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3. IL RECUPERO DEL MITO

3.4 Le riduzioni gesuitiche

Se la mitologia appartenente al mondo magico e misterioso degli indios guaranì, in quanto popolo originario, è obbligatoriamente l’unica a poter dare coesione ad una realtà, quella paraguayana, frammentata nei secoli dalle varie vicissitudini politiche e sociali, e se il linguaggio marcatamente evocativo riesce a dare nuova linfa creativa al poeta e al letterato, è soprattutto in campo musicale che la mitizzazione della razza indiana acquista un peso ancor più consistente. Anche nell’opera di Augusto Roa Bastos, importante esponente della letteratura paraguayana, caratterizzata quasi costantemente dal dramma dell’individuo che si confronta con una società che non lo rappresenta e che, per quanto riguarda l’indio, limita la sua libertà e la sua espressività50, il recupero di questa stessa espressività è spesso simboleggiata dalla ricorrente presenza della musica nel testo letterario.

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L’eccezionale esperienza dei gesuiti in Paraguay, tra il 1609 ed il 1767, nasce dalla convergenza di precisi interessi geopolitici della Spagna nei confronti di quella parte di regione sudamericana, ponte strategico tra il territorio Rioplatense e l’alto Perù, ricco di giacimenti minerari, e per questo rientrante nelle mire espansionistiche dei Portoghesi, e da una decisa volontà della Compagnia di Gesù di evangelizzare tale territorio, fino a quel momento privo della loro presenza. Questa esigenza, a sua volta, costituisce nel contempo anche un obiettivo della Corona Spagnola, in virtù della delega del potere spirituale per i domini del nuovo mondo, ricevuta direttamente dal Papa. Non di poco conto, inoltre, la possibilità di acquisire nuovi territori senza l’impiego delle forze militari, di ricevere il versamento del tributo da parte diretta dei gesuiti, che dipendono direttamente dalla Corona e, non ultimo, di vedere realizzato un concreto argine all’espansionismo portoghese51

.

Un fondamentale elemento di successo, determinante per la buona riuscita dell’esperimento ignaziano, è rappresentato dalla possibilità, per gli indios che aderiscono alla vita comunitaria delle riduzioni, di sottrarsi all’istituto dell’encomienda. Pensato in origine come servizio da prestare nei confronti della Corona, viene successivamente ceduto ai soggetti che dimostrano di contribuire significativamente alla colonizzazione e che, in virtù di ciò, vengono autorizzati ad usufruire, secondo modalità concordate, della manodopera indiana. Non sorprende il fatto che tale istituto si trasformi, con il tempo, in una vera e propria forma di schiavitù. Visto che le comunità gesuitiche sono alle dirette dipendenze della Corona, gli abitanti delle riduzioni vengono per questo motivo esentati dall’obbligo di sottostare all’encomienda52. Questo rappresenterà, tra l’altro, una

delle cause principali che determineranno un acceso contrasto tra coloni e gesuiti, che porteranno successivamente, all’espulsione dell’Ordine dai possedimenti d’oltremare, oltre che dalla Spagna stessa.

L’etimologia della parola reducción (riduzione), deriva quasi certamente da “ridurre”, cioè “condurre” le comunità indigene alla conversione cristiana,

51

ALBERTO ARMANI, Città di Dio e Città del Sole. Lo “Stato” gesuita dei Guaranì (1609 – 1768), Roma, 1977.

52

JOHANN HERCZOG, Orfeo nelle Indie, i Gesuiti e la musica in Paraguay (1609 – 1767), Lecce, Mario Congedo Editore, 2001.

adottando nel contempo uno stile di vita plasmato sul modello di quello europeo53. Un forte elemento che caratterizzerà l’opera di evangelizzazione gesuita, anche se non nuovo, visto che viene mutuato dall’esperienza missionaria di altri ordini religiosi già presenti in tempi antecedenti, in primis i francescani, è costituito dall’utilizzo da parte dei missionari, dell’idioma guaranì54

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Nel 1609 viene fondato San Ignacio Guazù, il primo insediamento missionario gesuita nell’alto Paranà, al quale ne seguono altri, fino a raggiungere il numero complessivo di trenta, nel Settecento. La metodologia costitutiva rispecchia sempre un medesimo disegno: primi contatti con le popolazioni e realizzazione dell’insediamento, immediatamente dopo la conversione della comunità indigena. Tale realizzazione prevedeva prioritariamente la costruzione della chiesa e, successivamente, l’organizzazione delle attività agricole e artigianali, necessarie alla sussistenza della collettività55. A questo seguiva l’istruzione, che comprendeva anche l’insegnamento della musica.

Relativamente all’arte dei suoni, non costituisce un elemento di novità il fatto che gli indios siano fortemente impressionati dalla musica, dimostrando nel contempo delle doti straordinarie. Già nel Cinquecento si hanno testimonianze dell’interesse delle popolazioni d’oltremare per la musica, e degli incredibili risultati ottenuti in ambito formativo, soprattutto dai francescani Pedro de Gante nella prima metà del secolo, e da Jodoco Ricke a Quito nella seconda metà, la cui opera fu in grado di rendere gli indios, in ambito musicale, abili lettori e scrittori, nonché suonatori di vari strumenti56.

