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La presente ricerca porta con sé alcuni limiti operativi e teorici che è doveroso affrontare per comprendere la dimensione di applicazione della stessa. In primis, la dimensione temporale risulta essere un limite importante nella rilettura dei dati presentati: il progetto si è infatti

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sviluppato nell’arco di più di due decenni e la ricostruzione delle esperienze personali e dei narrati riportati dalle figure professionali intervistate possono essere in parte frutto di una manipolazione e revisione dei ricordi sulla base dei recenti avvenimenti. Un’analisi postuma di un fenomeno sociale complesso e contraddittorio come il sex work deve prendersi carico della possibilità di bias mnemonici e di ricollocazione etico-morali del soggetto rispetto all’oggetto di indagine.

La criticità fondamentale della metodologia di ricerca risiede nella mancanza di una piena pluralità di prospettive da parte di tutti gli attori che hanno effettivamente preso parte al progetto sia in termini qualitative che quantitativi, in particolare di mediatrici culturali e educatrici/educatori sociali. L’analisi è inoltre focalizzata maggiormente sul processo di iniziale creazione ed implementazione del progetto piuttosto che sul procedere e svilupparsi dello stesso: una scelta operativa che rispecchia anche la volontà di rendere conto dell’innovazione di questo tipo di progettualità che poi è andata via via scemando secondo logiche politiche spesso celate o non chiarite. Il momento della nascita del progetto è inoltre la fase in cui le contraddizioni interne al modello, cioè tra l’operato pratico e l’apparato teorico, sono state sicuramente più visibili anche nei termini di strutturazione dei concetti di decoro e sicurezza che si sono poi sviluppati nelle fasi successive.

Per quanto riguarda la mancanza di tutte le soggettività coinvolte essa risponde a due ordini di motivi: per quanto riguarda il punto di vista delle sex worker outdoor, esso richiede non solo una maggiore attenzione nella costruzione dei rapporti di fiducia tra ricercatrice ed ente pubblico ma anche una formalità istituzionale che l’avvento del Covid-19 non ha permesso di instaurare. La pandemia che ha bloccato il procedere della ricerca tra febbraio e giugno ha rallentato la raccolta dei dati e dei contatti, rendendo più difficoltoso l’accesso a questo tipo di utenza. Per quest’ordine di motivazioni alcune interviste sono state condotte telematicamente e non in presenza. Questa modalità non ha però, a mio avviso, inficiato particolarmente la raccolta dei dati: sicuramente ha reso più formale la relazione tra ricercatrice ed intervistata/o, ma allo stesso modo ha consentito di bypassare la trafila di organizzazione dell’incontro face to face.

La ricerca sociale di tipo qualitativo permette di accedere a degli universi di significato che però rispecchiano la dimensione individuale dei soggetti che ne prendono parte e che in questo senso possono riflettere solo in parte la complessità: ‘ogni indagine non può che

evidenziare solo un sottoinsieme di dimensioni individuate come rilevanti di un reale per sua natura complesso’ (Bernardi, 2005). I dati presentati sono dunque la rappresentazione di una

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parte della storia e della ricchezza che questo esperimento di zoning ha rappresentato non solo per la città di Venezia, ma per le politiche nazionali di gestione della prostituzione.

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CAPITOLO QUARTO

ZONING O NON ZONING: COMPARAZIONE TRA IL MODELLO

OLANDESE E L’ESPERIENZA DI MESTRE

A partire dagli anni Novanta, i sentimenti di insicurezza e paura nei confronti della microcriminalità di strada si fanno sempre più presenti e pressanti nel discorso pubblico e tra la cittadinanza, soprattutto quando fatti coincidere con una maggiore presenza di persone immigrate nel tessuto urbano a seguito delle ondate migratorie che caratterizzano questo decennio (Pavarini, 2006; Melossi and Selmini, 2009). Alle autorità locali viene così richiesto di fornire risposte tangibili a questo sentimento dilagante di insicurezza, un sentimento che come descrive dettagliatamente il criminologo Alessandro De Giorgi, “si andava manifestando negli anni Novanta soprattutto nella forma di mobilitazioni di tipo vigilantistico e securitario, per esempio attraverso la formazione di comitati per la sicurezza e contro il degrado” (2000) e che si staglia sull’orizzonte di un importante scarto tra percezione e realtà della situazione di sicurezza (Cittalia, 2009). Come sarà argomentato nei prossimi capitoli, le politiche locali, introdotte in questo periodo nel territorio italiano, seppur di diverso colore politico, rispondono essenzialmente alla percezione di insicurezza della cittadinanza. Una concezione di insicurezza urbana che si struttura indipendentemente “dal rischio di esposizione a eventi criminali, ma è spesso legata a percezioni di disordine, caos, e degrado” (De Giorgi, 2000). La linea utilizzata, e mantenuta nel corso degli anni, sulla quasi totalità del territorio italiano, ha previsto l’applicazione di sanzioni amministrative nei confronti di comportamenti e persone considerate indecorose, incivili, degradanti. Come mostra la ricerca della sociologa Daniela Danna (2004) e come conferma il report sui provvedimenti amministrativi compilato da Cittalia (2009), spiccano a livello quantitativo e qualitativo le ordinanze nei confronti di determinate soggettività, in particolare sex worker e, in modo sempre più vistoso, i loro clienti che contrattano prestazioni sessuali all’interno dello spazio urbano. La criminologa Anna Di Ronco scrive a tal proposito:

