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§ 1. La scuola scozzese.

Tra le diverse fonti cui Marx attinge nella sua riflessione sulla divisione del lavoro,1 una posizione particolare occupano due testi, entrambi provenienti dall’ambiente culturale dell’illuminismo scozzese settecentesco, i quali, per la costanza con cui egli vi si riferisce dalla Miseria della filosofia alle Teorie sul plusvalore, sembrano rappresentare gli interlocutori privilegiati di un dialogo critico serrato e fecondo, che trova la sua più matura sintesi teorica nel dodicesimo capitolo del primo libro del

Capitale: il Saggio sulla storia della società civile di Adam Ferguson e l’Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni di Adam Smith. Nel primo, Marx apprezza infatti la precoce

sottolineatura degli effetti negativi della divisione del lavoro, mentre nel secondo, cui pure nega qualsivoglia originalità su questo tema,2 vede la summa teorica del modo di produzione manifatturiero, nel quale la divisione del lavoro si dispiega appieno e celebra i suoi fasti prima dell’avvento della grande industria meccanizzata.

Il Saggio sulla storia della società civile, pubblicato nel 1767, non è un’opera confinabile entro gli angusti limiti dell’economia politica, poiché conduce, in un inestricabile intreccio di indagine storica e riflessione filosofica, un’analisi complessiva dello sviluppo sociale, particolarmente attenta agli effetti morali e politici prodotti sulla società civile dalle trasformazioni economiche, in un modo che ricorda da vicino i Discorsi roussoviani. In questo contesto generale si situa l’interesse di Ferguson per la divisione manifatturiera del lavoro, che gli appare come la principale condizione del progresso nelle attività economiche, in termini sia qualitativi sia quantitativi:

È evidente che un popolo, sebbene spinto da un sentimento di necessità e da un desiderio di comodità e sebbene favorito dai vantaggi della situazione e della politica, non potrebbe fare nessun gran progresso nel coltivare le arti della vita, fin tanto che non abbia separato e affidato a persone diverse i vari compiti che richiedono una peculiare abilità e attenzione. […] L’artista trova che quanto più egli può limitare la sua attenzione ad una parte specifica di qualche lavoro, tanto più perfette risultano le sue produzioni, e si sviluppano fra le sue mani in maggiori quantità. Ogni imprenditore di manifatture trova che quanto più nell’azienda può suddividere i compiti dei suoi operai e quante più mani può impegnare nei distinti articoli, tanto più diminuiscono le sue spese e aumentano i suoi profitti. Anche il consumatore richiede, per ogni articolo di consumo,

1

Per limitarsi alle esplicite indicazioni contenute nel dodicesimo capitolo del primo libro del Capitale, intitolato Divisione

del lavoro e manifattura, si possono ricordare Lauderdale, Ure, Babbage, Storch, Skarbek, Petty e Steuart, per l’ultimo dei

quali Marx mostra un particolare apprezzamento.

2

“A. Smith non ha formulato alcuna nuova idea in merito alla divisione del lavoro, ma ciò che lo caratterizza come l’economista che riassume in sé tutto il periodo manifatturiero è l’accento che su di essa pone” (Marx K., Il capitale, libro I, p. 476, nota c).

una esecuzione più perfetta di quella che mani impiegate in una molteplicità di oggetti possano ottenere, e il progresso del commercio è solo una ininterrotta suddivisione delle arti meccaniche.3 Diversamente da quanto accadrà di lì a poco, secondo la denuncia di Marx, nell’ordine discorsivo proprio dell’economia classica – che privilegerà in modo esclusivo la prospettiva del valore di scambio –, in Ferguson questa non è mai disgiunta dalla considerazione del valore d’uso delle merci, che appare decisivo soprattutto dal punto di vista del consumatore: “Con la separazione delle arti e delle professioni si aprono le fonti del benessere; ogni tipo di materiale viene lavorato con la più grande perfezione ed ogni comodità prodotta nella più grande quantità”.4 Riguardata nel suo complesso, la società moderna appare come un gigantesco meccanismo, la cui efficienza è accresciuta dal perfezionamento dell’articolazione reciproca dei suoi singoli membri, progressivamente organizzati in vista di un unico fine; il modello della connessione meccanica serve a spiegare tanto l’efficace funzionamento degli apparati statali quanto la produttività del sistema economico, nel quale l’interdipendenza funzionale tra gli attori individuali assume la forma di un’armonia involontaria, scaturita naturalmente senza preventivo accordo:

