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DANILO BRESCHI 25 NOVEMBRE 2014

Recensione a: Federico Leonardi, Tragedia e sto-ria. Arnold Toynbee: la storia universale nella maschera della classicità, Aracne, Roma2014.

Si possono trarre molte lezioni dalla lettura di questo studio di Federico Leonardi su Arnold Toyn-bee, che contiene anche due interessanti testi inedi-ti. Anzitutto impariamo che l’Inghilterra, all’epoca del suo apogeo come potenza imperiale, dimostrò quanto una classe dirigente di livello mondiale fosse tale anche grazie ad unaformazione classica. In aper-tura del suo saggio Leonardi ci ricorda infatti come

“lamaggiorparte degli studenti che avrebbero costi-tuito la classe dirigente dell’impero inglese frequen-tavaClassics”. E ciò significava, come ebbe a scrivere José Ortega y Gasset, andare a “passare alcuni anni ad Atene nelsecolo di Pericle” e ciò li proiettava ”al di fuori di ogni tempo, dalmomento che ilsecolo di Pericle è una data irreale, una data immaginaria, convenzionale ed esemplare” e “in questa Grecia ir-reale i giovani vengono educati alle forme essenziali delvivere, diventano capaci di adattarsi alle più diverse situazioni concrete, proprio in quanto non sono prede-stinati a nessuna in particolare” (corsivi miei). Dopo un secolo circa di biologia post-darwiniana si è ben consapevoli, diceva sempre ilgrande pensatore spa-gnolo, “che un organismo molto differenziato, con una struttura adeguata ad un ambiente, resta indife-so se l’ambiente cambia, mentre un animale informe, senza organi, come l’ameba, ha il potere di crearsi in ogni situazione gli organi di cui ha bisogno” (corsivi miei). La duttilità e la capacità di pensare ed agire in funzione delcontesto che si è, di voltain volta, chia-mati a fronteggiare, questa fu la virtù di chi guidò per almeno un secolo l’impero britannico. Tali virtù metamorfiche riusciva a darle un sistema pedagogi-co fondato sull’importanza dei modelli globali, spe-cialmente se risalenti alle origini di una civiltà, e dunque perl’Occidente i modelli erano e sono quelli di Atene e della Grecia classica così come Roma e il suo impero. Esempi perennemente eloquenti e forie-ri di insegnamenti peforie-rilpresente e di ammonimenti perilfuturo.

Fu da questo humus accademico e culturale che emerse una figura come Arnold Toynbee, autore di uno dei libri “più vasti e controversi del secolo scorso”, ossiaA Study of History, opera monumentale, che uscì in 12 volumi tra il1934 e il1961. Una storia

comparata delle civiltà, di cui vengono esaminate le varie fasi secondo unamorfologiache ricorda, maso-lo in parte, iltentativo di affresco fimaso-losofico e storico di Oswald Spengler, forse piùnoto di Toynbee, anche più affascinante per certe intuizioni e gli ostentati toni profetici, ma meno strutturato e solido nelle proprie argomentazioni. Un autore, Toynbee, le cui teorie hanno agito sottotraccianegli studi delle rela-zioni internazionali tralasecondametàdelNovecen-to e l’inizio di questralasecondametàdelNovecen-to terzo millennio così come nelle visioni e conseguenti scelte strategiche della grande potenza statunitense. Si pensi all’influenza che ha avuto su Henry Kissinger, che discusse nel 1950 ad Harvard unatesi di laureadaltitolo The Meaning of Hi-story: Reflections on Spengler, Toynbee and Kant. È grazie alla riflessione su questi autori, in particolare Toyn-bee, che Kissinger è giunto a non credere affatto al destino “speciale”, tanto meno “manifesto”, per l’America. A suo avviso, gli Stati Uniti erano e, oggi più che mai, sono una delle tante potenze imperiali che la Storia ha visto imporsi e declinare. L’unica ri-spostasaggiaed efficace sarebbe quelladi organizza-re la pacifica coesistenza di una pluralità di imperi, un ordine multipolare che senza alterare troppo l’equilibrio internazionale complessivo assorba gli inevitabili cicli di ascesa e declino di qualsivoglia or-ganismo geopolitico di grandi dimensioni. E come poi non ricordare il ritorno di alcune intuizioni di Toynbee nell’opera che suscitò grande clamore a metà anni Novanta e ancor maggiore ne ebbe dopo l’11 settembre 2011, ossiaThe Clash of Civilizations (il famigerato “scontro di civiltà”) di Samuel P. Hun-tington.