In the 1990s, widespread concerns over low level crimes and incivilities pushed municipalities to apply administrative sanctions (e.g., for violations of road traffic, public health and safety regulations) against “uncivil” people, including prostitutes’ clients, who were mainly sanctioned for violations of traffic regulations. (Di Ronco, 2017 : 2)

Come sottolineato nel precedente capitolo, negli anni ’90 si assiste ad un progressivo mutamento della composizione e delle forme della prostituzione, si accentua in particolare la

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diversificazione in termini di corpi che abitano lo spazio urbano. Ed attraverso la massiccia presenza in strada di persone straniere, molte delle quali soggette a condizioni di grave sfruttamento sessuale, il discorso pubblico in merito alla prostituzione si struttura sempre più sulla dicotomia di due posizioni polarizzanti. La giurista Carolina Annecchiarico (2009) sottolinea questo binarismo discorsivo secondo cui da una parte c’è chi vede nell’esercizio del lavoro sessuale un male da estirpare, portatore endemico di disordine pubblico ed insicurezza, mentre dall’altra parte chi, pochissimi i casi soprattutto quando parliamo di autorità locali, pone l’accento sul rispetto dei diritti umani e del contrasto alle reti di sfruttamento proponendo modelli e politiche di governance territoriale capaci di affrontare la prostituzione nella sua dimensione di fenomeno sociale. È precisamente quest’ultimo l’intento del progetto di zoning di Venezia, che si pone quindi nella sua progettualità in netto contrasto rispetto all’andamento nazionale: l’esperimento di zoning veneziano sembra costituirsi, almeno nelle sue fasi di ideazione, come una strategia volta alla negoziazione ed alla riduzione della conflittualità urbana attraverso il rispetto e la promozione del diritto universale alla città ed alla cittadinanza (Olcuire, 2017). Durante gli iniziali tavoli di creazione e concertazione del progetto, lo zoning si è imposto fin da subito nel suo carattere umano ancor prima che strategico.

Ma che cosa significa zoning? Quali sono le peculiarità del modello mestrino? Quali le similitudini e le differenze con altre esperienze Europee? Il termine zoning, nella sua accezione più generale, può essere infatti concepito e declinato secondo modalità e forme differenti in base ai contesti di riferimento. L’esperimento di Mestre si rapporta e si confronta con quello che all’epoca si presentava come il più famoso e paradigmatico modello di zoning all’olandese, non solo da un punto di vista puramente pratico/operativo ma anche a livello di concezione politica e storica dello stesso. Prima di addentrarci nell’analisi dei dati ottenuti, è dunque doveroso un quadro introduttivo e comparativo che metta in luce le specificità intrinseche allo

zoning di Mestre.

Quando parliamo di zoning, l’oggetto di intervento primario è il tessuto urbano ed il governo spaziale dello stesso: l’architetto Franco Mancuso (1978) illustra come il termine

zoning nasca come teoria e pratica spaziale della disciplina urbanistica e prevede la divisione

in zone all’interno della città, ognuna di queste votata ad un uso specifico. Lo zoning o zonizzazione è una pratica di amministrazione pubblica che si basa sulla creazione di aree alle quali viene attribuita e quindi riconosciuta una determinata funzione sociale, politica o/e economica con determinati vincoli, istituzionalizzati per ogni zona.

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Storicamente lo zoning si sviluppò in Germania per poi diventare una pratica comune anche in Italia attraverso la creazione di zone territoriali omogenee: una pianificazione territoriale che divide la città tra centro storico, zone di espansione, zone di completamento, zone industriali, zone agricole e zone dedicate ai servizi pubblici. A partire dal 1994 con il lavoro della giunta Cacciari, anche Venezia ‘terraferma’ “è investita da un’intensa attività di

pianificazione urbana che si traduce nella redazione e adozione di una ventina di varianti sostanziali, di altrettanti piani attuativi e, ancora, di altrettanti progetti strategici” (Hedorfer,

2000 : 1) per la revisione e la riconversione di nuovi progetti di zonizzazione. Un interesse legato alla pianificazione urbanistica che si riverbera anche all’interno dell’assessorato alle politiche sociali. La scelta di sviluppare un progetto di zoning per la governance della prostituzione può quindi essere letta come l’eco di una più generale riqualificazione degli spazi urbani. Se da un lato la zonizzazione urbana tout court, in Italia, è per tradizione legata al modello tedesco (Mancuso, 1978), la progettualità del Comune di Venezia nei confronti della creazione di zone informali per l’esercizio della prostituzione, si confronta e si scontra invece con il paradigmatico modello olandese.