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Il linguaggio non “mappa” la realtà ma definisce l’essere umano

II. Il linguaggio come struttura del mondo umano (troppo umano)

3. Il linguaggio come presunta scienza

3.2. Il linguaggio non “mappa” la realtà ma definisce l’essere umano

... In quell'impero, l'Arte della Cartografia raggiunse una tale Perfezione che la mappa di una sola provincia occupava tutta una Città e la mappa dell'Impero tutta una Provincia. Col tempo codeste Mappe Smisurate non soddisfecero e i Collegi dei Cartografi eressero una mappa

dell'Impero che uguagliava in grandezza l'Impero e coincideva puntualmente con esso. Meno Dedite allo studio della cartografia, le Generazioni Successive compresero che quella vasta Mappa era inutile e non senza Empietà la abbandonarono all'Inclemenze del Sole e degl'Inverni. Nei deserti dell'Ovest rimangono lacere rovine della mappa, abitate da Animali e Mendichi; in tutto il paese non è altra reliquia delle Discipline Geografiche. (Suarez Miranda, Viaggi di uomini prudenti, libro quarto, cap. XLV, Lérida, 1658)63.

L’essere umano è condannato eternamente alla non verità e a vivere nell’illusione64.

In Su verità e menzogna in senso extra-morale, come visto, Nietzsche sostiene che gli esseri umani «sono profondamente immersi nelle illusioni, nelle immagini di sogno, il loro occhio scivola sulla superficie delle cose, vedendo “forme”, la loro sensazione non conduce mai alla verità, ma si accontenta di ricevere stimoli e, per così dire, di accarezzare con un giuoco tattile il dorso delle cose»65.

Secondo quando detto, la coscienza – sia la sfera della sensibilità che quella dell’astrazione, ossia del linguaggio e del concetto – è caratterizzata come illusoria, onirica, e

superficiale nei confronti della realtà; questa è la condizione di esistenza propria dell’essere

umano. Con questa caratterizzazione triadica, Nietzsche intende mettere in evidenza tre aspetti particolari – e correlati – della coscienza: in primo luogo, il carattere illusorio sottolinea che il soggetto non rappresenta adeguatamente l’oggetto ma crea delle immagini che non corrispondo alla realtà; in secondo luogo, il carattere onirico ribadisce quanto detto riguardo all’illusione e, in più, enfatizza l’arbitraria e la non necessita della produzione delle immagini illusorie; in terzo e ultimo luogo, il carattere superficiale mette l’accento sul fatto che le forme con cui il soggetto interpreta il mondo non esistono in natura e che, dunque, una tale interpretazione non coglie l’essenza delle cose66.

Così, Su verità e menzogna in senso extra-morale descrive l’essere umano come confinato e

rinchiuso dalla natura in una «fantasmagorica [gauklerisches] coscienza»67 (cioè, illusoria,

onirica, e superficiale) che è una cella dalla quale non è proprio possibile uscire68. Se l’essere

63 Borges, 1960 (1999), pp. 181-182.

64 Si veda il capitolo quinto della prima parte del presente lavoro. 65 WL, p. 356. Traduzione leggermente modificata e corsivo LS.

66 È importante prestare attenzione al fatto che Nietzsche descrive la condizione della coscienza umana

esattamente nei termini in cui aveva descritto l’impulso apollineo: “sogno”, “immagine”, “illusione”, “bellezza”, “forma”, e “individuazione”. Cfr. GT, § 3; e § 4.