I pubblici funzionari […] sono fatti come le parti di una macchina, che concorrono ad un medesimo fine senza un qualche accordo fra di loro e, ugualmente ciechi, come lo sono i commercianti, per ogni combinazione generale, concorrono, proprio come questi, in modo unitario a fornire allo Stato le sue ricchezze, la sua linea di condotta e la sua forza.5

A differenza della macchina, nella quale la coerenza delle parti e l’orientamento del tutto verso un unico fine sono presenti a priori nella mente dell’inventore, le istituzioni civili, e per estensione anche la strutturazione interna del sistema economico, sembrano essersi perfezionate per continui aggiustamenti parziali, tanto che il loro piano complessivo appare sottratto alle coscienze individuali anche dopo il suo pieno dispiegamento: “Quelle istituzioni sorsero da successivi perfezionamenti che vennero realizzati senza che se ne avvertisse l’effetto generale […]; neanche quando l’intero sia stato compiutamente realizzato se ne può comprendere in pieno l’estensione”.6 Accanto all’incremento della produttività del lavoro, tanto in termini quantitativi quanto in termini qualitativi, l’effetto generale che la divisione del lavoro comporta sul piano dell’organizzazione sociale è dunque un’articolazione di crescente complessità, nella quale alla coesione dell’insieme si accompagna la cecità dei membri che lo compongono. La cifra della modernità è pertanto la divaricazione tra le prospettive delle parti e del tutto, che si manifesta nella circostanza per la quale all’incivilimento complessivo e all’incremento della ricchezza sociale corrisponde l’ottundimento delle facoltà intellettuali dei singoli, la cui capacità produttiva dipende dall’acquisizione di attitudini stereotipate e involontarie di movimento:

3

Ferguson A., Saggio sulla storia della società civile, Firenze, Vallecchi, 1973, pp. 205-206.

4 Ivi, p. 206. 5 Ivi, pp. 206-207. 6 Ivi, p. 207.

Si può perfino mettere in dubbio se la capacità generale di una nazione cresca in proporzione al progresso delle arti. Molti mestieri manuali non richiedono nessuna capacità. Essi riescono alla perfezione mediante una totale soppressione del sentimento e della ragione. L’ignoranza è la madre dell’industria come della superstizione. La riflessione e la immaginazione sono esposte all’errore, laddove l’abitudine di muovere la mano o il piede non dipende né dalla immaginazione né dalla riflessione. Di conseguenza, le manifatture prosperano di più quando la mente viene consultata il meno possibile e quando l’officina può essere considerata, senza grande sforzo di immaginazione, come una macchina le cui parti sono uomini.7

Nella metafora della macchina che opera tanto più speditamente quanto più l’uomo è ridotto a suo ingranaggio, Ferguson esprime implicitamente la natura intrinsecamente antagonistica del processo produttivo, nel quale l’accresciuta produttività del lavoro trova il suo rovescio nell’avvilimento e nella disumanizzazione dell’operaio che lo compie. Quel carattere antagonistico si rivela appieno nella scissione che la divisione del lavoro introduce tra professioni intellettuali e manuali, tra compiti direttivi e mansioni esecutive, per la quale la conoscenza è posta come forza produttiva indipendente e soggetta a monopolio:

Nella stessa manifattura il genio dell’imprenditore viene, forse, coltivato, mentre quello dell’operaio resta incolto. L’uomo di Stato può avere una profonda conoscenza degli affari umani, mentre quelli di cui egli si serve come strumenti ignorano il sistema al quale partecipano come parti. L’ufficiale generale può essere espertissimo nella conoscenza delle arti della guerra, mentre il soldato viene limitato a compiere pochi movimenti della mano e del piede. Il primo può avere guadagnato ciò che l’ultimo ha perduto.8

La separazione di attività intellettuale e manuale non significa quindi pacifica autonomizzazione di due sfere reciprocamente distinte, bensì sottrazione e trasferimento delle funzioni produttive gerarchicamente superiori dai lavoratori a una classe indipendente, ossia, in termini marxiani, alienazione o espropriazione capitalistica dei produttori diretti. Ferguson, cui sta a cuore la determinazione degli effetti politici delle trasformazioni che avvengono nella società civile, non manca di sottolineare il rapporto di soggezione tra le classi che discende dalla divisione del lavoro:

