Breve sguardo al mosaico linguistico indiano
L’articolo 344-1, allegato VIII, della Costituzione dell’Unione India-na, entrata in vigore dal 1950, elenca una serie di 22 lingue, denominate “nazionali”1: assamese (Assam), bengalese (West Bengal), bodo (Assam), dogri (Kashmir), gujarati (Gujarat), hindi (lingua ufficiale dell’Unione e lingua madre in vari Stati dell’India settentrionale e centrale), kannada (Karnataka), kashmiri (Kashmir), konkani (Goa), maithili (Bihar), mala-yalam (Kerala), manipuri (Manipur), marathi (Maharashtra), nepali (aree himalayane), odia (Orissa), panjabi (Panjab), sanscrito (sovrannazionale), santhali (zone tribali dell’India centrale), sindhi (Sindh), tamil (Tamilna-du), telugu (Andhra Pradesh), urdu (sovrannazionale).
La qualifica di “nazionali”, tuttavia, va presa nel significato più ristretto del termine: non all’intero Stato Unione Indiana si riferisce, ma ai singoli Stati che ne compongono la confederazione, in cui ciascuna lingua è madre per la maggior parte dei loquenti.2 Il che, in una popolazione che, secondo l’ultimo censimento (2011) assomma a un miliardo e duecento milioni di persone circa, introduce un panorama linguistico non solo impressionante dal punto di vista numerico, ma anche estremamente variegato e comples-so, se si considera che alle lingue riconosciute dalla Costituzione se ne aggiungono – tra secondarie e dialetti – quasi altre duemila. Né potrebbe essere altrimenti in un Paese che occupa un intero subcontinente e che si è reso protagonista di una storia plurimillenaria altrettanto variegata e com-plessa, caratterizzata inoltre dal fatto di venire sempre vissuta in duplice
1 Avvertiamo che per quanto riguarda nomi geografici o di persone di larga fama ci atteniamo alla grafia di uso più noto a livello internazionale. Segnaliamo inoltre che, per facilitarne la comprensione, le denominazioni che seguono sono in forma italiana, quindi non appaiono corredate da segni diacritici.
2 L’individuazione dell’area di principale diffusione di una determinata lingua ha costituito il criterio di costituzione dei singoli Stati federati.
regime, che anche più avanti in questo lavoro chiameremo contemporaneo e parallelo: frazionata alla base in una pletora di compagini statali (regni, principati, sultanati ecc.), unificata in superficie da una cultura generica-mente denominata “hindu”3, che, al di là del coinvolgimento religioso im-plicito nel termine, si è da sempre dimostrata la forza motrice di tutta la vita del Paese.
Fasi della storia linguistica dell’India
Sarà ora il caso di evidenziare le fasi salienti di storia e sviluppo delle lingue indiane. I primi documenti scritti non risalgono più indietro del XII secolo a. C., quando, forse per lontano influsso dei Fenici passato attraver-so le mani dei Persiani o per elaborazione locale di sistemi grafici andati perduti4, venne in uso la scrittura; in generale, tuttavia, essi dimostrano chiaramente di riprodurre lingue più arcaiche, trasmesse con grande fe-deltà, stanti la preferenza e l’eccellenza acquisite dagli autori riguardo alla ripetizione orale.
Le grandi lingue letterarie indiane furono il sanscrito per la famiglia aria o indoeuropea (India del Nord) e il tamil per quella dravidica (India del Sud), quest’ultima peraltro largamente sanscritizzata specialmente nel les-sico religioso. Costruito ad arte (sa[m]scṛta) grazie a una magistrale opera di raffinamento e di sistematizzazione grammaticale, condotta sulla base di un idioma già diffusamente adoperato dalla popolazione ed evolutosi si presume da secoli sino a raggiungere un buon grado di raffinatezza, il san-scrito venne impiegato in campo religioso per la stesura scritta del Veda e la sua esegesi, con una vastissima produzione di composizioni sacre (inni), lentamente trasformatesi nel tempo anche in mondane, quali poemi epici, trattati, teatro, poesie. Composizioni tutte ormai fissate per sempre in una forma linguistica, che, essendo per definizione ‘perfetta’ (di nuovo, sa(m) scṛta), non ammetteva sviluppi da intendersi come alterazioni sostanziali, ma rimaneva statica come fosse cristallizzata.
