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Le risposte dell’occidente alla sfida dell’ISIS

Nel documento Focus euroatlantico, 7 (pagine 29-36)

di Roberto Aliboni L’ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e della Siria)5 è un movimento jihadista che, fra la fine del 2013 e l’anno in corso, si è stabilito con la forza delle armi su varie estensioni di territorio a cavallo fra la Siria e l’Iraq. Il movimento, nato nel 2003 in Iraq, si è via via integrato e allontanato da al-Qaida attraverso varie vicende fino alla netta scissione avvenuta nel 2013 e l’inizio della campagna militare in corso.

Gli orientamenti politici e ideologici dell’ISIS

L’ISIS perpetua e inasprisce le sfide poste dall’estremismo qaidista.

L’orientamento ideologico e religioso che ispira l’ISIS appare di gran lunga più estremo di quello di al-Qaida. Come al-Qaida, l’ISIS si connette alle correnti più rigoriste del riformismo religioso islamico contemporaneo e ha come irriducibili nemici i regimi al potere nella regione, che considera illegittimi e corrotti. Ha poi come nemico l’Occidente invasore e invasivo, che appoggia quei regimi. A differenza di al-Qaida, però, la dottrina dell’ISIS si ricollega all’assolutismo della dottrina wahhabita, che tende a ridurre ad idolatra chiunque non aderisca alla dottrina medesima.

Di qui la marcata ostilità verso gli sciiti, visti come un nemico non meno importante dei regimi e dell’Occidente e, come dimostra la campagna in corso, verso le minoranze religiose (i cristiani e gli yazidi) e, si direbbe, anche etniche (i turcomanni e i curdi).

Un’altra differenza importante è che, mentre al-Qaida si è evoluto come una minaccia transnazionale ma deterritorializzata, l’ISIS emerge con un saldo programma di conquista del territorio e d’insediamento di uno Stato islamico effettivo. Mentre l’idea del califfato si proietta in un futuro vittorioso di sottomissione e purificazione dell’intera regione, ed è quindi per ora nient’altro che un programma ideologico, l’insediamento in Siria e in Iraq è un’espansione territoriale e statuale concreta, che pone minacce qualitativamente diverse e superiori rispetto a quelle qaidiste. Inoltre, mentre al-Qaida, venuto dalla penisola arabica, ha continuato a gravitare verso l’universo delle monarchie del Golfo, l’ISIS, nato nel Levante, ha un progetto che punta al rinvigorimento dell’Islam in questa regione per liberare alfine Gerusalemme e scacciare gli ebrei dalla Palestina.

Roberto Aliboni è attualmente Consigliere scientifico dello IAI, dove è stato direttore generale e vice presidente.

5 La parola “al-Sham”, che figura nella denominazione in arabo del movimento, è stata tradotta talvolta con “Levante” (che si riferisce però a un’entità più vasta della Siria contemporanea e al tempo stesso diversa dalla definizione convenzionale di Levante) e più comunemente con “Siria”, per cui il movimento viene indicato sia come ISIL sia come ISIS. Con la conquista di Mosul, il movimento si è definito come Stato e si è autodefinito “Stato Islamico”. Qui si adotta la denominazione ISIS, che corrisponde a quella usata più correntemente.

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L’ISIS è perciò innanzitutto una minaccia alla regione del Medio Oriente e Nord Africa, agli arabi, agli iraniani, alle minoranze etniche e religiose nonché alla Turchia ed Israele -per ora più marginalmente, non perché questi due paesi siano estranei agli ambiziosi obbiettivi dell’ISIS ma perché, a differenza degli altri paesi della regione, non sono minati da fratture strutturali e da conflitti violenti interni e hanno una compagine statale solida e militarmente ben munita.

L’ISIS nel contesto strategico della regione

Il maggior vantaggio strategico dell’ISIS - casuale o consapevole che sia - è di aver aperto la sua campagna militare e avviato il suo progetto politico nel mezzo di una complessa competizione fra potenze regionali (l’Iran, l’Arabia Saudita e la Turchia con i rispettivi alleati), che si manifesta localmente attraverso conflitti armati indiretti (Siria, Iraq, Libia, Yemen, Libano). A complicare questi conflitti, il campo sunnita è frantumato in diverse correnti contrapposte l’una alle altre - i jihadisti di orientamento più o meno qaidista; i regimi costituiti (dall’Arabia Saudita all’Egitto); i Fratelli Mussulmani e altri islamisti. A questo si aggiungono i problemi di sicurezza nazionale di vari Stati nei rispetti di attori armati a carattere non-statale (come i curdi, Hizbollah, Hamas, etc.).

