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Linguaggio politico e scrittura storica nel basso me- me-dioevo: alcune riflessioni metodologiche

Nel documento PHILOSOPHICAL READINGS (pagine 92-99)

Francesca Roversi Monaco

1. Linguaggio politico e scrittura storica nel basso me- me-dioevo: alcune riflessioni metodologiche

La presenza di termini, discorsi, argomentazioni riferibili a una precisa matrice di pensiero politico (aristotelico, ciceroniano, biblico) nei testi della pratica di governo del-le diverse istituzioni cittadine bassomedievali rappresenta uno stimolante ambito di ricerca: tale produzione, infatti, non tanto speculativa quanto pragmatica, permette di co-gliere in quale misura i modelli di pensiero dominanti fos-sero diffusi aldilà della loro dimensione teorica e, dunque, di ipotizzare quanto le grandi trattazioni politiche e i si-stemi dottrinali la cui auctoritas ha scandito l’evolversi della riflessione politica medievale fossero percepiti e re-cepiti nella concreta attività politica, nella testualità a essa collegata – documentaria, normativa, giuridica, cronachi-stica –, nel linguaggio politico veicolato da quella testua-lità1. Tale linguaggio è qui da intendersi come parole effi-cace, tale cioè da essere riconoscibile a un pubblico ben individuato e da riflettere le diverse funzioni assegnategli dai diversi modelli politici per i quali diveniva strumento di legittimazione, contribuendo a creare un “parlato” poli-tico familiare per i destinatari tramite il ricorso a determi-nati termini, immagini, forme2.

Il tema della ricezione e del pubblico di riferimento risul-ta, in questo senso, di particolare importanza: nel caso delle fonti considerate si tratta delle collettività cittadine dell’Italia centro-settentrionale fra Due e Quattrocento, fra l’età d’oro – per usare una definizione forse un po’ scontata ma sempre evocativa – dell’esperienza comunale e il progressivo affermarsi di nuove tipologie di governo legate all’esperienza signorile, e cioè alla specifica strut-tura di potere che, con modalità e tempi diversi, prese forma nei secoli centrali del Medioevo come dominio ter-ritoriale locale o regime personale e dinastico, in un con-testo storico-politico caratterizzato dalla pluralità degli attori sociali e da un notevole dinamismo istituzionale3. D’altra parte, come ha evidenziato Andrea Zorzi, fra Due e Trecento e con l’affermarsi della dominazione angioina cominciarono a circolare anche «nel mondo comunale ita-liano pratiche e linguaggi politici nuovi, capaci di incidere nella riconfigurazione politica, istituzionale e culturale delle autonomie urbane. Il quadro politico dell’Italia delle città centro-settentrionali appare cioè più ricco e variegato di quanto non si continui a ritenere secondo una visione prevalentemente “comunale”. Regimi diversi e ibridi si alternarono» e tale «apparente instabilità istituzionale fu espressione di una intensa sperimentazione politica […] risulta pertanto difficile ascrivere il discorso politico ela-borato nelle città italiane tra Due e Trecento alla luce e-sclusiva della dimensione repubblicana e comunale. Esso fu più complesso, e sintesi di esperienze variegate e mol-teplici»4.

A una simile, fluida, sintetica complessità corrispose quello che Enrico Artifoni ha definito «un grande proget-to educativo […] un piano di formazione del cittadino funzionale a una forma socio-politica che aveva nella par-tecipazione una delle sue caratteristiche principali», una «pedagogia sociale»5 portata avanti tramite pratiche di comunicazione politica che trovarono la loro massima e-spressione nell’ars dictandi, nella retorica e nell’oratoria cittadina e che costituirono il “versante culturale” dell’esperienza comunale soprattutto duecentesca6.

Anche i processi di formazione della memoria urbis si possono riferire a tale progetto didattico-culturale: ogni regime politico che miri a radicarsi nel contesto in cui si trova a operare, infatti, stimola e favorisce processi di le-gittimazione ideologica che individuano nella scrittura della storia uno degli strumenti principali7, attraverso un’auto-costruzione memoriale caratterizzata da strategie di manipolazione, rimozione, esaltazione, reimpiego, mu-tamento di uso e di significato di eventi e azioni,

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nuamente rielaborati in funzione dell’evolversi della so-cietà.

In senso generale, il rimando è alla storia “fondante” di Jan Assmann8, una storia che struttura memoria e iden-tità e nell’ambito della quale solo il passato significativo viene ricordato e solo il passato ricordato diventa signifi-cativo, connotando in maniera ben definita i modi attra-verso i quali l’umanità ha portato avanti la sua «eterna lotta contro l’invadenza distruttiva del divenire»9, lotta mutevole quanto il divenire stesso, malgrado l’apparente solidità delle varie storie fondanti.