3 Anche ove l’elemento più propriamente brahmanico – o buddhista o giaina o sikh o musulmano (si veda, D. Bredi, Storia della cultura indo-musulmana, Carocci, Roma 2006, passim) o cristiano o ebraico o coloniale, ecc. – compaia ben evidente nella mentalità e nella prassi, l’impronta hindu ha esercitato e continua a esercitare in generale un ruolo predominante tra gli abitanti dell’India.
4 Della civiltà della Valle dell’Indo, la più antica e copiosamente documentata in India (III millennio a.C-metà II millennio a.C.) restano scritte di non più di diciassette segni.
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La gente, tuttavia, continuò a parlare una lingua che per forze di cose era soggetta a un incessante cambiamento dal punto di vista lessicale e gram-maticale, lasciando al sanscrito la sua immobile posizione nel campo reli-gioso e dell’alta letteratura. Dalla documentazione a noi pervenuta, si de-duce che tale situazione si protrasse finché anche in questi due ambiti non si verificarono due momenti di svolta: la nascita di buddhismo e del suo quasi coevo giainismo (V sec. a. C)5 e gli editti rupestri di Aśoka Maurya (III se. a. C.). Poiché le due nuove religioni rifiutavano la superiorità e dei brahmani e del rito a favore di una più spiccata rilevanza dell’individuo nel suo personale percorso di salvezza, fu evidente che i rispettivi canoni ri-chiedessero di venire redatti in lingua diversa dal sanscrito6, che del mondo brahmanico appunto aveva costituito l’espressione principe; mentre circa un secolo più tardi, il grande imperatore patrono del buddhismo, Aśoka, ritenne più adeguato ai tempi far incidere su pareti rocciose o su pilastri le direttive e le leggi vigenti nel suo vastissimo impero, facendo ricorso a ben tre lingue diverse. Queste, tutte di larga diffusione anche a livelli non cul-tuali, dimostravano sì una discendenza dal sanscrito, ma allo stesso tempo apparivano via via caratterizzate da nuove forme e regole.7
In contrapposizione alla ‘perfezione’ del sanscrito tali lingue vennero denominate “pracriti” (prakṛita), ossia “naturali”, e fecero il loro ingresso ‘ufficiale’sulla scena linguistica indiana non più come un unico prodotto finale, quale era stato il sanscrito, ma come una pluralità di elaborazioni diverse a seconda della zona di diffusione. Oltre all’impiego religioso e amministrativo in seno all’impero maurya, gradatamente i pracriti entraro-no a far parte anche delle lingue usate nella letteratura profana, per esempio nel teatro, dove ciascuno divenne particolare di determinati personaggi (la regina e le altre donne della corte, per esempio), così che, in virtù del prin-cipio della reverenza e perciò sudditanza al maestro8, essi stessi, o gli autori che li mettevano per iscritto, divennero veri e propri guru nel loro genere e in quanto tali non più passibili di modificazioni: il processo di cristallizza-zione si attuò anche in questo caso.
5 Tra i due fondatori si ipotizza una differenza di età di circa ottanta anni.
6 Il canone buddhista venne originariamente redatto in pāli, il più antico dei pracriti, e solo più tardi in sanscrito, quando il buddhismo in qualche modo venne assorbito nel mare magnum dell’induismo. Il canone giaina, invece, rimase nell’originale pracrito ardhamagadhī.
7 Da questo punto di vista gli editti di Aśoka svolsero un importantissimo ruolo di elemento di comparazione tra lingue differenti, in qualche modo simile a quello della stele di Rosetta per i geroglifici egiziani.
Sulla bocca dell’uomo comune, tuttavia, ecco che l’evoluzione continuò il suo corso in contemporanea e in parallelo, dando vita a una nuova fase linguistica, quella delle apabhra(m)śa o “[idiomi] corrotti”, ormai parec-chio lontani dal sanscrito, anche se tutt’altro che dimentichi della propria origine da esso. Le differenziazioni geografiche vi appaiono più marcate, quindi il loro numero è più ampio di quello dei pracriti da cui promanano, e anche in esse si riscontra il medesimo fenomeno della cristallizzazione, una volta che siano state usate in una qualche forma di letteratura.