Il primo fondamento di subordinazione è nella differenza dei talenti e delle disposizioni naturali; il secondo nella ineguale divisione della proprietà; il terzo, che non è meno rilevante, risulta dalle abitudini che vengono acquisite a mezzo della pratica delle differenti arti. […] Alcune occupazioni sono liberali, altre meccaniche. Esse richiedono talenti differenti e ispirano sentimenti differenti.9

Ne consegue un’esplicita indicazione del carattere dialettico dello sviluppo economico, che può innalzare una classe solo a condizione di abbassarne un’altra; nonostante che si riferisca a questo avvilimento in termini principalmente morali, la diagnosi di Ferguson ha il pregio di essere tutt’altro

7

Ibidem.

8

Ivi, p. 208. Più oltre il testo continua: “L’esperto di ogni arte e professione può fornire materia di ricerca generale all’uomo di scienza. Il pensare stesso, in questa epoca di differenziazioni, può diventare un mestiere particolare” (ibidem).

9

che moralistica, poiché all’astratta naturalizzazione dei vizi dei ceti popolari oppone la necessaria storicità della loro genesi:

In ogni Stato commerciale, nonostante ogni pretesa ad eguali diritti, l’esaltazione di pochi deve

necessariamente deprimere i molti. In questa combinazione, noi pensiamo che l’estrema

abiezione di certe classi debba sorgere principalmente da una carenza di conoscenze e dalla mancanza di una educazione liberale. E ci riferiamo a queste classi come ad una immagine di ciò che dovette essere stata l’umanità nel suo stadio rozzo e incolto. Ma dimentichiamo, in questo modo, quante circostanze, specialmente nelle città ricche di abitanti, tendono a corrompere le classi più basse della società. L’ignoranza è il minore dei loro difetti. […] Se il selvaggio non ha ricevuto le nostre conoscenze, ignora anche i nostri vizi. Non conosce superiori né può essere servile, perché non conosce disuguaglianze di beni.10

Ferguson rifugge quindi tanto dalle “robinsonate” di cui parlerà Marx quanto dall’autoreferenzialità del discorso economico, che egli si sforza, al contrario, di collocare in una prospettiva storica, per far emergere i nessi che lo legano alla sfera più comprensiva del comportamento morale e della partecipazione politica. Quest’attitudine anti-riduzionistica e storicizzante, insieme alla denuncia degli effetti negativi prodotti sugli individui dalla divisione del lavoro, spiega il sostanziale apprezzamento che Marx mostra di nutrire nei confronti dell’opera di Ferguson,11 nonché la frequenza con cui citazioni e osservazioni di sapore fergusoniano punteggiano il dodicesimo capitolo del primo libro del Capitale.

A confronto con il testo di Ferguson, l’Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle

nazioni, pubblicata nel 1776, segna una considerevole restrizione di prospettiva all’ambito specifico

dell’economia politica e un simultaneo regresso dell’indagine storica, che spesso è surrogata da riflessioni di carattere morale o psicologico. L’importanza che Smith attribuisce alla divisione del lavoro è testimoniata dalla collocazione dei capitoli dedicati ai suoi benefici effetti e alle sue origini proprio in apertura del primo libro dell’opera, significativamente intitolato Delle cause del progresso

nelle capacità produttive del lavoro e dell’ordine secondo cui il prodotto viene naturalmente a distribuirsi tra i diversi ceti della popolazione. Essa vi appare infatti come la causa principale del

progresso della produttività,12 la quale è assunta tuttavia, in forza del restringimento di visuale di cui si

10

Ivi, p. 211, corsivo mio. Similmente, Marx parlerà di “inaridimento intellettuale artificialmente prodotto dalla trasformazione di uomini maturi in semplici macchine per la fabbricazione di plusvalore, e da non confondere con la rude incultura che tiene la mente a maggese senza corromperne la capacità di sviluppo e la fecondità naturale” (Marx K., Il

capitale, libro I, p. 535).

11

De Palma definisce nel modo seguente l’impostazione di Ferguson rispetto a quella di Smith: “Più complessa e articolata è la posizione di Ferguson. Senza dubbio, egli è più interessato a un’analisi sociologica che collochi la divisione del lavoro in un contesto non economico, e la sua analisi della separazione delle arti e delle professioni sembra assumere una forma maggiormente dilemmatica e, entro certi limiti, mettere in questione l’impalcatura stessa dello stato commerciale. Ma anch’egli, in ultima analisi, finiva col giustificare la società scozzese del suo tempo, impegnata in una profonda trasformazione delle vecchie strutture feudali” (De Palma A., Le macchine e l’industria da Smith a Marx, pp. 22-23).