In queste quadro, stando contro tutti l’ISIS trae vantaggio dall’incrocio e dalla frammentazione delle contrapposizioni in atto. Da un lato, c’è chi non interviene quando l’ISIS combatte o danneggia i propri nemici (come nel caso del regime di Assad, che non ha disturbato lo Stato Islamico mentre combatteva con successo altri gruppi islamisti e jihadisti opposti al regime, o come nel caso della Turchia che ha strumentalmente lasciato l’ISIS agire nei Curdistan siriano e iracheno a seconda delle sue convenienze verso i curdi). Dall’altro, molti attori esitano ad unirsi contro l’ISIS perché ciò potrebbe avvantaggiare i loro nemici: come accade in Siria, dove l’Arabia Saudita e la Turchia per intervenire contro l’ISIS esigono, sia pure a diversi livelli di intransigenza, che si combatta contemporaneamente anche il regime degli Assad e i suoi alleati sciiti affinché questi loro nemici non si avvantaggino.

Infine, l’ISIS si muove in un contesto di Stati in preda a convulsioni interne, come la Siria, o politicamente assai deboli, come l’Iraq. In Siria il regime, impegnato nell’ovest del paese di gran lunga strategicamente più importante per la sua sopravvivenza, ha lasciato che l’ISIS scorrazzasse nell’est e nel nord-est a suo piacimento. In Iraq, la mancata inclusione dei sunniti nello Stato a causa dell’infausta politica del governo sciita guidato da Nouri al-Maliki ha fatto sì che l’ISIS abbia trovato forti e numerosi appoggi fra la popolazione e le tribù sunnite.

Questi fattori hanno congiurato nell’assicurare all’ISIS, nel corso del 2014, una folgorante serie di vittorie e l’insediamento di una compagine statale che mette in questione l’assetto dato alla regione con la fine dell’impero ottomano, poi consolidatosi nello sviluppo di Stati nazionali moderni quali appunto la Siria e l’Iraq.

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Rischi e minacce dell’ISIS: la connessione con la crisi della regione Tutto ciò comporta gravi rischi per i paesi occidentali. A parte le minacce propagandistiche, come quella di piantare la sua bandiera a piazza San Pietro, i rischi di tracimazione dell’ISIS attraverso l’esecuzione di attentati terroristici sono più seri. È anche grave il rischio dell’effetto ostensivo, che si traduce in iniziative di gruppi o individui che si arruolano da soli e compiono violenze in nome e per conto dell’ISIS, come nel caso del canadese che, durante il mese di ottobre, ha attentato a Ottawa alla vita del primo ministro e ucciso un militare. Ugualmente non va sottovalutato il rischio dei reduci, che sono stati e sono oggi alla base di tante instabilità nei paesi della regione. Dato che nell’ISIS la componente di combattenti convertiti occidentali risulta insolitamente alta, il rischio dei reduci si pone anche in Europa e nel resto del mondo occidentale.

Tuttavia, il rischio più grave e imminente dell’ISIS sta nelle forti dislocazioni geopolitiche che esso produce, che si aggiungono a quelle dei conflitti regionali in atto. Esso potrebbe costituire un focolaio di instabilità senza precedenti, non solo per il rafforzamento dell’estremismo islamista e jihadista all’interno dei vari Stati locali, ma anche per il protrarsi e l’aggravarsi dei conflitti inter-statali, l’indebolimento delle entità statali, la depressione delle economie e il dilagare del disordine.

In effetti, non si dovrebbe perdere di vista il fatto che il fenomeno dell’ISIS si aggiunge ai conflitti regionali che sono conseguiti alle ribellioni del 2011 e che, in definitiva, è un aspetto di questi conflitti. Questi ultimi hanno infatti agito da catalizzatore per il rafforzamento dello Stato Islamico. Se si guarda alle cause lontane dell’emergere dell’ISIS e degli altri gruppi estremisti, salafiti e qaidisti spuntati in Siria, è facile capire che l’ISIS è frutto, come altri mali della regione, dell’autoritarismo, della prevaricazione e della violenza che hanno dominato sia il campo sunnita che quello sciita. Non appena, con le ribellioni del 2011, gli equilibri interni hanno minacciato di cambiare e dislocare i rapporti tra i vari Stati e regimi, è iniziata una sorta di “guerra fredda” che avvolge attualmente la regione - con il corollario di crudeli guerre per procura in questo o quel paese, tutt’altro che fredde. Questo conglomerato di conflitti si è poi rapidamente rivelato come un bacino in cui sono affluiti e nuotano tutti i pesci dell’estremismo ideologico della regione. La sfida dell’ISIS non può pertanto essere affrontata separatamente da quella del caos che, a partire dai cambiamenti intervenuti nel 2011, regna nella regione.