Infine, in un arco di tempo variabile che vede il suo massimo rigoglio nel-l’VIII secolo d. C., la catena linguistica si conclude con quelle che vengono chiamate “lingue moderne” del Subcontinente indiano, prodotto risultan-te in un primo periodo (fino al XVI secolo) dall’apporto musulmano (ara-bo, persiano, turco) nel tessuto linguistico ario e dravidico diffuso in tutta l’India, in un secondo tempo (XVII-XXI sec.) da quello delle lingue della “colonizzazione”. Questa fase, che, per analogia con la storia linguistica europea, pur con una coincidenza solo parziale dal punto di vista cronologi-co, si può chiamare “volgare”, non ha tuttavia subito il fenomeno della cri-stallizzazione, perché il modello prevalentemente proposto nella letteratura dell’epoca – islamico o occidentale che fosse – non poteva rientrare nella logica della ‘guruità’, poggiando invece su tradizioni del tutto diverse.
Per quanto riguarda il periodo moderno-contemporaneo delle lingue e delle letterature indiane si riscontra invece un altro fenomeno, che in realtà accomuna tutte le lingue e letterature dei paesi ex coloniali in cui la tradi-zione locale fosse già fortemente radicata e sviluppata in forme di grande raffinatezza sia linguistica sia contenutistica, quale appunto era la situazio-ne del mondo letterario in India. Personalità di indiscussa grandezza quali Rabindranath Tagore (1861-1941) 9, addirittura insignito del premio Nobel per la letteratura (1913), lui suddito coloniale di un Paese asiatico in lotta per l’indipendenza da una Potenza europea, che lo vedeva come uno dei suoi più ascoltati animatori del nazionalismo; o Prem Cand (1880-1936)10, genio assoluto della narrativa hindi del XX secolo, per citare solo due tra le centinaia di nomi eccellenti che costellano le storie letterarie dell’India di tutti i tempi, ci permettono di inserire l’India appunto nel novero di
9 Di lingua bengalese per nascita, tradusse personalmente in inglese quelle che divennero le sue opere più famose, come per esempio Gitanjali, raccolta di poesie che gli valse per l’appunto il Nobel.
10 Purtroppo in italiano esistono solo pochissime traduzioni dei suoi romanzi e racconti, per giunta in alcuni casi anche mal condotte, si veda per esempio quella di Godān (1974), il suo capolavoro. Ottimamente tradotte, invece, le novelle raccolte ne Lo scrigno (1965).
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tali Paesi. Il fenomeno cui ci riferiamo riguarda la volontà da parte degli scrittori di adeguarsi nelle proprie opere ai canoni estetici ‘occidentali’, ovviamente, data la sudditanza politica, visti come espressione funzionale e artistica assai superiore a quella locale. Di qui lo svolgimento da parte dei letterati indiani di un processo di rapida imitazione, poi di appropriazione e infine di libera padronanza di modi, stili, generi, provenienti specialmente dall’Europa e oggi sempre di più anche da Stati Uniti e Canada. Non a caso attualmente uno dei punti di forza della produzione letteraria in inglese è dato proprio dalle opere di narrativa scritta da autori indiani, attivi in quel filone, che va sotto il nome di “indo-inglese”11: Salman Rushdie, Vikram Seth, Alka Saraogi, ecc.
La lingua hindi
L’attuale lingua ufficiale dell’Unione Indiana è la hindi nella sua varian-te storica denominata “kharī bolī”12, cioè “parlata13 che sta ritta in piedi”. Nata verso l’XI secolo d. C. da una forte immissione di modi linguistici arabo-turco-persiani nell’idioma di ascendenza sanscritica localmente in uso nella zona compresa tra Delhi e Merath, e portata in giro dagli eser-citi musulmani nel periodo di espansione dell’Islam nel subcontinente (a partire da circa l’XI sec.), nelle varie fasi della sua esistenza aveva rice-vuto nomi diversi a seconda della zona di diffusione e delle caratteristiche che andava progressivamente assumendo: bākhā, rekhtā, urdū, hindustānī, hindavī, hindvī, ecc.. Era così divenuta la lingua franca di tutta la regione perso-indiana, trovando impiego però solo al livello della colloquialità. Il che da una parte le aveva permesso di sviluppare grandemente la propria duttilità e di arricchirsi enormemente dal punto di vista lessicale, dall’altra le aveva precluso il mondo della letteratura14, evitandole l’abituale proces-so indiano della cristallizzazione linguistica.
11 Da non confondere con quello etichettato specularmente come “anglo-indiano”, costituito da autori di lingua inglese che scrivono di argomenti indiani.
12 In realtà sotto il nome di “hindi” sono comprese una dozzina di lingue ben distinte e con letterature proprie, quali braj, rājasthānī, avadhī ecc. La denominazione di “kharī bolī“ si deve agli autori delle prime opere in tale lingua: Lallulal, Prem
Sāgar o Oceano d’amore del 1802, Sadal Misra, Nāsiketopākhyan o Il nato dal naso del 1804, prodotte come libri di testo al Fort William College.