12

“La causa principale del progresso nelle capacità produttive del lavoro, nonché della maggior parte dell’arte, destrezza e intelligenza con cui il lavoro viene svolto e diretto, sembra sia stata la divisione del lavoro”; “La divisione del lavoro […] nella misura in cui può essere introdotta, determina in ogni mestiere un aumento proporzionale delle capacità produttive del lavoro. Sembra che la separazione di diversi mestieri e occupazioni sia nata proprio in conseguenza di questo vantaggio e in genere essa è più spinta nei paesi più industriosi che godono di un più alto livello di civiltà” (Smith A., Indagine sulla

è detto, dal punto di vista pressoché esclusivo del valore di scambio, ossia della quantità o del prezzo delle merci prodotte nell’unità di tempo.13 Rispetto a Ferguson, Smith introduce la distinzione, che Marx tematizzerà apertamente sulla scorta di Skarbek,14 tra divisione manifatturiera e divisione sociale del lavoro, anche se le vede in stretta connessione reciproca,15 riducendone le differenze a una semplice questione di scala, e appunta poi la sua attenzione soltanto sulla prima, nella quale la parcellizzazione delle mansioni è collegata in modo più evidente con l’incremento della produttività:

Questo grande aumento della quantità di lavoro che, a seguito della divisione del lavoro, lo stesso numero di persone riesce a svolgere, è dovuto a tre diverse circostanze: primo, all’aumento di destrezza di ogni singolo operaio; secondo, al risparmio del tempo che di solito si perde per passare da una specie di lavoro a un’altra; e infine all’invenzione di un gran numero di macchine che facilitano e abbreviano il lavoro e permettono a un solo uomo di fare il lavoro di molti.

La maggior destrezza dell’operaio, in primo luogo, non può che accrescere la quantità di lavoro che è in grado di svolgere.16

In rapporto al singolo lavoratore, la divisione del lavoro agisce come un potenziatore di abilità e prontezza, poiché semplifica l’operazione che gli è richiesto di compiere: “In conseguenza della divisione del lavoro, l’intera attenzione di ogni uomo viene indirizzata verso un unico oggetto molto semplice”.17 Questa semplificazione non sembra tuttavia comportare una degradazione dell’operaio, una sua riduzione a ingranaggio di un congegno automatico, bensì produce il benefico effetto di accrescerne la perizia nel suo compito particolare, cosicché non vi è traccia di riprovazione o di rammarico nell’affermazione per cui “le diverse operazioni in cui si suddivide la fabbricazione di uno spillo o di un bottone metallico sono tutte molto più semplici e la destrezza di una persona che ha passato tutta la vita a compiere quelle operazioni è di solito molto maggiore”.18 Un esempio tratto dalla crescente specializzazione cui si assiste nel campo del sapere mostra che per Smith non vi è contraddizione tra la prosperità della società nel suo complesso e la condizione particolare dei suoi singoli membri, poiché la divisione del lavoro accomuna l’una e gli altri nel segno del progresso: “Questa suddivisione delle occupazioni nella filosofia, come in ogni altra attività, accresce la perizia e fa risparmiare tempo. Ciascun individuo diviene più competente nel suo ramo specifico,

complessivamente viene svolto un lavoro maggiore e la quantità del sapere ne risulta

natura e le cause della ricchezza delle nazioni, pp. 9, 10-11). Secondo Karl Korsch, un appunto autografo di Marx

dimostrerebbe che il concetto di “forze produttive sociali” gli sia stato suggerito dalla lettura del primo di questi brani (cfr. Korsch K., Karl Marx, p. 214).

13

Fa eccezione un fugace accenno alla qualità delle merci prodotte: “la nazione povera, per quanto possa rivaleggiare, in qualche misura, nonostante l’inferiorità delle sue colture, con quella ricca nel prezzo e nella qualità del suo grano, non può aspirare a nessuna competizione del genere nel campo manifatturiero” (Smith A., Indagine sulla natura e le cause della

ricchezza delle nazioni, p. 12).

14

Cfr. Marx K., Il capitale, libro I, p. 479.

