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LE DIVINITA' PACIFICHE

Nel documento Il Libro Tibetano dei Morti (pagine 63-66)

F I SEI REGNI DELL'INCARNAZIONE

1 LE DIVINITA' PACIFICHE

L'unico luogo di divinizzazione a noi accessibile è il cuore umano, vera parte di questo processo trascendente.

G. R. HEYER

Tutte le visioni del bar-do con cui la coscienza si confronta dopo la morte hanno un aspetto affascinante e ripugnante. Quali figure numinose hanno un significato fortemente antinomico, sembrano essere pure e semplici manifestazioni della stessa antinomia. Ma in questa grande antinomia non rappresentano altro che forme diverse del medesimo fenomeno, cioè della coscienza umana. Si manifestano con tale veemenza e con tanta parvenza di realtà psichica che non è possibile ignorarle o tentare di razionalizzarle.

Tuttavia non dobbiamo dimenticare quanto sostiene il Libro tibetano dei Morti, vale a dire che, nonostante la loro realtà fenomenologica le divinità del bar-do non sono dei nel senso tradizionale del termine. Non sono associabili né a spazi celesti né a mondi sotterranei di dimensioni spaziali e non sono figure mitologiche chiamate a svolgere un compito mitico e soterologico. Inoltre le visioni del bar-do non vanno intese come emanazioni di un dio o del suo ordine gerarchico. Quindi non sono una teofania, ma una realtà psichica, un evento archetipico di potenze numinose che, quali immagini della coscienza, si realizzano nello spazio interno della coscienza umana e vengono proiettate da questa. Questa è la ragione per la quale vengono definite "false immagini del proprio spirito", figure illusorie, visioni. Ma anche come tali, pur essendo proiezioni della propria mente, le divinità delle visioni rappresentano una realtà psichica. Le divinità delle visioni postmortali sono un evento psichico interno rappresentato da simboli archetipici della tradizione buddhista, che nei grandi mandala venivano rappresentati come vere e proprie realtà spirituali. Naturalmente sono archetipi di corrispondenti sapienze, virtù buddhiste, rapporti cosmologici e psicologici, in particolare i cinque Tathagata, che costituiscono i cinque skanda o aggregati della personalità umana.

Ma le divinità del bar-do si manifestano anche come risposta al karma, il destino autoprodottosi e personale dell'individuo. E nel bar-do esse diventano un'immagine della situazione personale o della condizione soggettiva della coscienza sulla via della rinascita karmicamente condizionata. Ritorneremo più volte sulla natura delle divinità del bar-do. La funzione del Libro tibetano dei Morti dev'essere intesa come una risposta, che arriva in profondità e che tocca il trascendente, a uno dei problemi (e realtà psichiche) più drammatici dell'uomo, quello della morte e dell'aldilà. Stando così le cose, eventuali richiami alla mitologia non entrano nell'ottica del Libro tibetano dei Morti, sono completamente estranei alla sua vera funzione. Le divinità del bar-do non sono mitologiche, perciò nel pantheon delle divinità del lamaismo occupano una posizione sui generis; infatti ad esse non viene attribuito alcun valore reale per l'esistenza terrena. Questo vale in particolare per le divinità adirate, che nelle rappresentazioni del pantheon sono indicate raramente.

Tutte le divinità del bar-do sono emanazioni di un "ammasso di radiazione e vuoto", provengono "dallo spazio della natura di se stessi" e si manifestano nella "sfera del proprio prezioso spirito" dopo che nel bar-do dell'esperienza di morte si è accesa "nello sconfinato spirito" la chiara luce primigenia. Così, e in modo analogo, suonano nei testi tibetani le definizioni della natura delle divinità.