67 WL, p. 357. Cfr. PW, p. 216.

68 In “Su verità e menzogna in senso extra-morale”, Nietzsche usa proprio l’espressione “cella della coscienza

[Bewusstseinszimmer]”. Più tardi, in Aurora, Nietzsche rielabora evidentemente questo passo come segue. «Secondo questi orizzonti [i confini della nostra sensibilità], in cui come nelle mura di una prigione, i nostri

umano, infatti, non può conoscere le cose per come sono realmente al di là della coscienza, egli non è nemmeno in grado di conoscere ciò che gli è più vicino, ossia se stesso e il suo corpo69. Se nel 1873 Nietzsche anticipa la nota affermazione in apertura della prefazione di

Al di là del bene e del male (1886) secondo la quale proprio noi uomini della conoscenza, vale

a dire i ricercatori della verità, rimaniamo inevitabilmente sconosciuti a noi stessi70; dall’altra

parte, egli ripete la posizione che aveva già assunto a partire dal 1866 con la lettura della

Storia del materialismo di Lange71.

A questo punto si apre un problema largamente dibattuto dagli interpreti di Nietzsche72: che ruolo ha la cosa in sé in Su verità e menzogna in senso extra-morale? Se, da una

lato, Nietzsche sostiene come visto che la cosa in sé non può essere assolutamente conosciuta perché l’essere umano è imprigionato (ciò, confinato e rinchiuso) nella sua coscienza, dall’altro, però parlando ripetutamente della cosa in sé [Ding an sich], dell’essenza cose [Wesen der Dinge], delle cose [Dinge], sembra suggerire che, anche se inconoscibili, le cose in sé ci siano. Che cosa intende, dunque, Nietzsche per la “cosa in sé” e che posto ha nella sua filosofia del 1873?

Innanzitutto, vorrei indirizzare l’attenzione sul fatto che in Su verità e menzogna in senso

extra-morale nei casi in cui Nietzsche nomina direttamente la «“cosa in sé [Ding an sich ]”»73, o

sensi rinserrano ognuno di noi, misuriamo ora il mondo (…). Le abitudini dei nostri sensi ci hanno irretiti nella frode e nell’inganno della sensazione: questi sono ancora una volta i fondamenti “di tutti i nostri giudizi e di tutte le nostre conoscenze” non esiste assolutamente scampo, né alcuna strada per scivolare e sgattaiolarsene via nel mondo reale! Siamo nella nostra rete, noi ragni, e qualunque cosa venga da noi imprigionata qua dentro, non la potremmo acchiappare se non in quanto è ciò che si fa appunto prendere nella nostra rete» (M, 117). È interessante notare che Nietzsche, in questo passo, riutilizza esattamente la stessa metafora del ragno e della ragnatela che aveva usato nel 1873. «Queste [rappresentazioni intuitive, spazio-temporali], tuttavia, noi le produciamo in noi traendole da noi stessi con quella necessità [istintuale] con cui il ragno il ragno tesse la sua tela; se siamo a costretti a comprendere tutte le cose unicamente in base a queste forme, non c’è allora più da meravigliarci che in tutte le cose noi possiamo appunto comprendere, propriamente, soltanto queste forme» (WL, p. 367). Cfr. Lupo, 2102; e Lupo, 2006, pp. 102-104 per un approfondimento su questo passo.

69 WL, p. 357.

70 GM, “Prefazione”, 1

71 Si ricordi il passo citato nel capitolo secondo della prima parte di questo lavoro. «1) Il mondo dei sensi è il

prodotto della nostra organizzazione. 2) I nostri organi visibili (corporei) sono, così come tutte le altre parti del mondo dell’apparenza, soltanto immagini di un oggetto sconosciuto. 3) La nostra organizzazione vera e propria rimane per noi sconosciuta, così come gli oggetti reali al di fuori di noi. Noi abbiamo davanti, sempre e unicamente, il prodotto di entrambi.

Non soltanto la vera essenza delle cose, la cosa in sé, ci è sconosciuta, bensì anche il concetto di questa è né più né meno che l’ultimo prodotto di un principio opposto – condizionato dalla nostra organizzazione – del quale non sappiamo se abbia un qualche significato al di fuori della nostra esperienza» (BVN 1866, 517, pp. 462-463).