Toynbee, differente per molti versi da Spen-gler, si mostrò in sintoniacon questi nelmomento in cui tentò di fondare sul criterio dell’analogia una scienzadellastoriadelle civiltà, uno strumento intel-lettuale mediante ilquale poternon solo diagnostica-re ilpassato ma anche prognosticadiagnostica-re ilfuturo, o al-meno avanzarne ipotesi robuste, a prova di facili confutazioni. Non solo. Leonardi attribuisce all’inte-ra attività di Toynbee sia un’ansia faustiana sia una speranzaprofetica, unasperanzache “si esprime nel-la profezia”, e che dunque molto deve all’amore nu-trito nei confronti della propria patria e delle istitu-zioni che la governano, e presso cui prestò a lungo servizio sianell’ambito delForeign Office sia, soprat-tutto, delRoyalInstitute ofInternationalAffairs, vo-luto nel primo dopoguerra da Lionel Curtis, figura all’epoca molto influente sulla politica estera britan-nica. Presso ilRoyalInstitute Toynbee lavorò perol-tre perol-trent’anni, divenendone in seguito anche ildiret-tore dell’area studi. Come John Maynard Keynes, an-che Toynbee fuun delegato britannico allaConferen-zadi pace di Parigi, nel1919, in qualitàdi esperto del Medioriente, e questaprimagrande esperienzainter-nazionale lo segnò profondamente.

Ilsaggio di Leonardi riesce arestituirci tutto il

fascino di questo studioso che fu anche uomo d’azio-ne, “una mescolanza fra un dandy di Wilde e un per-sonaggio di Dickens”, perfettaincarnazione dell’epo-ca vittoriana nella quale nacque (a Londra, nel1889) e crebbe, e dacui ricevette l’inconfondibile impronta educativaed etica. Quelche lo differenzianettamen-te da Spengler, e ci segnala come illato dickensiano prevalse su quello del dandy wildiano, risiede nella convinzione che l’Occidente non sia affatto ilmuseo delle civiltà scomparse, bensì l’esempio di come si possa giungere ad una convivenza tra civiltà vive e vegete all’interno di un Commonwealth mondiale.

Ragionando con rigore filologico, combinato però ad una creatività filosofica che ricorre all’uso dell’analogia e opera comparazioni trans-croniche, Toynbee trasse dalla storia antica greco-romana le-zioni di attualissimaefficaciaperponderate e strate-giche scelte di geopolitica. Come ricorda Leonardi,

“le filosofie dellastoriae le storie universali ottocen-tesche si nutrivano ancora della convinzione che il resto delmondo dovesse confluire nelle categorie oc-cidentali”. La comparazione diventa così un tentati-vo di porre sullo stesso piano, di considerazione poli-tica e di metodo analitico più che di giudizio e di va-lore, le diverse civiltà che sono compresenti in una dataepoca. Fine dell’eurocentrismo, insomma. All’in-domani della cosiddetta Grande Guerra poteva sem-brare unafacile constatazione, manon così scontata.

Ildilemma che pareva essersi imposto algoverno di Atene, ad un certo punto dellasuastoria, eralo stes-so che tormentava la grande potenza britannica ad inizio Novecento: coniugare libertàe impero.

Altralezione appresadallo studio dei classici è la considerazione di ogni civiltà “come un dramma”, nelsenso che dai greci si può apprendere ilsenso tra-gico dellavitaindividuale e collettiva, dunque anche delle civiltà, contrassegnate tutte da una inevitabile finitezza. Non solo: si può imparare a riconoscere nella situazione di maggior successo di una civiltà il momento di massimo pericolo. Massima egemonia, massimo pericolo. Alpari dell’eroe tragico, la civiltà che si impone tramite l’impero pecca di hybris e l’eb-brezzaaccecalaluciditàdell’analisi delle élites impe-riali, ponendo le premesse dell’autodistruzione.

Lahybris è una “pretesa smisurata”, l’“incoscienza dei limiti”, che hanellaguerralasuaespressione più eloquente. Nel momento in cui non ha più nemici fuori dai confini, Roma vede esplodere i conflitti al proprio interno. Come scrive Leonardi: “più vasto è l’impero romano, più lunghe sono le sue guerre civi-li”. Una sorta di nemesi della vittoria, lezione che sempre la sapienza tragica ci ha tramandato. Senza dimenticare quanto sia evidente in Toynbee “ilten-tativo di interpretare la crisi romana tramite quella occidentale”, e lo stesso dicasi perle vicende di Ate-ne e Sparta, resta comunque valido e politicamente spendibile l’insegnamento di quellastoriacosì remo-ta: “l’impero è sempre unanecessitàtragicaed è

l’ul-timo stadio delle civiltà”. Di più, aggiunge Leonardi:

“come laguerraè l’idolo dell’uomo, l’impero è l’idolo dellaciviltà”.