I gesuiti, quindi, partono avvantaggiati, includendo nei loro strumenti di persuasione, anche la musica che, dovendo sottostare ad una ben precisa finalità, è per lo più riconducibile ad un repertorio sacro, per l’utilizzo durante le funzioni religiose. Considerato poi che i padri missionari incaricati della formazione musicale provengono da varie parti d’Europa, e che ognuno di essi porta con sé musica e strumenti da utilizzare nelle riduzioni, è ipotizzabile che il repertorio riflettesse anche questo carattere cosmopolita. Purtroppo, se si escludono i fondi

53

Ibid., p. 14. 54

RICHARD KONETZKE, America centrale e meridionale 1. La colonizzazione ispano – portoghese, Milano, 1968.

55

J.HERCZOG, op. cit., p. 14. 56

conservati nei boliviani Archivio Musical de Chiquitos, a Concepción, e Archivio Parroquial, a San Ignacio de Moxos, le rimanenti fonti concrete sono andate praticamente distrutte. Quelle citate, comunque relative al solo secolo diciottesimo, possono essere considerate sufficientemente rappresentative della musica eseguita in quel periodo, se si considera poi il fatto che nelle riduzioni era prassi comune ricopiare le composizioni (e questo veniva fatto direttamente dagli

indios appositamente istruiti) ed inviarle presso altri insediamenti che ne avevano

necessità57. Nulla invece è pervenuto della musica relativa al secolo precedente. Se l’abituale e continuo utilizzo di musica proveniente dall’Europa costituisce un rilevante impedimento allo sviluppo di uno stile autoctono, è invece nel contempo possibile ipotizzare, come afferma Herczog58, il consolidarsi di una “. . . tradizione nella prassi esecutiva” e, in tale ambito “. . . si rende quindi legittimo parlare di un

tipico stile americano, capace di assorbire perfino alcuni tratti indiani”.

Solo la presenza in Paraguay dal 1717 di un importante compositore italiano, Domenico Zipoli (1688 – 1726), ha quasi reso possibile il manifestarsi di uno stile tipico americano. Musicista promettente, Zipoli, nel momento più propizio della sua carriera, abbandona inspiegabilmente l’Italia per entrare nella Compagnia di Gesù e salpare, il 5 aprile del 1717, per le Indie occidentali. La destinazione è Córdoba del Tucumàn, sede del Colegio Máximo dei gesuiti. Zipoli non opererà mai direttamente nelle riduzioni; dalle valutazioni espresse dal corpo docente negli anni di studio presso il collegio, emerge una personalità schiva e fragile, tale da non rendere opportuna la sua presenza nelle problematiche condizioni dei

pueblos. È anche possibile che l’intento di non avviarlo alle riduzioni fosse già

stato stabilito prima della partenza. Infatti, essendo le capacità musicali del giovane ben note, non è escluso che i superiori avessero riservato per lui, già preventivamente, il compito di occuparsi degli aspetti musicali della sede religiosa, producendo contestualmente composizioni da inviare alle riduzioni, vista la persistente carenza di materiale.

Pur considerata l’esiguità delle opere direttamente riconducibili a Zipoli, Herczog afferma che Zipoli avrebbe “. . . utilizzato stilemi che sembrano essere scaturiti da

fattori locali e che potevano indubbiamente porre i fondamenti di una scuola

57

Ibid., p. 165. 58

paraguayana”59

, se non fosse stato per la morte prematura ed improvvisa del compositore italiano. È legittima qualche perplessità in tal senso, se non altro nella possibile presenza di elementi musicali autoctoni, proprio considerando il fatto che Zipoli non fu mai a diretto contatto con le popolazioni indios. Inoltre, lo scopo principale della musica era quello di favorire l’evangelizzazione, creando una sorta di “terreno comune”, di via di comunicazione privilegiata per diffondere contenuti spirituali, soprannaturali. È logico presupporre, quindi, come peraltro fatto da gesuiti anche di preparazione inferiore a quella del maestro toscano, che eventuali innesti nelle consolidate strutture musicali europee si traducessero nell’utilizzo di melodie più semplici, visto che le popolazioni indigene più evolute utilizzavano al massimo melodie costruite in un ambito pentatonico, oppure in diverse configurazioni ritmiche; il tutto, per entrare maggiormente in sintonia con la cultura

guaranì.