72 Sul problema della cosa in sé in Su verità e menzogna in senso extra-morale cfr. ad esempio Sousa, 2012;

Bornedal, 2005, Anderson, 1999; Conway, 1999. In particolare, sono in pieno disaccordo con Maudemarie Clark la quale sostiene quanto segue: Nietzsche crede nella conoscibilità della cosa in sé ne La nascita della

tragedia, la considera inconoscibile in Su verità e menzogna in senso extra-morale e la elimina solamente nel Crepuscolo degli idoli (cfr. Clark 1990). Tuttavia, come visto, Nietzsche già nel 1867-1868 critica la cosa in sé

schopenhaueriana e tramite lo scetticismo imparato da Lange la considera quantomeno inconoscibile.

qualcosa come «“vero in sé [wahr an sich]”»74 – così come nel caso in cui egli nomina la

“volontà” schopenhaueriana in funzione metafisica75 – utilizza le virgolette da citazione [“,

”]. Questo non è affatto un particolare irrilevante; l’utilizzo che Nietzsche fa delle virgolette, infatti, serve per isolare una parola e per prenderne le distanze, e in questo uso del linguaggio ha un decisivo valore filosofico. Quando Nietzsche parla della “cosa in sé” intende discutere e criticare la cosiddetta cosa in sé. Ancora una volta l’uso filosofico del linguaggio si dimostra importantissimo: Nietzsche per usare la parola “cosa in sé”, che non fa parte del suo vocabolario filosofico in quanto carica di pregiudizi metafisici, la delimita e la sottrae dal suo discorso riportandola, così contrassegnata, soltanto come obiettivo critico. Anche se esclusivamente per opposizione, comunque, Nietzsche riflette sulla cosa in sé ed è pertanto necessario approfondire questa osservazione preliminare.

La cosa in sé – o meglio, la “cosa in sé” – in Su verità e menzogna in senso extra-morale è intesa come «una x, per noi inattingibile e indefinibile»76. In questo testo, pertanto,

Nietzsche ripropone e mantiene la posizione scettica che aveva imparato da Lange nel 1866 e che, pochi anni dopo, lo aveva portato alla critica della metafisica schopenhaueriana della volontà. Stando così le cose, secondo Nietzsche la “cosa in sé” è soltanto una costruzione

linguistica prodotta dal nostro processo di metaforizzazione del mondo, vale a dire una

parola che non ha un corrispettivo oggettivo nella realtà esterna. Come visto, pensare che ci sia una “cosa” al di fuori della coscienza che colpisca la nostra sensazione è il risultato della combinazione dei due meccanismi istintivi della sineddoche (cioè, la parte per il tutto) e della metonimia (cioè, dell’inversione della causalità) che costituiscono la condizione di esistenza (cioè, di sopravvivenza e di esperienza) dell’essere umano77. L’errore iniziale

dell’uomo della conoscenza è, di fatti, secondo Nietzsche quello di «credere che egli abbia queste cose immediatamente dinnanzi a sé, come oggetti puri»78.

La “cosa in sé”, dunque, non ha realtà al di fuori della coscienza ma è solamente un prodotto percettivo-linguistico creato per istinto al fine della conservazione dell’individuo. Fuori dalla coscienza non ci sono né cose in sé né cose; per Nietzsche, infatti, il fatto più vero – in senso extra-morale, ossia più vicino alla realtà delle cose a prescindere dalla dimensione umana (troppo umana) – è che l’essere umano, imprigionato nella sua coscienza, può raggiungere, per rimanere nella metafora della prigione, le sbarre: la

74 WL, p. 364.

75 «E possiamo dire che persino la “volontà” di Schopenhauer non sia altro se non la massimamente

universale forma di apparenza» (NF 1871, 12[1], p. 373).

76 WL, p. 361.

77 Si veda il paragrafo precedente di questo capitolo, e il paragrafo primo del capitolo secondo. 78 WL, p. 364.

coscienza sente passivamente che il corpo è stimolato da qualcosa di cui non sa e non può sapere assolutamente niente79.