13 Sostantivo.
14 In realtà nella letteratura devozionale (bhakti) del cosiddetto Medioevo indiano (XI-XVIII sec.) si trovano parecchi esempi di antica hindi, ma sempre mescolati a elementi di altre lingue all’epoca letterariamente di maggiore sviluppo e
Quando dall’inizio del XIX secolo, per influsso della colonizzazione an-che la sfera culturale dell’India britannica, letteratura compresa, ricevette molti apporti nuovi dal mondo occidentale, dando vita a generi nuovi, quali per esempio i testi scolastici moderni o il giornalismo15, fu proprio questa forma di hindi a rivelarsi di estrema utilità, in quanto non vincolata da al-cun dovere di pedissequa imitazione di una qualche maestria precedente. La Compagnia delle Indie ne fece allora il proprio tramite preferenziale per le scritture che riguardavano le sue faccende indiane, inserendola tra i corsi del Fort William College di Calcutta come materia di studio per i propri impiegati appena giunti in India16, mentre i missionari battisti nella loro sede bengalese di Srirampur17 la usarono per la traduzione della Bibbia e la composizione di opere edificanti (agiografie, brevi trattati di morale, e così via).
Dalla metà del XIX secolo le differenze di scrittura e, parzialmente, di lessico rispetto all’urdū, con cui invece la hindi condivideva quasi total-mente il vocabolario e gli aspetti funzionali, sorsero polemiche sempre più accese con questa lingua gemella, riguardo all’impiego di una o dell’al-tra da parte dell’amminisdell’al-trazione britannica e dell’ appoggio assicurato da quest’ultima sia nelle scuole, sia nella gestione pubblica. Infatti, dal mo-mento che in quello stesso XIX secolo la rivalità tra hindu e musulmani, che si era molto attenuata negli ultimi cento anni, tornava a rinvigorirsi sotto la politica del divide et impera adottata dai Britannici, optare per l’uso di hindi o di urdū veniva a denunciare appartenenza e aderenza a una religione piuttosto che all’altra, con significative ricadute politiche.
La situazione peggiorò gravemente nel periodo della lotta per l’indipen-denza (1885-1947), in cui fu esacerbata anche dalla questione delle Due Nazioni18 che sarebbero o non sarebbero sorte una volta ritiratisi i coloniz-zatori dal subcontinente: India e Pakistan, ciascuna con una maggioranza di popolazione omogenea per fede religiosa, o India indivisa, in cui le due comunità avrebbero vissuto fianco a fianco, mescolate ma ciascuna
garan-importanza. La prima opera letteraria in pura lingua hindi viene considerato il testo devozionale Yogavāsistha Rāmāyana, redatto nel 1841 a Patyala (Panjab) da Ram Prasad Niranjani, il cui originale però è andato perduto, impedendone il riconoscimento effettivo di primogenitura.
15 I primi giornali in hindi – spesso poco più che bollettini del traffico mercantile – uscirono dal 1841 (per esempio il Bharat Mitra di Calcutta).
16 Si veda, D. Kopf, British Orientalism and Bengal Reanaissance, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1969, passim.
17 Serampore nei testi inglesi. Era un’enclave danese nei pressi di Calcutta. 18 L’idea della formazione del Pakistan si era formata negli anni (1905-1911) durante
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tita nei propri diritti civili dal principio democratico? A indipendenza con-seguita, la questione trovò la sua fine naturale nell’assunzione in ciascu-no dei due Stati della rispettiva variante linguistica come lingua ufficiale, dopo circa trentacinque anni di ininterrotta rivalità.
La hindi, tuttavia, continuò a dover lottare per la propria supremazia nel nuovo Stato dell’Unione Indiana. Infatti lingue di altrettanta importanza storica e culturale, quali tamil19 e bengalese20, si sentirono oltraggiate dalla preferenza accordata allo hindi nella Costituzione, e specialmente a Ma-dras21 sorsero varie associazioni legate a partiti politici di opposizione, che cercarono in tutti i modi di contrastare l’uso della nuova lingua ufficiale, giungendo perfino a scatenare scontri nelle strade, mentre in segno di pro-testa si registrarono perfino alcuni suicidi per pubblico bruciamento.
