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I limiti dell’arbitrato

L'istituto dell'arbitrato del lavoro costituisce un meccanismo più duttile e autonomo rispetto al processo, che permette di valorizzare il ruolo delle parti sociali in sede di risoluzione dei conflitti.

Oltre a ciò, esso costituisce anche una figura che tende a deflazionare il processo del lavoro, con lo scopo di agevolare il decongestionamento del sistema giudiziario.

Tale strumento può costituire una utile alternativa alla lenta giustizia dello Stato, solo se è esclusa l’impugnabilità del lodo per contrasto con disposizioni inderogabili di legge o di contratto collettivo, altrimenti le parti sarebbero indotte a rivolgersi direttamente al giudice83.

Questo istituto non costituisce una novità nel panorama giuridico italiano, tuttavia, in generale, non gode del favore del legislatore, poichè assimilato alla funzione giurisdizionale.

E' un istituto scarsamente utilizzato che, però, presenta una vistosa anomalia consistente nella distinzione tra arbitrato rituale e arbitrato irrituale:

L'arbitrato rituale è denominato così perchè regolato dal Codice di procedura civile, o codice di rito.

In base ad esso, le parti di un rapporto di lavoro affidano la risoluzione delle controversie al giudizio degli arbitri solo se così sia previsto dai contratti collettivi.

L'arbitrato irrituale, per tradizione, non è disciplinato dal codice di rito, ma nasce e si sviluppa nella pratica, caratterizzandosi unicamente sul piano del diritto privato.

83 Il nostro legislatore del 1973, nel realizzare la riforma del processo del lavoro, aveva privilegiato la soluzione giurisdizionale delle controversie individuali, considerata imprescindibile complemento della tutela sostanziale, prevedendo non solo la facoltatività dell’arbitrato irrituale e la sua esperibilità esclusivamente nei casi previsti dalla legge o dai contratti collettivi (art. 5, c. 1, legge n. 533 del 1973), ma anche l’invalidità del lodo arbitrale irrituale per violazione di norme inderogabili di legge o di contratti collettivi (art. 5, c. 2) e l’impugnazione del medesimo lodo con le modalità e termini previsti per l’impugnazione delle rinunzie e transazioni dall’art. 2113, c. 2 e 3, cod. civ. (art. 5, c. 3).Questa disciplina aveva decisamente disincentivato l’arbitrato irrituale, di fatto praticato solo per pochissime controversie, come quelle sull’indennità supplementare per il licenziamento ingiustificato dei dirigenti. Dopo un quarto di secolo, in una situazione di fortissima crisi della giustizia del lavoro per eccesso di controversie rispetto all’organico dei giudici, l’orientamento del legislatore è cambiato, al dichiarato fine di rivitalizzare l’arbitrato irrituale come strumento deflativo del contenzioso giudiziario. E così non a caso le riforme del 1998 hanno garantito la stabilità del lodo arbitrale, abrogando le ricordate disposizioni dell’art. 5, c. 2 e 3, della legge n. 533 del 1973 (art. 43, c. 7, d. lgs. n. 80 del 1998) e contestualmente sostituendole con le disposizioni dell’art. 412 quater, c. 1, cod. proc. civ.. Queste in una prima versione prevedevano ancora l’impugnazione del lodo arbitrale per violazione di norme inderogabili di legge, ma non più di contratto collettivo, oltre che per difetto assoluto di motivazione (art. 39, d. lgs. n. 80 del 1998), mentre nel testo vigente della norma codicistica è stato soppresso anche il vincolo del rispetto delle disposizioni inderogabili di legge, comparendo solo l’espressione “controversie aventi ad oggetto la validità del lodo arbitrale” (art. 19, c. 14, d. lgs. n. 387 del 1998). A. Vallebona, “Tecniche normative e contenzioso lavoristico”, op. cit..

La base giuridica è un accordo preliminare con cui le parti contendenti procedono alla determinazione di uno o più soggetti ai quali devolvono il compito di risolvere la lite.