Tenuto presente quanto detto, possiamo lasciare a Nietzsche stesso il giudizio sulla sua posizione nei confronti della cosa in sé in “Su verità e menzogna in senso extra- morale”. Nella prefazione del 1886 al volume secondo di Umano troppo umano, Nietzsche parla pubblicamente per la prima e l’unica volta del suo testo “tenuto segreto” del 1873 in questi termini:

Quando poi, nella terza “Considerazione inattuale”, espressi la mia venerazione per il mio primo e unico educatore, per il grande Arthur Schopenhauer – oggi la esprimerei molto più fortemente e anche più personalmente – mi trovavo, quanto alla mia persona, già nel bel mezzo della scepsi e della dissoluzione moralistica, vale a dire impegnato altrettanto nella critica che nell’approfondimento di ogni

pessimismo preesistente – già non credevo «più a nulla», come dice il popolo,

neanche a Schopenhauer: appunto in quel tempo nacque un piccolo scritto, poi tenuto segreto, “Sulla verità e sulla menzogna in senso extra-morale” .

Tenendo in mente questa descrizione dell’anno 1873, vorrei proporre una lettura della posizione filosofica nietzscheana in Su verità e menzogna i senso extra-morale tramite la “Storia di un errore” raccontata da Nietzsche nel capitolo “Come il mondo «vero» finì per diventare favola” del Crepuscolo degli idoli.

Secondo questa lettura, il Nietzsche del “pessimismo preesistente” allo scritto dedicato alla verità e alla menzogna corrisponderebbe al punto quarto della storia, come tappa successiva alla filosofia kantiana:

Il mondo vero – irraggiungibile? Comunque non raggiunto comunque non raggiunto. E, in quanto non raggiunto, anche sconosciuto. Dunque neppure consolante, liberatorio, vincolante: a che cosa potrebbe vincolarci qualcosa di sconosciuto?... (GD, “Come il mondo «vero» finì per diventare favola”, 4)

L’estremo scetticismo di Nietzsche nel 1873, invece, corrisponderebbe esattamente al punto seguente del racconto:

79 «Così l’enigmatico x della cosa in sé si presenta come stimolo nervoso, ora come immagine, e ora come

Il «mondo vero» – un’idea che non serve più a niente, nemmeno più vincolante – un’idea inutile e superflua, quindi un’idea confutata: eliminiamola. (GD, “Come il mondo «vero» finì per diventare favola”, 5)

Proprio a questo punto, effettivamente, il “mondo vero” viene racchiuso dalle virgolette e, dunque, rigettato in modo simile a ciò che accade nel testo di “Su verità e menzogna in senso extra-morale”. Alla luce di questa interpretazione, perciò, in il testo tenuto segreto da Nietzsche costituirebbe il momento originario della liberazione dello spirito che poi ha dato vita a Umano troppo umano80. Per questa ragione, ritengo utile guardare a Umano troppo umano

per chiarificare la critica che Nietzsche muove alla cosa in sé già nel 1873; e, di fatti, l’aforisma 1681, dedicato proprio all’opposizione tra fenomeno [Erscheinung] e cosa in sé, si

conclude come segue: «forse allora ci renderemo conto che la cosa in sé è degna di una omerica risata: che essa sembrava tanto, anzi tutto, mentre in effetti è vuota, ossia vuota di significato»82.

Considerato quanto detto finora, ritengo che in Su verità e menzogna in senso extra-morale si compia la critica nietzscheana della “cosa in sé” iniziata nel 1867-1868 con la critica della metafisica schopenhaueriana della volontà83; nel 1873, di fatti, Nietzsche è già consapevole

che la “cosa in sé”, in quanto entità linguistica, è soltanto un illusione (cioè, una metafora di metafora) e, in fin dei conti, un “guscio vuoto”84.