Tutte le divinità delle visioni appaiono su un loto, sedute, in piedi, o in movimento (in atteggiamento mosso, scr. asana). Il loto (scr. padma) simboleggia il rapimento celeste, l'estasi; non è un trono terreno, è un simbolo dei cakra e del centro della coscienza per erigere uno spirituale trono celeste alle divinità. Il loto sta a significare che le divinità hanno superato il samsara, o sono lontane dal mondo della sofferenza. I Buddha e i Bodhisattva pacifici stanno su un trono formato da un loto e da una luna sul mandala del cuore; le divinità demoniache adirate stanno su un trono composto da un loto e da un sole. Le divinità pacifiche emanano radiazioni di cinque colori (i cinque colori fondamentali); le divinità adirate appaiono in una fiammeggiante aureola di fuoco. Si tratta di due riferimenti ad antichi simboli dello yoga indiano. Il sole e la luna, cosmologicamente collegati, rappresentano le divinità e le forze psichiche nell'uomo. Questa dottrina ha un ruolo importante nella pratica del kundalini-yoga e nei tantra per la rappresentazione del simbolismo esoterico della polarità.

Esaminiamo per prime le divinità pacifiche: "Nel proprio corpo, nell'interno più interno della sfera dello spirito esiste una concentrazione della radiazione delle cinque luci, e dal loro centro appare l'assemblea delle divinità pacifiche".

Si intendono le 42 divinità pacifiche che iniziano col gruppo dei cinque tathagata. Al di sopra di esse, nel piano più alto, c'è come puro dharmakaya, archetipo e quintessenza di tutte le altre emanazioni l'adibuddha azzurro, che descriveremo per primo.

A L'ADIBUDDHA QUALE MITICO CREATORE DEL MANDALA

Quale suprema forma immaginabile dell'originaria visione dello spirito nelle tradizioni del Libro tibetano dei Morti troviamo l'Adibuddha blu Samantabhadra (tib. Kun-tu bzang-po), la cui immagine non sarebbe teoricamente rappresentabile. Perciò anche i testi tibetani che descrivono la natura dell'Adibuddha sono colmi di concetti simbolici e di idee trascendenti la cui profondità è difficilmente esprimibile. Quale prima materializzazione del corpo trascendente manifestantesi del dharmakaya l'Adibuddha Samantabhadra viene ritratto nudo, di colore blu, seduto su un loto. Un antico testo frammentario, che fa parte degli scritti del Libro tibetano dei Morti, definisce questo Adibuddha "re del sapere e della conoscenza", "nato spontaneamente dallo spirito" e che ha la sua origine "nella pura sfera segreta della coscienza universale" (scr. alaya-vijnana, tib. Kun-gzhi rinam-shes). Poi il testo (un'invocazione) prosegue: "Imploriamo il re della conoscenza e padre (spirituale) di tutti i Buddha dei tre tempi, non macchiato da passioni, seduto su un loto senza veste alcuna, che il mudra dell'onniscienza comprendente tutti i Buddha e tutti gli esseri, signore di tutti i mandala, il sublime Sri-Samantabhadra".

Un altro testo dei Libri tibetani dei Morti descrive la seconda visione dell'Adibuddha, cioè la pura visione della prima unità tantrica della grande polarità maschile-femminile, in cui l'Adibuddha è congiunto alla sua Prajna bianca Samantabhadri (tib. Kun-tu bzang-mo), la grande madre di tutti i Buddha.

"Venerazione all'Adibuddha, corpo di luce inestinguibile, signore di tutti i Buddha di puro intelletto e sapere, il cui colore è uguale a quello del cielo e che si trova in raccolta concentrazione nella posizione del loto. Invochiamo il dharmakaya samantabhadra. Invochiamo la Prajana, madre di tutti i Buddha dei tre tempi, bianca come il cristallo delle

purissime sfere del dharma, congiunta col Buddha in suprema beatitudine, la grande madre Samatabhadri".

Le invocazioni di questo genere fanno parte delle Sadhana, le scritture che descrivono le invocazioni ai Buddha e alle divinità che appaiono nelle visioni dei meditanti. L'Adibuddha Samantabhadra congiunto alla sua Prajana bianca è la figura più alta nelle visioni del Libro tibetano dei Morti. La tradizione della setta rNying-mapa, che si richiama al fondatore Padmasambhava, considera questo Adibuddha il principio del dharmakaya più alto in assoluto.

Incontriamo questo Adibuddha azzurro in quasi tutti i dipinti tibetani che illustrano il contenuto del Libro tibetano dei Morti: è ritratto nel punto più alto dell'immagine oppure al centro della stessa. Spesso è provvisto di un'aura di raggi di cinque colori che partono dal centro e si perdono nelle sfere celesti. Anche la sua Prajna bianca "origine della nascita di tutti i mandala", viene rappresentata nuda (tib. ma-gos-pa) e in stretta unione tantrica con Samantabhadra.