Oggi le acque sono più tranquille, grazie anche agli sforzi del governo centrale di Nuova Delhi, cui si deve la promozione di iniziative per il so-stegno e la diffusione della hindi nelle zone in cui essa non è lingua madre, per esempio con l’opera del Central Hindi Directorate, l’adozione della Three Languages Formula nelle scuole22, l’impulso a pubblicazioni di lar-ga lettura popolare come l’Amar Citr Kathā23, il sostegno assicurato alla celeberrima produzione filmica del filone Bollywood24, ecc.
Oggi si assiste all’incremento sempre più marcato, prevalentemente nel-le aree cittadine, di una forma mista di hindi e ingnel-lese, sintomaticamente chiamata “hindish”, nel cui montante ibridismo si può facilmente ricono-scere il metodo che già nel lontano passato aveva prodotto per esempio la lingua urdū. Da notare, tuttavia, che mentre a contatto con i musulmani la scrittura era rimasta un elemento esente da contaminazioni25, a parte
l’inse-19 La sua forte sanscritizzazione dovuta soprattutto a fattori religiosi, venne sentita come la non più tollerabile ripresa di una colonizzazione antica, da parte di una lingua moderna, ma della medesima origine, quale si presentava appunto la hindi. 20 Come segnalato precedentemente, in bengalese, sua lingua madre, componeva Tagore, la figura di più trascinante carisma culturale nel movimento nazionalista. 21 L’attuale Chennai, capitale del Tamilnadu.
22 Il programma prevede lo studio della lingua locale nei primi gradi dell’istruzione, di un’altra lingua riconosciuta nella Costituzione più avanti, di una terza lingua – sempre inclusa nella lista dell’art. 344 – negli ordini superiori.
23 L’immortale racconto illustrato. Si tratta di una mastodontica pubblicazione a fumetti scritti in hindi estremamente corretto, nelle cui diverse serie (sei) vengono narrate le vicende storiche del Paese, la vita delle personalità più illustri, le gesta di dèi ed eroi mitologici ecc.
24 I cui personaggi, infatti, parlano normalmente in hindi.
25 L’urdu usava l’alfabeto arabo-persiano opportunamente modificato; per le lingue locali si mantenevano i sistemi di scrittura derivati da quello sanscrito.
rimento di qualche segno diacritico, attualmente si assiste anche a una mo-dificazione del sistema devanagarico26 per quanto riguarda specialmente la punteggiatura, già da metà dell’Ottocento arricchita di segni ‘occidentali’ – interrogativi, esclamativi, virgole ecc. –, oggi addirittura stravolta in uno dei suoi usi fondamentali: il punto fermo. Nel sistema devanagarico, infat-ti, l’indicazione della fine della frase era (ed è) data da un’asticciola ver-ticale che interrompe la riga sovrastante la parola precedente27, mentre in quella latina si ricorre al ben noto “punto”. Quest’ultimo, invece, in India ha solo valore distintivo di lettere in cui la pronuncia indicata dal carattere tradizionale risulta modificata, nel caso esse vengano usate nella trascri-zione da altre lingue28; di conseguenza la sostituzione dell’asticciola con il punto può ingenerare un buon grado di confusione. Ma l’aspetto hindish, come si diceva, sta accrescendo la propria visibilità.
Caratteristiche fondamentali delle letterature indiane
Da quanto si è appena visto del panorama linguistico antico e odierno del Subcontinente, parlare di letteratura indiana diventa un controsenso, poiché a tante lingue in uso non possono che corrispondere altrettante let-terature. Anche qui si ripresenta lo stesso fenomeno dei piani sovrapposti e paralleli. Ci troviamo, infatti, davanti una mastodontica produzione in lingue differenti, da una parte, e una sorprendente comunanza di temi e di generi trattati in ciascuna di esse, dall’altra. Punto di partenza di tutte e due è la religione, cioè il complesso del Veda, costituito da testi conside-rati direttamente rivelati dal Creatore (Brahma) all’ascolto (śruti) dei ṛṣi. Costoro – i veggenti – poi li recitarono agli uomini, che a loro volta, per interposta persona dei brahmani, li misero per iscritto, li cantarono, li inter-pretarono, per finire nel corso di un lunghissimo periodo (dal II millennio a. C. fino a oggi), a piegarli al gusto del mondo della letteratura profana. Qui la parola di Verità da essi – i testi vedici – veicolata, continuò a farsi ascoltare e leggere nei secoli, sebbene non tanto in forma esplicita, quanto sotto il velo del simbolo, dell’allegoria didascalica, della metafora.