L’alternativaallaguerrae allasualogicainevi-tabilmente (auto)distruttivaè lafederazione. Questala lezione che Tucidide ricavò dallaguerradelPelopon-neso e che Toynbee recupera come proposta per il presente e l’immediato futuro del suo impero, che dopo la seconda guerra mondiale non è più quello britannico ma quello americano, sempre e comun-que occidentale. Finito un bipolarismo infine como-do, solo il passaggio da una logica multipolare può frenare un “tramonto” comunque intrinseco alla ci-viltàche haraggiunto lamassimaespansione, spazia-le così come culturaspazia-le. Si tratta di spezzare la logica che stadietro l’ideaclassicadellaguerracome conti-nuazione della politica con altri mezzi, codificata da Clausewitz non a caso ai tempi dell’effimero ma am-bizioso impero napoleonico. Una logica che nasce dall’irrefrenabile desiderio di espansione ulteriore, a cui si può contrapporre solo l’ideadi fermarsi perun pieno godimento dei frutti dello sviluppo raggiunto.

Spesso prevale la paura che chi si ferma sia perduto.

Dunque Toynbee aggiorna Tucidide introducendo spiegazioni tratte dalla“psicologiatragica”: l’ebbrez-zadello sviluppo contrappostaallacoscienzadellafi-nitezza. Gioventù contro maturità. Le civiltà non hanno mai saputo evitare “le seduzioni della gloria”, questa è la morale della storia così come indagata da Toynbee. Ecco ilnesso, sottolineato da Leonardi, fra tragedia e storia. La prima mostra quanto l’anima dell’uomo sia segnata dalla finitezza ma altrettanto incline per natura a concepire idee infinite. È quella stessasmisuratezzache alberganelle passioni, dacui viene irretito e trascinato l’eroe tragico, molto più ordinario di quanto si pensi, comune neldestino ad ogni altro mortale. La guerra è “la somma tracotan-za” perun essere umano che è sempre tentato dalri-velare la propria natura di “animale eccessivo”. Da Aristotele a Tucidide allo pseudo Senofonte, tutta la grande sapienzagrecae lastoriadellaguerradelPe-loponneso, che mette fine ad un periodo aureo perla civiltà greca, insegna come Atene e Sparta siano sta-te dilaniasta-te da passioni violensta-te, finista-te fuori control-lo. Cupidigia per l’una, invidia per l’altra. Con Eschi-lo, nell’Orestea, si attribuisce la responsabilità della sventuraall’uomo, non ad unapresuntainvidiadegli dèi. Nelcuore dell’uomo albergano passioni divoran-ti. Le civiltà, persineddoche, sono vittime della stes-sa psicologia tragica. Spiegare in base a quali criteri agisce laparte, ossiailsingolo uomo, percomprende-re ladinamicadeltutto, ossialaciviltà. Questo ilme-todo che, secondo Leonardi, stadietro lafilosofiadel-lastoriache innerval’operadi Toynbee.

E così si torna all’inizio di questa recensione che vuole essere anche l’occasione per una riflessio-ne più ampia. La Gran Bretagna, come ben evidenzia Leonardi, “sembra aver tentato di combinare

pro-gresso nella tecnica e conservazione nell’educazio-ne”. Unaformula, questa, che è stataadottataoltreo-ceano e ha contraddistinto le classi dirigenti dell’im-pero statunitense nel corso della seconda metà del Novecento. Esportazione relativamente facile, date le ascendenze anglosassoni del sistema americano sia sul piano culturale sia sul piano istituzionale. Il classicismo, su cui si incentrava la pedagogia britan-nicaimperiale, contiene però un paradosso. Daun la-to, “è iltentativo di attenersi a qualcosa di familiare in mezzo a potenti cambiamenti”, dall’altro, “questo crea [...] ilsenso di estraniazione”. Un paradosso fe-condo, aben vedere. Estraniarsi può essere lastrate-giacognitivanecessariaperacquisire un punto di vi-staelevato e affrancato dalle emozioni. E, d’altro can-to, non è facilmente aggirabile quelbisogno di stabi-lità, di avere radici, che connota la natura umana. E, dunque, la lezione conclusiva che possiamo trarre dallo studio dell’opera di Toynbee, della sua genesi e delle sue finalità, non solo teoriche ma anche prati-che, è che unaformazione classicae persino classici-sta aiuta non poco a forgiare una personalità adatta alle sfide della globalizzazione in corso, incessante-mente mutevole e sempre imprevedibile nelle sue sfide. Una politica all’altezza della globalizzazione prende le mosse da Tucidide ed Eschilo, maestri di saggezza, ovvero di senso della misura. E al tempo stesso trovaconfermalamassimadi Hannah Arendt, che ebbe modo di conoscere daesule ilmeglio delsi-stema universitario anglosassone, segnatamente quello americano: “La scuola deve essere conserva-trice proprio perpreservare ciò che di nuovo e rivo-luzionario c’è in ogni bambino”. Unarivoluzione che non sia apocalisse o palingenesi, ma evoluzione e in-novazione nellapreservazione di alcuni fondamenta-li.