, incominciare qualcosa, sia apportare un significato profondo all’esistenza che le permetta di superare la banalità del quotidiano e la ripetitività delle esigenze biologiche; parlare vuol dire rivelare il proprio Io distinguendosi dagli altri.

Per gli intellettuali del secolo scorso era normale pensare che l’individuo, nel de- finire il suo posto nel mondo, fosse contrastato tra due opposti inconciliabili: la tensione tra necessità e libertà. Di contro, una corrente di studiosi dell’attuale società cerca di andare oltre tale contrapposizione fondamentalmente ideologica; tra questi spicca Ri- chard Sennett che ci propone una lettura interessante circa la scomparsa dell’uomo pub- blico: «Oggi, l’esperienza impersonale appare priva di significato, e la complessità della società una minaccia incontrollabile. Per contro, si attribuisce un’importanza enorme a tutte le esperienze che sembrano rivelare l’Io e che aiutano a definirlo, svilupparlo o cambiarlo. In un società intimista, tutti i fenomeni sociali a prescindere dalla loro strut- tura impersonale, vengono trasformati in problemi personali per acquisire significato» (Sennett 2006, 271). A prescindere dal giudizio di questo autore che concepisce il for- midabile processo di personalizzazione e di distinzione soggettiva in atto ad ogni livello della vita pubblica con una categoria dal contenuto negativo (“intimismo”), la sua analisi consente di comprendere che, dietro ad ogni esperienza socialmente rilevante che con- sente di rivelare l’Io e che contribuisce a definirlo, è possibile intravedere l’operosità umana di una varietà di persone che mettono a disposizione la propria intelligenza e la propria sensibilità nel lavoro di rinnovamento della vita sociale secondo i canoni della cultura corrente. Dentro questo movimento epocale vi sono certamente fenomeni posi- tivi come l’attenzione alle esigenze del cliente, il recupero delle tradizioni interpretate e rinnovate entro il nuovo contesto, ma anche nuovi pericoli di manipolazione e di

moltiplicazione artificiale dei bisogni agendo sul desiderio di autenticità e di accettabi- lità sociale.

Tutto questo non è certamente nuovo, visto che da sempre il lavoro ha avuto una notevole influenza sulla vita personale e sociale; la novità di oggi è che, mentre i lavori routinari sono tendenzialmente consegnati ai sistemi automatici, le persone si occupano prevalentemente di questioni che possiedono rilevanza cognitiva e di relazione; inoltre, a differenza della società industriale dove vigeva un meccanismo sociale di massifica- zione e standardizzazione, oggi cresce il numero dei prodotti e dei servizi che possie- dono carattere di personalizzazione e di distinzione. Tutto ciò richiede uno stile di lavoro più collaborativo ed inoltre più prossimo ai destinatari. Si apre un nuovo spazio di so- cialità nel quale assumono rilevanza i tratti propri del mondo personale come pure dei corpi sociali che condividono valori significativi.

Anthony Giddens ci consente di fare un passo avanti indicando la riflessività sociale come atteggiamento di fondo che dovrebbe caratterizzare il modo di porsi nel contesto contemporaneo; non si tratta di cancellare la tradizione, ma di reinventarla in modo da renderla viva nel presente: «Le tradizioni sono necessarie alla società…abbiamo bisogno delle tradizioni ed esse persisteranno sempre, perché danno continuità e forma alla vita» (Giddens 2000, 60). Da questa prospettiva egli trae un programma in sei punti.

Oltre la destra e la sinistra

1. la ritessitura delle solidarietà spezzate, che richiede di rivalutare il ruolo dell’individuo, non alla maniera egoistica del neoliberismo, ma in relazione al potenziamento dell’autonomia delle scelte legata alla riflessività sociale.

2. Il riconoscimento della centralità della politica della vita, il cui obiettivo generale è aumentare l’autonomia di azione, dare spazio a come ciascun individuo debba decidere tra le molte op- zioni di cui dispone: la politica della vita non è solo la politica dell’ambito privato delle per- sone, ma investe l’intera società; la nozione di politica della vita è più ampia dei riferimenti di Beck perché include le questioni esistenziali della scelta, dell’identità e della reciprocità. 3. La concezione della politica in senso generativo, che attiene ai rapporti tra stato e mobi-

litazione riflessiva delle persone: lo stato non può essere una ‘agenzia cibernetica’ ma neppure lo ‘stato minimo’. La politica generativa cerca di mettere gli individui e i gruppi nella condizione di far succedere le cose anziché di subirle. In fondo è una difesa dell’in- tervento pubblico, diversa dalla consueta contrapposizione stato/mercato, destinata a pas- sare da una tutela passiva della sicurezza materiale alla messa in opera delle condizioni economiche, istituzionali e culturali perché singoli e gruppi svolgano un ruolo attivo, di scelta e di partecipazione fondate sulla fiducia.

4. L’importanza della democrazia dialogica, dopo aver preso atto del distacco tra l’agenda dei politici e le necessità della società, si indica l’obiettivo di democratizzare la democrazia, nel senso di rendere trasparente il suo funzionamento e di aprire all’attività dei movimenti sociali e dei gruppi di selfhelp che ben esprimono la ‘riflessività sociale’.

5. La riprogettazione del welfare trasformandolo in welfare positivo, creando misure di ‘politiche della vita’ capaci di conciliare autonomia e responsabilità personali e collettive.

6 . Il problema e il ruolo della violenza negli affari umani, affrontato partendo dall’analisi del fondamentalismo e della democrazia dialogica e notando che né il pensiero socialista né il neoliberalismo hanno elaborato prospettive in merito.

Il centro della riflessione è posto sulla capacità dell’individuo di esercitare nel- l’azione una forza in grado di replicare positivamente alle sfide, un’urgenza di vita che alimenta lo spazio di autonomia di ciascun individuo. Alla fine della modernità, un’epoca iniziata con l’esaltazione della ragione, ma conclusa con il predominio sul- l’ambito di vita degli uomini di leggi necessarie ed indipendenti dalla volontà e dalla cultura, si delinea secondo questi autori la prospettiva di una socialità di tipo nuovo che riconsegna alle persone umane ed alle loro forme di socialità un valore premo- derno, e precisamente una casa comune, un luogo nel quale possano esercitare la propria discrezionalità d’azione capace di sollecitare una capacità trasformativa così da poter intervenire negli eventi per modificarne il corso.

Entrare nel tempo del risveglio richiede lo scuotimento dalle visioni ineluttabili dei destini del cosmo e della civiltà, dai sogni di decadenza e di catastrofe imminen-

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