La risposta dell’Occidente

Questa connessione fra lo Stato islamico e la crisi da cui è emerso deve necessariamente essere presa in considerazione per arrivare a una corretta valutazione della risposta dell’Occidente. Come si è articolata sinora questa risposta?

Occorre ricordare che la politica del presidente Obama verso il Medio Oriente e il Nord Africa è guidata dalla priorità di ridimensionare quanto più possibile il ruolo militare diretto degli USA nella regione.

L’amministrazione non ritiene che la regione ponga minacce dirette alla

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sicurezza degli USA al di là dell’azione del terrorismo e dell’estremismo islamico. Per questo motivo, ha formulato una dottrina di intervento limitata ad azioni di controterrorismo, cui è stata data una più sistematica impostazione nel discorso pronunciato a West Point il 28 maggio 2014.

Questo orientamento generale è accompagnato da politiche volte anch’esse a minimizzare l’intervento americano e con l’obbiettivo di:

accrescere l’autonomia politica dei paesi della regione concedendo un certo credito e a volte appoggio alle forze dell’Islam politico moderato (come in Egitto, in Tunisia con Ennhada, in Siria); promuovere, nel caso di crisi, l’intervento degli alleati arabi e europei e quello delle organizzazioni internazionali; dare comunque precedenza (come in Libia nel 2011) a un approccio collettivo e multilaterale.

Sulla base di questa strategia gli Stati Uniti si sono astenuti dall’intervenire militarmente in Siria, lasciando ai paesi arabi del Golfo (in particolare ad Arabia saudita e Qatar) il compito di guidare e assistere i gruppi politici e militari di opposizione al regime e limitandosi a un sostegno internazionale di basso profilo. Hanno continuato ad astenersi da ogni intervento anche quando l’ISIS ha iniziato ad occupare l’est della Siria strappandolo sia ai governativi che alle opposizioni. Quando è iniziata l’invasione dell’Iraq, l’esercito iracheno si è afflosciato ed è apparsa evidente la tendenza dei sunniti iracheni a coalizzarsi con l’ISIS contro il governo sciita di Baghdad, l’amministrazione ha esercitato forti pressioni politiche perché al governo accedesse una personalità sciita capace di garantire una prospettiva di inclusione nazionale dei sunniti e dei curdi.

Tuttavia, solo il 10 settembre, dopo la decapitazione del cittadino americano James W. Foley da parte dell’ISIS, il presidente americano ha reso pubblica, con un discorso alla nazione, una strategia verso l’Iraq, e eventualmente anche verso la Siria, per “ridimensionare e da ultimo distruggere” l’ISIS. Pur confermando l’esclusione dell’impiego di forze di terra, questa strategia contempla alcune misure di carattere militare: i bombardamenti aerei mirati, il sostegno anche militare alle forze alleate della regione, l’impiego dell’intelligence e del contro-terrorismo.

Per realizzare questa strategia gli Stati Uniti hanno lanciato una coalizione internazionale alla quale hanno subito aderito gli alleati europei e arabi e poi altri, fino a raggiungere alla fine di ottobre il numero di sessanta paesi.

L’assedio da parte dell’ISIS della cittadina di Kobani, nel Curdistan siriano, e la reazione che ha suscitato nell’opinione pubblica, hanno portato a un allargamento dell’intervento con un’intensificazione delle missioni aeree quotidiane e dei rifornimenti agli assediati.

Perciò, la risposta occidentale all’ISIS si è amplificata e consolidata, arrivando sino ad un intervento militare (per quanto limitato) e alla costituzione di una coalizione che lo sostiene militarmente - ma soprattutto politicamente . Come valutare questa risposta?

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Una valutazione della risposta: gli aspetti militari

Indubbiamente, all’inizio la percezione americana della minaccia si concentrava solo sul rischio di una tracimazione dell’ISIS (la possibilità di attentati in Occidente e l’impatto dei reduci di origine occidentale). Oggi la percezione è differente. In effetti, alla fine di settembre il presidente Obama ha dichiarato pubblicamente che l’intelligence americana aveva sottovalutato la minaccia posta dall’ISIS e dalle altre forze jihadiste che combattono in Siria e ha dato il via all’intensificazione dell’intervento che abbiamo appena ricordato. Tuttavia, anche se con l’allargamento delle missioni aeree, dei rifornimenti di armi, provviste e materiali, e dell’addestramento, l’intensità dell’intervento è cresciuta, non si è andati oltre i limiti della strategia di controterrorismo annunciata dal presidente Obama a West Point nel maggio. Si tratta di un’operazione di contro-terrorismo allargato, con un impiego particolarmente sistematico e ampio di raid aerei mirati e droni, ma non è una guerra (anche se qualcuno ricorda che il Vietnam non cominciò in modo molto diverso).