Dopo il grande simbolo della prima coppia tantrica che rappresenta l'unione delle forze antinomiche, appaiono tutte le altre divinità, anch'esse accoppiate. L'Adibuddha azzurro congiunto alla sua Prajna personifica la via della gnosis tantrica (scr. prajnopaya, tib Thabs shes), l'abolizione della polarità fra la via (o metodo), rappresentata dal Buddha, e la meta (il punto d'arrivo), la Prajna, La via è il metodo che porta alla conoscenza; e la meta è la sapienza o conoscenza di fenomeni e vuoto. L'Adibuddha è rappresentato nudo perché essendo trascendente non è descrivibile. La sua natura è pura conoscenza o coscienza universale (scr. alayavijnana, tib. Kun-gzhi rnam-shes); la pura natura della coscienza è luce, per questo il Buddha ha il colore del cielo, dello spazio celeste, ed è indifferentemente e dappertutto coscienza. L'uguaglianza del colore ci ricorda la Chiara Luce del primo bar-do. Quale pura forma del supremo stato di trascendenza del dharmakaya Samantabhadra non porta nè vesti nè ornamenti celesti nè la corona dei Buddha del sambhogakaya, che troviamo in tutte le altre divinità del mandala del bar-do.

Prima di illustrare i cinque Tathagata dobbiamo descrivere ancora Vajrasattva (tib. rDo-rje sems-dpa'), il Buddha bianco chiamato "essenza adamantina", che va inteso come la prima emanazione dell'Adibuddha nel sambhogakaya. Vajrasattva è il Buddha mistico delle iniziazioni nei mandala. Anch'esso può venir ritratto solo in un unione tantrica con la sua Prajna Vajrasattvatmika. Vajrasattva può essere definito una delle più antiche figure simboliche della "dottrina di diamante" del buddhismo vajrayana. E' la quintessenza della natura adamantina (del diamante) o della pura natura del sè (scr. svabhava, tib. Ngo-bo- nyid). anche Vajrasattva è visto (nella sua visione spirituale) nel regno trascendente della sfera del dharmadhatu. Emanando dal centro del proprio spirito appare, in radiazione e vuoto, su un trono di loto. E di colore bianco. Con la mano destra davanti al cuore regge il vajra del sapere e del vuoto (tib. Rig-stong rdo-rje), nella sinistra, posta in grembo, ha la ghanta (campana) della manifestazione e del vuoto (tib. sNang-stong drilbu). Vajrasattava porta gli ornamenti celesti del sambhogakaya splendido a vedersi, la corona d'oro a cinque foglie dei Buddha (tib. dBu-rgyan), vesti bianco-variopinte, colana, bracciali e cavigliere d'oro. E' seduto su un loto davanti a una grande aureola di raggi che gli circonda il corpo e la testa. L'aureola o nimbus (scr. prabhamandala) indica la natura trascendente e luminosa dei Buddha della meditazione del sambhogakaya. Questi Buddha quindi non sono figure appartenenti al passato o mitiche, ma simbolici archetipi di determinate dottrine. Sono immagini di saggezza buddhista nell'ordine cosmico elementare. Sono trascendenti e provengono dalla celeste sfera "interna della propria

coscienza", quali proiezioni dell'immaginazione attiva. Sono proiezioni dell'immenso spazio interno della coscienza nelle sfere cosmiche di un immaginario spazio celeste. Perciò questi Buddha non sono dei, ma simboli di determinate sapienze e di determinati piani di coscienza. Vajrasattva personifica l'insieme di tutti i significati tantrici delle dottrine del buddhismo vajrayana. Questa è la ragione per la quale in numerose iniziazioni tibetane viene invocata anzitutto la presenza mistica del Buddha Vajrasattva, dal cui mantra di 108 sillabe provengono le benedizioni della meditazione trascendentale per i quattro corpi mistici del microcosmo umano.

Nel documento Il Libro Tibetano dei Morti (pagine 63-66)

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