15

“Esaminando il modo in cui la divisione del lavoro funziona in manifatture particolari, sarà più facile comprenderne gli effetti sull’insieme della società” (Smith A., Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, p. 9).

16 Ivi, p. 12. 17 Ivi, p. 14. 18 Ivi, p. 13.

considerevolmente accresciuta”.19 La distinzione tra il piano collettivo e quello individuale obbedisce dunque a esigenze puramente logico-espositive, non indicando in alcun modo una divaricazione simile a quella che già Ferguson aveva sottolineato; la prospettiva di Smith è tanto irenica e a-dialettica da non riconoscere l’esistenza di macroscopiche differenze tra le classi neppure nei livelli di consumo, mentre i lavoratori sono rappresentati, in forza di un’astrazione dalle loro reali condizioni di vita, come proprietari dei mezzi di produzione che si scambiano vicendevolmente le proprie eccedenze:

La grande moltiplicazione dei prodotti di tutte le varie arti, in conseguenza della divisione del lavoro, è all’origine, in una società ben governata, di una generale prosperità che estende i suoi benefici fino alle classi più basse del popolo. Ogni operaio può disporre di una grande quantità del suo lavoro che supera le sue necessità e […] è in grado di scambiare una gran quantità dei suoi beni con una grande quantità dei beni degli altri […]. Egli li fornisce copiosamente di ciò di cui hanno bisogno ed essi fanno lo stesso con lui, sicché una generale abbondanza si diffonde fra tutti i diversi ceti sociali.20

La perfetta armonia tra prosperità collettiva e benessere individuale è collegata con l’interdipendenza generale dei lavori reciprocamente divisi, quasi che l’universale necessità dello scambio equivalesse all'uguale partecipazione di ciascuno ai prodotti della ricchezza sociale:

Osservate il benessere di cui godono, in un paese civile e fiorente, il più comune artigiano o lavorante a giornata e vi accorgerete che è incalcolabile il numero di coloro che sono stati impiegati per procurargli questo suo benessere con una parte, anche piccola, della loro operosità. L’abito di lana col quale si ripara il lavorante a giornata, per esempio, per grezzo e ruvido che sia, è il prodotto del lavoro congiunto di una moltitudine di operai. […] se […] esaminassimo tutte queste cose e considerassimo quale complessità di lavoro c’è voluta per ciascuna di esse, ci convinceremmo che, senza l’assistenza e la cooperazione di molte migliaia di persone, l’ultimo degli abitanti di un paese civile non potrebbe mai godere, come ora di norma gode, di un tenore di vita che noi a torto riteniamo semplice e facile ad aversi. 21

Il capitolo di apertura dell’Indagine smithiana, dedicato alla divisione del lavoro, si conclude quindi con l’affermazione, tanto risoluta quanto impegnativa, secondo la quale, all’inizio dell’età industriale, le classi umili dei paesi più sviluppati godrebbero di un elevato tenore di vita, contrariamente a quanto denuncerà Marx meno di un secolo più tardi, allorché, dati storici alla mano, sosterrà il costante peggioramento delle condizioni di esistenza dei lavoratori agricoli inglesi a partire dall’ultimo trentennio del XV secolo.22 L’accrescimento del benessere dei singoli sembra coincidere

19

Ivi, p. 15, corsivi miei.

20

Ibidem.

21

Ivi, p. 15-16. Marx osserva che il brano “riproduce quasi alla lettera un passo delle Remarks di B. de Mandeville alla sua

Fable of the Bees, or, Private Vices, Public Benefits” (Marx K., Il capitale, libro I, pp. 483-484, nota b).

22

Il capitolo XXIV del primo libro del Capitale, dedicato all’accumulazione originaria, riconduce al fenomeno delle

enclosures l’origine del depauperamento della classe dei coltivatori diretti, che fino al XV secolo era costituita da liberi

produttori indipendenti o da salariati che tuttavia possedevano anche piccoli appezzamenti e godevano dei diritti d’uso delle terre comuni. Riguardo all’epoca in cui Smith scrisse e pubblicò la sua opera, Marx afferma che “l’usurpazione delle terre comuni e la rivoluzione agraria ad essa concomitante ebbero effetti così acuti sui lavoratori dei campi, che, perfino secondo Eden, fra il 1765 e il 1780 il loro salario cominciò a scendere al di sotto del minimo [sufficiente alla semplice sussistenza] e

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