Un dato di fatto inequivocabile, che contribuì alla mitizzazione della musica nelle riduzione gesuitiche dal Paraguay, è costituito invece dall’indiscutibile e straordinaria attitudine degli indios, in particolare dei guaranìes, per la musica. Le prime testimonianze in merito si possono leggere nei rapporti trasmessi dai primi missionari al Provinciale di Asunción, inviate successivamente a Roma, presso la sede della Compagnia. Generalmente, l’insegnamento musicale seguiva un tracciato prestabilito, che iniziava con l’individuazione di giovani particolarmente predisposti, i quali venivano impiegati, dopo un certo periodo di apprendimento, per supportare i religiosi in alcune fasi dell’insegnamento; nel contempo veniva dato ampio spazio alla costruzione di strumenti musicali, utilizzando come modelli quelli introdotti dall’Europa dagli stessi missionari. In particolare erano gli strumenti a fiato ad essere maggiormente considerati, anche per il fatto che risultavano più facilmente trasportabili nel fitto della foresta. Sembra inoltre che gli indigeni, oltre al canto, fossero particolarmente colpiti dal livello di pressione sonora esercitata da questi particolari strumenti60. Questa informazione non stupisce, visto che tra gli strumenti citati nei rapporti dei missionari, figurano frequentemente le bombarde, strumenti molto sonori, utilizzati nell’insieme musicale definito Alta Cappella proprio per l’elevato livello sonoro, e sicuramente

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Ivi. 60

utilizzati per tale motivo dai missionari, visto che erano destinati alle esecuzioni musicali all’aperto61; l’impatto con tali strumenti deve essere stato ancor più rilevante, se si considera che il confronto si reggeva con i semplici flauti di canna o d’osso utilizzati dagli indios.

Prendendo in considerazione la tipologia di strumenti utilizzati, poi, oltre a quanto riportato dalle fonti scritte, si possono ricavare preziose informazioni dall’iconografia presente nelle numerose chiese realizzate dai gesuiti nel vasto territorio del Paraguay che, allora, comprendeva anche parti della Bolivia, dell’Argentina e del Brasile. Di particolare interesse risulta la raffigurazione dell’angelo musicante presente all’interno della Chiesa di San Rafael nell’attuale Bolivia. Si tratta di un angelo in posizione eretta, nell’atto di suonare uno strumento a fiato che, per alcuni aspetti, presenta dei tratti organologici atipici.

Angelo musicante presente all’interno della Chiesa di San Rafael – Bolivia

Anche nella semplice stilizzazione delle forme, che non prevede una pur minima indicazione della foratura, è infatti rilevabile l’ampia svasatura terminale del tubo sonoro, che farebbe pensare ad uno strumento appartenente alla famiglia del cialamello e della bombarda, che però risulta in netto contrasto con l’imboccatura

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a becco d’aquila, tipica della famiglia dei flauti dritti; è abbastanza evidente la decisa angolazione dell’imboccatura, particolare che fa ragionevolmente escludere un’eventuale rappresentazione non perfettamente riuscita della pirouette, elemento tipico degli strumenti ad ancia doppia. È quest’ultimo particolare, quindi, che fa propendere l’ipotesi, se non di uno strumento nuovo, di un particolare tipo di flauto, di sonorità sicuramente più elevata rispetto ai normali flauti dolci, forse non molto dissimile dal cosiddetto flauto Ganassi.

Non è noto se si svilupparono strumenti con caratteristiche organologiche diverse dalle consuete; è documentata invece l’abilità delle popolazioni locali anche nella costruzione di strumenti musicali, che fornirono il supporto necessario al Tirolese Anton Sepp, verso la fine del Seicento a Yapeyù, nella costruzione del primo grande organo del Nuovo Mondo62 (quelli presenti in precedenza, erano con ogni probabilità costruiti in Europa e assemblati in America).

Anton Sepp, rilevante figura delle missioni gesuitiche in Paraguay, fu determinante per lo sviluppo dell’insegnamento della musica agli indios, al punto tale da istituire nel centro di Yapeyù, un vero e proprio Conservatorio. Dai suoi scritti emerge anche che Sepp fu il fondatore, nel 1697, di San Juan Bautista de la Misiones63.

Agustin Barrios manifestò la propria nuova identità di cacique Nitsuga Mangoré (il

cacique era il capo tribù), nell’estate del 1930. La nuova immagine comprendeva

anche l’adozione di un costume tipico, con un copricapo di piume, l’arco e le frecce. Anche l’ambientazione dei concerti cercava di ricostruire un paesaggio immerso nella natura, con palme e piante.

Come rileva George Mosse “I miti . . . avevano come obiettivo quello di unificare

nuovamente il mondo e di restaurare, nella nazione ridotta in frantumi, un nuovo senso di comunione”64

. È stato già illustrato come la storia del Paraguay sia per vari aspetti un paradigma di disgregazione e come, nel tempo, indipendentemente dallo schieramento politico al governo, si sia cercato di riconsegnare al Paese una precisa identità nazionale. Ma se i miti servono al processo di unificazione e di

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J.HERCZOG, op. cit., p. 69.

63

Ibid., p. 73. 64

identificazione del popolo, per essere efficaci hanno bisogno di simboli che li rappresentino, in modo tale da garantirne una “oggettivazione visibile”65, così da non rimanere avulsi dalla realtà di cui costituiscono la linfa, l’alimento. Se il costume “teatrale” di Barrios può apparire eccessivo, e questo nelle recensioni delle esibizioni di quegli anni viene evidenziato in ogni occasione, è anche vero che al di là di meri scopi commerciali, l’immagine tangibile dell’indiano guaranì che si propone alla platea contribuisce concretamente a rendere partecipe il pubblico (il popolo) non più solamente di una esibizione artistica, ma di un vera e propria celebrazione del mito.

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