La dialettica di rappresentazione/rimozione che carat-terizza lo strutturarsi della memoria storica si esprime nell’alternanza di forme di registrazione e descrizione e forme di oblio e di archiviazione e riflette il contesto poli-tico e ideologico dal quale scaturisce. Lo scrivere sul pas-sato si configura come atto politico consapevole, nella misura in cui si cerca con esso di influenzare l’azione pre-sente e di ottenere un effetto determinato su un pubblico contemporaneo: col mutare degli assetti istituzionali mu-tano gli obiettivi politici e, allo stesso modo, muta la scrit-tura della storia, in un continuo processo di distruzione, costruzione e reinvenzione di un passato culturalmente costruito in funzione di un presente da legittimare. La nar-razione storica che si sviluppa intorno a determinati even-ti, luoghi, oggetti e individui è, dunque, soggetta nella diacronia a modificazioni più o meno marcate delle sue caratteristiche e della sua funzionalità politica e ideologi-ca.

In base a tali considerazioni può allora essere interes-sante verificare nel linguaggio politico utilizzato dalla scrittura storica la presenza di mutazioni di significato, il permanere di schemi, concetti, termini, periodi, la persi-stenza di forme e modalità di definizione che, nelle se cadenze cronologiche, possono inquadrare realtà diver-se, malgrado l’analogia nominale.

La storiografia e la cronachistica cittadine fra XIII e XV secolo ben si prestano a una simile proposta di anali-si, poiché si trovano a registrare e raffigurare l’effettivo mutare degli assetti sociali, politici, economici delle realtà urbane di cui narrano la storia e di cui costruiscono la memoria in un contesto politico caratterizzato da fluidità, ibridismi, interscambiabilità delle forme di governo e, dunque, assai fecondo dal punto di vista dell’evolversi della pratica politica.

Come sottolineato di recente da Enrico Faini, la «cul-tura del ricordo delle città italiane non è all’inizio “memo-ria culturale”, non è, dunque, celebrazione istituzionaliz-zata e fissa di un passato sottratto alla discussione e all’argomentazione. È piuttosto “politica del ricordo”»10, determinazione della contemporaneità ottenuta fissando, attraverso lo scritto, i risultati salienti della propria evolu-zione. In tal senso, la memoria cittadina si pone come esi-to di un’operazione selettiva che, raffigurando in un ri-cordo politicamente orientato quanto raggiunto, gli attri-buisce la forza dell’essere divenuto un dato acquisito all’interno di una tradizione memoriale, da un lato contri-buendo a renderlo “eterno”, dall’altro senza perdere la finalità pratica di creare nel presente una memoria d’uso in funzione legittimante.

La costruzione identitaria alla base della politica del ricordo non era certo prerogativa delle fonti storiografiche

e cronachistiche, ma coinvolgeva la vastissima produzio-ne di scritture pragmatiche – deliberative, fiscali, giudi-ziarie, normative – stimolata dalla rivoluzione documen-taria dell’età comunale11: anzi, proprio le scritture della prassi incentivarono le scritture memoriali, di solito redat-te da uomini impegnati a pieno titolo nella politica citta-dina, primi fra tutti i notai12, e in esse confluirono sia le capacità compositive sviluppate grazie alla pratica profes-sionale sia la cultura letteraria legata ai flussi di persone e di modelli favoriti dalle reti funzionariali su cui si basa-vano i sistemi di governo cittadino, e dallo sviluppo dell’istruzione universitaria.

La dizione “fonti storiografiche” è assai generica e ri-chiede, pertanto, alcune specificazioni metodologiche: innanzitutto, occorre considerare la varietà tipologica e le diverse caratteristiche formali e sostanziali dei testi della storiografia cittadina – storie universali, cronache, mono-grafie, volgarizzamenti, annali; in secondo luogo, l’e-ventuale esistenza da un lato di una storiografia “ufficia-le”, orientata a formare in modo consapevole una memo-ria urbis condivisa e accolta dal regime al governo, dall’altro la presenza di una produzione “ufficiosa”, senza alcuna legittimazione da parte dei ceti eminenti e, in tal senso, forse meno incidente sui processi di costruzione politica del ricordo e, forse, meno significativa come campione su cui verificare la diffusione a livello pratico dei modelli teorico-politici dominanti. Infine, è opportuno ricordare un aspetto di ordine contenutistico, evidenziato con la consueta lucidità da Ovidio Capitani per la produ-zione testuale fra XI e XII secolo, ma applicabile anche ai secoli successivi: «nella immensa congerie di annali, cro-nache, storie, gesta di carattere locale il senso di una co-scienza civica non travalica nel migliore dei casi quella che è stata chiamata la coscienza cittadina intesa nel senso più ristretto. Per dire che non tutte le città quando sono proiettate nella grande storia riescono a esprimere una lo-ro peculiarità in senso più ampio»13. D’altra parte, ciò che caratterizza tale produzione è proprio il suo essere muni-cipalistica14 e, forse, il discrimine riguarda proprio ciò che di quella immensa congerie si desidera mettere in luce: se una peculiarità ampia o una parola politica mediata da una valenza locale, dalla prassi, dalla realtà contingente e quo-tidiana e dai modelli speculativi di volta in volta utilizzati per legittimare il sistema politico dominante.

