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DATI e MATERIAL

2.1 LE INFORMAZIONI NECESSARIE.

Per esaminare in maniera soddisfacente l’eventuale relazione causale fra i benefici alla nascita e le scelte riproduttive individuali, sarebbe opportuno confrontare, in modo puntuale, il comportamento di chi ha usufruito dei benefici con quello di chi non ha potuto riceverli, pur manifestando un atteggiamento molto o del tutto simile31

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Purtroppo i dati necessari per costruire questo disegno non sono disponibili, e di conseguenza sembra una scelta obbligata tentare di simulare una situazione sperimentale, utilizzando i dati a disposizione.

L’idea di base è quella di individuare gruppi diversi di donne secondo l’eleggibilità rispetto ai benefici previsti e secondo l’ipotetico impatto che essi dovrebbero avere sul comportamento riproduttivo, osservandone l’atteggiamento nel periodo in cui il bonus era in vigore e nei due periodi adiacenti: se i gruppi più eleggibili rispetto agli stanziamenti modificano il comportamento riproduttivo in modo sistematico nella direzione ipotizzata (aumento della fecondità e diminuzione dell’abortività), e se nel contempo gli altri gruppi non subiscono le stesse modifiche, allora sarebbe possibile ritenere che il bonus abbia avuto un certo effetto. Come era possibile intuire dagli obiettivi della ricerca (paragrafo 1.3), il particolare iter normativo permette di individuare come gruppo più eleggibile, e quindi ipoteticamente più sensibile ai benefici, quello composto dalle donne coniugate con almeno 2 figli e con un reddito non superiore a € 25.822, in cui almeno uno dei due coniugi sia di cittadinanza italiana e residente da almeno 12 mesi in Friuli: tale gruppo infatti è l’unico ad aver avuto la possibilità di accedere, per ogni figlio successivo al secondo, agli assegni mensili previsti fino al terzo anno di età (da € 110 a € 210, proporzionalmente al reddito) e alla consistente indennità di maternità una tantum (€ 4.648).

In questo caso i migliori indicatori per un corretto approfondimento delle scelte riproduttive sono due:

il tasso di fecondità, ovvero il rapporto in un dato anno tra il numero di nati e la relativa popolazione media femminile in età feconda32

;

il tasso di abortività, ovvero il rapporto in un dato anno tra il numero di interruzioni volontarie di gravidanza (IVG) e la relativa popolazione media femminile in età feconda.

Diventa pertanto basilare avere a disposizione l’ammontare dei nati e delle interruzioni volontarie di gravidanza in Friuli Venezia Giulia distinti per

 Anno  Parità33

 Stato civile della madre  Reddito del nucleo familiare

 Luogo e periodo di residenza dei genitori  Cittadinanza dei genitori

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L’età feconda di una donna viene definita, convenzionalmente, tra i 15 e i 49 anni.

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e l’ammontare della popolazione femminile in età feconda, presente in Friuli Venezia Giulia, in maniera distinta per

 Anno  Stato civile

 Reddito del nucleo familiare  Luogo e periodo di residenza  Cittadinanza

Tutti questi elementi sono indispensabili per poter predisporre una dettagliata analisi sulle scelte riproduttive dei gruppi di donne presenti in territorio friulano, in particolare del gruppo di donne coniugate con almeno 2 figli e con un reddito basso, e in un secondo tempo per valutare l’impatto che le normative regionali hanno avuto su tali scelte.

2.2 L’INTERRUZIONE DELLA RILEVAZIONE DELLE NASCITE

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Negli anni a cavallo del nuovo secolo, come anticipato a inizio capitolo, il quadro informativo sulle nascite in Italia è divenuto decisamente carente, a seguito delle modificazioni normative in tema di dichiarazione di nascita, introdotte dalla Legge 127/97 (detta anche Bassanini-bis) e dal successivo Regolamento di attuazione (D.P.R. 403 del 20 ottobre 1998). Tali variazioni normative hanno reso impossibile la prosecuzione della tradizionale rilevazione delle nascite di fonte Stato Civile, che l’Istat conduceva dal lontano 1926.

Il Legislatore, eliminando la rilevazione sulle nascite, demandò agli organi competenti l’organizzazione di un nuovo flusso statistico sulle nascite, che rispettasse i percorsi istituzionali corretti e non fosse lesivo della privacy. A tale scopo il Ministero della Salute istituì, nel 1998, un gruppo di lavoro che aveva il compito di predisporre il nuovo certificato di assistenza al parto, denominato CE.D.A.P.35. Il nuovo CE.D.A.P. avrebbe dovuto seguire un percorso esclusivamente sanitario, in cui l’Istat appare solo come primo fruitore del dato, incaricato di predisporre la diffusione delle informazioni in forma aggregata. In realtà il certificato di assistenza al parto esisteva già in molte regioni, ma non aveva una

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Fonte: http://www.osservabimbo.it.

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Il certificato di assistenza al parto è composto da una sezione generale e da 5 sotto-sezioni che trattano l’argomento in maniera davvero esaustiva. La sezione generale contiene le informazioni relative al luogo dove è avvenuto il parto (Regione, Comune, Azienda USL) e i principali dati identificativi della madre (nome, cognome e codice fiscale). Le 5 sotto-sezioni contengono rispettivamente le principali informazioni socio-demografiche sui genitori (data e luogo di nascita, residenza, stato civile, titolo di studio, condizione professionale e, per la madre, storia riproduttiva), le informazioni sulla gravidanza (visite e indagini prenatali, eventuale presenza di

standardizzazione a livello nazionale e non era utilizzato a fini di statistica ufficiale. Nel luglio del 2001 il Decreto Ministeriale n. 396 istituì il nuovo CE.D.A.P., ma solo con la successiva Circolare Ministeriale del 19 dicembre 2001 si fornirono le disposizioni per l’avvio della rilevazione, previsto per il primo gennaio 200236.

Il CE.D.A.P. faticò ad essere assimilato e non produsse immediatamente i risultati sperati: tutte le informazioni riguardanti i nati e quelle socio-demografiche sui loro genitori (ad esempio lo stato civile, il titolo di studio, la condizione professionale e, per la madre, la storia riproduttiva) non vennero adeguatamente raccolte, creando nella maggior parte delle regioni italiane una sorta di voragine informativa che nella quasi totalità dei casi parte dal 1998, anno in cui entrò in vigore la cosiddetta Bassanini-bis, e arriva almeno fino al 2002. Una situazione che certamente non favorisce la ricerca in atto, la quale costruisce le sue ipotesi sulla base delle normative attuate in Friuli proprio negli anni a cavallo del nuovo secolo.

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