E’ una risposta che si mantiene nei limiti della strategia applicata sin qui alla più vasta congerie di conflitti nella regione di cui l’ISIS è solo l’ultimo sviluppo, anche se forse il più vistoso. Dal punto di vista militare, questa risposta appare debole poiché l’intervento aereo, specialmente contro una forza non convenzionale come quella dell’ISIS, è poco efficace.

Nell’assedio in corso su Kobani, questa ridotta “produttività”

dell’intervento aereo è apparsa in tutta evidenza: la moltiplicazione dei raid è servita a contenere l’avanzata senza però fermarla. Nessun conflitto può essere risolto dalla sola aviazione; servono forze di terra ben equipaggiate, ben motivate e politicamente coese. Il punto non è solo che l’intervento militare è limitato: anche il contesto politico in cui ha luogo è problematico. Per valutare meglio la risposta occidentale occorre perciò volgersi agli aspetti politici.

Gli aspetti politici

La coalizione è debole anche sul piano politico perché gli interessi strategici degli attori regionali che ne fanno parte sono diversi, quando non contrapposti tra loro. Questo è il maggior vantaggio strategico dell’ISIS. Inoltre, il leader della coalizione, gli Stati Uniti, nell’assumerne la guida non ha espresso una linea politica coerente: per farlo dovrebbe compiere alcune scelte di parte e favorire gli interessi degli uni o degli altri. Al contrario, Washington non intende schierarsi nella competizione fra Iran e Arabia Saudita. Il suo obbiettivo non è di favorire il primato di uno dei due nella regione bensì di fermare il programma nucleare iraniano in modo che la regione possa trovare un suo nuovo equilibrio autonomo, sul quale gli USA non siano poi obbligati a concentrarsi più di tanto. La coalizione è stata quindi forgiata da Obama in modo da evitare un appoggio totale ai sunniti e di non compromettere le chances di una ricomposizione con l’Iran e di una sua reintegrazione internazionale.

Di qui le riserve e le limitazioni dell’intervento americano nei confronti della Siria, e quindi il malumore saudita e l’impegno fortemente condizionale della Turchia, crudamente emerso in occasione degli

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sviluppi a Kobani. Mentre l’Egitto appoggia, sia pure senza clamori, il regime al potere in Siria, perché è interessato nella sua nuova fase

“sissiana” a confermare comunque l’autorità dei regimi in essere contro la sovversione islamista, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti restano contrari ad Assad e vorrebbero il rafforzamento delle opposizioni islamiste al regime, perché temono che altrimenti l’equilibrio regionale potrebbe volgere a favore dell’Iran.

Gli Stati Uniti esitano ad impegnarsi a fondo contro il regime siriano, non tanto a causa della prevedibile opposizione della Russia ma soprattutto perché non vogliono rischiare di compromettere le eventuali prospettive di miglioramento dei rapporti con l’Iran (in particolare sulla questione del nucleare). Washington non esita invece in Iraq, dove potrebbe iniziare l’affermazione di una più efficace coalizione anti-ISIS - previo un rinnovamento in senso inclusivo del governo sciita di Baghdad che anche Teheran desidera, a patto che gli sciiti conservino la loro

“naturale” preponderanza. Uno sviluppo del genere potrebbe anche rappresentare un passo avanti verso quel processo di ricomposizione regionale cui gli USA aspirano come condizione di un loro più concreto disimpegno dalla regione.

L’apparente razionalità della politica americana, che mira a un graduale disimpegno da un Medio Oriente pacificato, deve però fare i conti con i tempi e le circostanze sul terreno, che sono tutt’altro che favorevoli. La lotta all’l’ISIS è un po’ come inseguire l’ombra della preda invece che la preda stessa. Tutti vi partecipano ma senza che siano stati risolti i contrasti e le rivalità che li dividono. Per sconfiggere l’ISIS occorrerebbe quindi affrontare anche il più ampio stratificato conflitto in atto nella regione.

Se l’Occidente e gli Stati Uniti, con l’aiuto dei loro alleati, non troveranno una tattica più efficace per perseguire questa strategia, la lotta all’ISIS potrebbe fallire e anche la più vasta strategia regionale perseguita sotto la - forse troppo sofisticata - direzione dell’amministrazione Obama mancherebbe i suoi obiettivi.

Le opinioni riportate nel presente dossier sono riferibili esclusivamente all'Istituto autore della ricerca.

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