Stando così le cose, in Su verità e menzogna in senso extra-morale, Nietzsche parla della “cosa in sé” in negativo, solamente come obiettivo critico; ulteriore prova di ciò è il fatto che Nietzsche non prende in considerazione l’opposizione tra la cosa in sé e il fenomeno [Erscheinung], bensì tra “cosa in sé” e illusione [Schein]. Egli è ben consapevole delle insidie nascoste nella parola apparenza: «la parola apparenza [Erscheinung] contiene molte tentazioni, e perciò la evito per quanto è possibile: non è infatti vero che l’essenza delle

80 Sullo scetticismo in Su verità e menzogna in senso extra-morale e sulla sua stretta relazione con Umano troppo umano cfr. Berry, 2011.

81 L’aforisma inizia come segue. «I filosofi sono soliti porsi davanti alla vita e all’esperienza – davanti a ciò che

essi chiamano il mondo dei fenomeni – come davanti a un quadro, che sia svolto una volta per tutte e indichi, in modo invariabile e fisso, lo stesso procedimento: questo procedimento, pensano, bisogna interpretarlo rettamente, per trarne una deduzione sull’essere che ha prodotto il quadro: dunque sulla cosa in sé, che è sempre vista come la ragion sufficiente del mondo dei fenomeni. Di contro, i logici più rigorosi, dopo aver acutamente definito il concetto metafisico come quello del non condizionato, e di conseguenza anche del non condizionante, hanno negato ogni rapporto tra il non condizionato (il mondo metafisico) e il mondo che conosciamo): cosicché appunto nel fenomeno non comparirebbe affatto una cosa in sé, e ogni deduzione da quello a questa sarebbe da respingere. Ma sia gli uni che gli altri hanno trascurato la possibilità che quel quadro – ciò che ora per noi esseri umani si chiama vita ed esperienza – sia divenuto a poco a poco, anzi sia ancora in divenire, e non debba pertanto essere considerato come una grandezza fissa, dalla quale si possa trarre, o anche solo respingere, una conclusione sul suo autore (la ragion sufficiente)» (MA, 16).

82 MA, 16.

83 Si veda il capitolo terzo della parte prima del presente lavoro. 84 WL, p. 358.

cose appaia nel mondo empirico»85. Parlare di apparenza, nei termini di Kant, come

fenomeno implica che vi sia qualcosa che appaia e, immediatamente, suggerisce che questo qualcosa possa sussistere anche al di là del suo apparire come un’entità in sé. In questo modo, la nozione di fenomeno richiama magneticamente anche quella della cosa in sé, come fondamento non fenomenico.

In un passo de La filosofia nell’epoca tragica dei greci, Nietzsche ribadisce che anche la parola “essere”, in quanto parola-concetto, è soltanto la più universale forma di apparenza; dire che c’è una cosa in sé al di là dell’apparenza, non è altro che un’altra forma di apparenza86:

La parola «essere», anzi, indica soltanto la relazione più universale che congiunge tutte le cose, analogamente a quanto avviene per la parola «non essere». Ma se non si può assodare l’esistenza delle cose stesse, allora, allora la relazione delle cose tra loro, il cosiddetto «essere» e «non essere», non ci può far progredire neppure di un passo verso la terra della verità. Mediante le parole e i concetti noi non giungiamo mai al di là del muro delle relazioni, né riusciremo a penetrare in una qualche favolosa radice primordiale delle cose; persino con le forme pure della sensibilità e dell’intelletto, cioè con lo spazio, il tempo, e la causalità noi non riusciamo a ottenere nulla che assomigli a una veritas aeterna. È assolutamente impossibile per il soggetto voler vedere e conoscere qualcosa al di là di sé, tanto impossibile che il conoscere e l’essere risultano le sfere più contraddittore fra loro. (PGZ, §12, p. 320)

Per non cadere nelle tentazioni metafisiche della parola “apparenza fenomenica”, pertanto, Nietzsche come visto nel capitolo quinto della prima parte del presente lavoro preferisce parlare di apparenza come illusione artistica[Schein]87.