E' proprio nel diritto del lavoro che l'incongruenza tra la figura rituale e quello liberamente stabilito dalle parti appare in tutta la sua evidenza. La fattispecie dell'arbitrato del lavoro è esplicitamente definita dalla legge come irrituale, e questo istituto non può essere impiegato per la risoluzione di qualunque controversia in materia di lavoro, ma solo per le liti individuali o plurime, mentre devono essere escluse le controversie collettive.

Inoltre è importante sottolineare che il ricorso all'arbitrato ha carattere volontario e che l'attivazione della procedura arbitrale è facoltativa, poichè le parti possono farvi ricorso solo in alternativa al processo.

L'arbitrato del lavoro ha una duplice finalità, ossia l'approntamento di percorsi paralleli e alternativi di risoluzione delle controversie di lavoro e l'ampliamento degli strumenti di gestione del contratto da parte dei soggetti collettivi.

Con il perseguimento del primo obiettivo, il legislatore, nell'intento di deflazionare l'attuale traffico giudiziario, si prefigge di garantire alle parti una maggiore celerità ed economicità in ordine alla composizione delle liti. Indubbiamente l'arbitrato, caratterizzato da una procedura più snella di quella giudiziale, può comportare una riduzione del periodo di tempo mediamente necessario alla formulazione di una decisione più o meno definitiva. Il che è senz'altro funzionale al principio della certezza del diritto, ribaltando lo stato di incertezza attuale, dovuto al fatto che la durata media dei processi è eccessiva in relazione agli interessi in gioco.

Un simile risultato sarebbe vantaggioso principalmente nei confronti del lavoratore, il quale, in virtù della posizione di debolezza personale, contrattuale, economica e sociale che occupa nell'ambito del rapporto di lavoro, ha maggiore interesse a ricevere tutela in tempi brevi.

Gli effetti positivi, comunque, si produrrebbero presumibilmente anche nei confronti dell'autorità giudiziaria ordinaria, che, dinanzi all'ampio uso

dell'arbitrato, vedrebbe ridotto il numero delle cause pendenti presso le proprie sedi.

Ciononostante, non bisogna pensare che il ricorso all'arbitrato possa costituire un'alternativa rapida ed efficiente ad un processo inefficiente, lento e farraginoso.

In genere, la tradizionale preferenza per il giudice è legata al fatto che la lunga durata del giudizio statale è conveniente per almeno una delle parti.

Com'è noto, se uno dei contendenti non intende ricorrere all'arbitrato, il meccanismo non può essere utilizzato.

La parte che ipotizza di soccombere e, di conseguenza, di dover pagare una notevole somma di denaro, non ha interesse a risolvere la lite in tempi rapidi mediante uno strumento di carattere stragiudiziale, ma a rinviarne il più possibile la composizione, optando, quindi, per il sistema giudiziario.

Se, invece, la stessa parte avesse la certezza di un processo che si concluda rapidamente, non avrebbe più interesse ad adire il giudice, ma ad utilizzare una procedura alternativa, poichè, pur soccombendo, magari in tempi più o meno simili, avrebbe comunque garantito un notevole risparmio economico in sede di pagamento delle spese.

La seconda funzione, di gestione dell'attività contrattuale dei soggetti collettivi, dovrebbe determinare, mediante l'introduzione di modalità di giustizia condivisa, un incremento del ruolo delle parti sociali in sede di composizione dei conflitti di lavoro.

Tuttavia, l'esistenza di un duplice livello di contrattazione collettiva, nazionale e territoriale o aziendale, potrebbe partorire un contrasto tra il primo e il secondo, tale da creare un conflitto di interessi tra i lavoratori privilegiati dalla normativa nazionale e quelli favoriti dalla normativa locale o aziendale, determinando la dissociazione tra la funzione di rappresentanza (collettiva) e quella di assistenza (individuale) svolte dai soggetti collettivi.

Il pericolo è che una simile contraddizione ingeneri presso i soggetti rappresentati, vale a dire, rispettivamente, i datori di lavoro e i prestatori

d'opera, un senso di sfiducia nei confronti delle organizzazioni stipulatrici degli accordi stragiudiziali di composizione delle liti, rinsaldando, al contempo, la tradizionale tendenza, propria della cultura giuridica e sindacale nostrana, a preferire il ricorso al giudice ordinario.