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LE PRIME IMPRESE COLONIALI ITALIANE: ERITREA, SOMALIA, ETIOPIA

CAP 2 IL COLONIALISMO ITALIANO IN AFRICA TRA MISTIFICAZIONE E NEGAZIONISMO

2.1 LE PRIME IMPRESE COLONIALI ITALIANE: ERITREA, SOMALIA, ETIOPIA

Come si legge nel saggio Italiani, brava gente?1 di Angelo Del Boca che,

assieme a Nicola Labanca, è ad oggi uno dei massimi studiosi italiani del colonialismo made in Italy, l'esperienza coloniale italiana inizia poco dopo l'unificazione con la presa dei porti di Assab e Massaua sulla costa africana del Mar Rosso a fine Ottocento, e si “conclude” con la perdita di tutte le colonie a seguito della sconfitta dei paesi dell'Asse durante la seconda guerra mondiale. Le mire espansionistiche italiane promosse dalle società geografiche, dalle industrie belliche, cantieristiche e siderurgiche, dai circoli colonialisti e della dinastia Savoia, rappresentavano, in nome dell'indole pedagogica e civilizzatrice dell'Italia, unita alla necessità avanzata dal governo di individuare nuovi territori di popolamento oltremare, le giuste occasioni per ridare lustro al paese e alla casa reale.

Dopo l'acquisto della piccola baia commerciale e militare di Assab, in Eritrea, (1882) dalla Società di Navigazione Rubattino, che ne aveva fatto un deposito di carbone per i rifornimenti delle navi italiane dirette alle Indie, l'Italia, con il benestare della Gran Bretagna (interessata ad arginare l'espansionismo francese e tedesco in Africa Orientale), si apprestava a conquistare il porto di Massaua (1885) che, assieme ad Assab, andava a costituire i primi possedimenti italiani nel Mar Rosso facenti parte della, poi denominata, “colonia Eritrea”.

Come sostiene Del Boca, la matrice razziale e razzista che dominava la conquista dell'Africa (di cui gli italiani ignoravano completamente conformazione geografica, storia, cultura, costumi del luogo trovandosi, in loco, del tutto impreparati) era velata da istanze civilizzatrici che miravano all'esportazione di democrazia e civiltà nelle terre dei “barbari”(peraltro non poi così lontane da quelle invocate nelle guerre contemporanee).

La lotta alla schiavismo, già avviata nel Corno d'Africa dalla Gran Bretagna e che in Italia ebbe grande eco nella propaganda di giornali e quotidiani,

rappresentava una delle motivazioni che meglio giustificavano le velleità civilizzatrici del bel paese: di fatto, alla base di tali ambizioni, era forte la volontà di conquistare le “razze inferiori” e progressivamente sostituirle con quelle considerate “superiori, dominatrici, bianche, civilizzate”.

Il contributo dell'Italia alla lotta allo schiavismo fu del tutto ininfluente.

Al contrario, l'abuso costante dei tribunali militari, le fucilazioni sommarie, le repressioni segrete, l'occultamento dei cadaveri, le carcerazioni e le deportazioni in Italia o presso campi di concentramento interni, la violazione delle stesse leggi delle colonie, costituivano le strategie militari privilegiate dagli italiani, contraddistinte da violenza e forza repressiva.

Spesso la colpa degli abusi, delle torture, delle uccisioni veniva fatta ricadere sui gendarmi eritrei e sull'”indole selvaggia” degli stessi indigeni.

Del Boca dedica un capitolo di Italiani, brava gente? a quello che definisce l'”inferno di Nocra” (Del Boca 2005: 73): Nocra, un'isola dell'arcipelago delle Dahalk a 55 chilometri a largo di Massaua, divenne sede del penitenziario simbolo dell'oppressione coloniale per le condizioni disumane in cui vivevano i carcerati; nel 1892 il carcere raggiunse la capienza massima con un migliaio di detenuti e rimase attivo fino al 1941.

Dal 1885 al 1890 vi fu una fase di notevole espansione per il colonialismo italiano che si concluse con la proclamazione della colonia Eritrea e di quella Somala.

Attraverso la firma di accordi e contratti con i sultani locali e con le altre potenze coloniali, l'Italia occupò l'area meridionale della Somalia, seguendo una divisione del paese per aree d'influenza: la Gran Bretagna stabilì il suo protettorato su gran parte del territorio (poi Somaliland nel 1886), mentre alla Francia venne affidato il controllo dell'area settentrionale, tra Afars e Issas (Somalia Francese).

Da una prima fase di protettorato “in accordo” con le autorità locali, che prevedeva la gestione ed il controllo del sultanato di Obbia e della Migiurtinia, della regione di Chisimaio e dei porti del Benadir, si passò negli anni successivi ad una fase di accorpamento dei diversi possedimenti italiani in loco in un'unica entità amministrativa (denominata, nel 1908, “Somalia Italiana”) .

Le mire espansionistiche italiane che, da Eritrea e Somalia si spingevano verso la vicina Etiopia, sfumarono però nella clamorosa sconfitta di Adua (1896): sul terreno di guerra restarono cinquemila soldati italiani, straziati dall'esercito di Menelik II, ed altri duemila furono fatti prigionieri e deportati nello Scioa.

Con la sconfitta di Adua finiva la prima esperienza coloniale italiana che, tuttavia, già presentava una serie di elementi caratteristici della strategia militare e politica adottata anche nelle imprese successive: disorganizzazione ed incertezza strategica, sopravvalutazione delle proprie forze, razzismo e svilimento dell'avversario, mancata conoscenza del luogo e del popolo da conquistare, uso di metodi repressivi e violenti, ricorso alla propaganda e alla mistificazione e diffusione di un'immagine del colono italiano più buono e mite rispetto agli altri conquistatori.

Come si legge nell'opera di Angelo Del Boca, già queste prime avventure coloniali offrirono agli italiani elementi utili, non corrispondenti alla realtà dei fatti, ma sfruttati a dovere ai fini della propaganda nazionale, nel delineare un ritratto dell'italiano buono e giusto anche in situazioni di guerra o conflitto.

Sin dall'inizio, disponendo di pochi mezzi e di scarse idee, l'Italia cercava di imporsi esibendo il proprio splendido passato di portatrice di civiltà e sottolineando in tutte le occasioni la sua originalità. In altre parole, si voleva subito stabilire che gli italiani erano differenti dagli altri colonizzatori, più umani, più tolleranti, più generosi. Anche se il generale Baldissera aveva usato i metodi più forti per impadronirsi di Asmara, tanto che Filippo Turati lo aveva accusato di aver dato l'avvio al «periodo del terrore in Africa» e lo definiva «quel cane di Baldissera», non di meno cominciava ad affermarsi nella colonia la locuzione di «italiano buono», tradotta nel linguaggio locale in «bono italiano». (Del Boca 2005: 49)

2.2 LA CONQUISTA DELLA LIBIA: IL RUOLO DELLA