Alla luce di quanto detto, la conoscenza, e in particolare la filosofia, come ricerca della verità agli occhi di Nietzsche si rivela essere contraddittoria; infatti, «la verità [cioè, il caotico divenire degli stimoli] è inconoscibile tutto ciò che è conoscibile risulta illusione [cioè, l’interpretazione umana del caotico divenire degli stimoli]»88. La filosofia, nel seguire

85 WL, p. 365.

86 Sulla filosofia nietzscheana dell’apparenza cfr. Gaukroger, 1999.

87 «Troppo facilmente noi scambiamo la cosa in sé di Kant con la vera essenza delle cose secondo i buddisti: da

un lato, la realtà concreta [Wirklichkeit] esprime una totale parvenza [oppure, illusione]; dall’altro, essa mostra un’apparenza perfettamente adeguata alla verità. Parvenza in quanto non essere e apparenza dell’essere vengono confuse l’una con l’altra. Nel vuoto si pongono tutte le superstizioni possibili» (NF 1872-1873, 19[148], p. 51).

il suo amore, si ritroverebbe a sua insaputa innamorata di un’illusione ciecamente presa per verità.

Mancando non solo il nesso necessario ma anche ogni rapporto diretto tra la coscienza e il mondo esterno, nell’ottica di Nietzsche, il ricercatore scientifico della verità si ritrova nella stessa condizione dell’astrologo: «allo stesso modo in cui l’astrologo considerava le stelle al servizio degli esseri umani e in collegamento con la loro felicità e con i loro dolori, così un tale ricercatore [della verità] considera il mondo intero come connesso all’uomo»89.

A mio avviso, il rapporto tra il ricercatore della verità, che mira a esprimere correttamente il mondo nel linguaggio, e la dimensione illusoria di questa ricerca è perfettamente esemplificato dal breve racconto di Jorge Luis Borges intitolato “Del rigore della scienza” che ho proposto come esergo di questo paragrafo. Il ricercatori della verità, esattamente come il cartografi, vogliono “mappare” la realtà sempre più correttamente; mentre la cartografia disegna mappe nella carta, la scienza disegna parole e concetti nel linguaggio. I cartografi della conoscenza sono conviti che si possa creare una mappa tanto precisa, esatta, e, dunque, vera che possa coincidere con realtà dell’impero. Tuttavia il loro sforzo non può che essere frustrato; per quanto grande e dettagliata una mappa non sarà mai l'impero, ma sempre e solo mappa dell'impero e, analogamente, ogni mappatura linguistica del mondo non sarà mai il mondo ma linguaggio90. L’impresa dei cartografi di

esprimere adeguatamente l’impero tramite una mappa e l’impresa dei ricercatori della verità di esprimere adeguatamente il mondo tramite il linguaggio ricadranno sempre e solo sulla mappa e sul linguaggio: non è possibile uscire dal medium di espressione che, in quanto medium, non può assolutamente coincidere con la cosa espressa. Sia chiaro che Nietzsche non vuole affatto mettere fine alla cartografia, la quale corrisponde all'istinto artistico- creativo dell'uomo, ma vuole orientare e migliorare la sua attività rendendola consapevole dei suoi limiti e della sua potenza.

Una volta caduto il paradigma delle conoscenza, e con esso la verità, come corrispondenza tra soggetto e oggetto occorre trovarne un altro; esattamente per questa ragione, Nietzsche, a partire dagli anni 1869-1870, preferisce assumere l’arte, al posto della conoscenza come caratteristica fondamentale dell’essere umano; l’arte, infatti, nelle parole dello stesso Nietzsche, «enuncia del tutto universalmente la verità nella forma della menzogna»91

89 WL, p. 364.

90 «Non appena si vuol conoscere la cosa in sé, essa si riduce appunto a questo mondo» (NF 1872-1873, p. 50).