Se la politica è questione in fatti e in detti e se la sto-ria sostiene e legittima ogni regime politico si possono, allora, annoverare fra i “detti” politici anche le parole del-la storia, i detti storici che strutturano testi che divengono anche politici poiché trasmettono identità. Tali testi sono da un lato orientati, connotati, selezionati, manipolati, e-purati in modo volontario, dall’altro legati alle alterne vi-cende della trasmissione dei manoscritti nella lunga dura-ta della non riproducibilità seriale. Anche se, in realtà, può accadere che i due aspetti finiscano per confluire l’uno nell’altro, come dimostra il caso della Chronica de Venexia detta di Enrico Dandolo, nella quale l’autore pro-pone ai lettori di dare alle fiamme tutta la produzione an-tica non adeguata ai canoni correnti: de ogni altra cronica antiga che per i passadi tempi simplicimente trovade a-vemo scripte, le qual a man gli venesse, [si deve] tener quel modo ch’io ò tegnudo da poi complida questa, le qual tute ò arse, a ciò che quele vegnando ad man de

le-FRANCESCA ROVERSI MONACO

88 tori, fastidio over incredulidade non produsese15. Come

dire: la memoria che si può trasmettere è una e una sola, costruita attraverso precise strategie formali e di contenu-to, ogni altra memoria non può che essere dannata o, me-glio, cancellata attraverso un fuoco purificatore che eli-mini tutti gli eventi e gli uoeli-mini e i momenti e le parole che per le ragioni più varie non sono stati ritenuti adeguati all’identità da legittimare attraverso la costruzione memo-riale. Non sono stati ritenuti fondanti.

Il rogo, consapevole o meno, di una memoria prece-dente a quella che si vuole codificare, dunque, crea un vuoto e un corto circuito che la tradizione della trattatisti-ca polititrattatisti-ca forse conosce in misura inferiore: la rottura della continuità della trasmissione memoriale rappresenta un primo elemento da considerare nell’affrontare una ri-cerca sul linguaggio politico veicolato dalla storiografia cittadina.

In secondo luogo, le parole utilizzate da cronache e storie per descrivere e, anche, provare a interpretare i fatti e i detti che «fanno lla ragione delle cittadi» non sono, certamente, caratterizzate dallo stesso rigore teorico e dal-la consequenzialità specudal-lativa deldal-la trattatistica e deldal-la letteratura, e sarebbe fuorviante e poco realistico attender-si di ritrovare schemi linguistici chiaramente ascrivibili a una determinata corrente di pensiero, così come è eviden-te che il ricorso a eviden-termini con una foreviden-te valenza politica – politicum, publicum, commune, socialis – non implica lo spessore dottrinale che sostanzia l’uso degli stessi termini nella produzione teorico-speculativa. Anche perché, a se-conda del contesto urbano considerato, termini identici o analoghi individuano realtà politiche eterogenee e assai diverse fra loro.

In effetti, la principale difficoltà metodologica di una ricerca su tale tipologia di fonti risiede forse proprio nella possibilità di individuare l’effettiva presenza di modelli teorici capaci di animare un “parlato” politico diffuso an-che a livello della pratica di governo e della sua testualità senza forzare in alcun modo le fonti, evitando cioè da un lato le genericità, dall’altro la tentazione di sovrainterpre-tare. La parole efficace da esse impiegata, infatti, parreb-be connotarsi piuttosto come linguaggio in cui ricercare l’eco lontana delle dottrine imperanti, il loro risuonare in un termine ricorrente, in una locuzione, in una metafora, il loro balenare in una “immagine, in un evento, in un per-sonaggio”.

Nell’affrontare i detti e i fatti, la teoria e la pratica, le elaborazioni teoriche più raffinate e le descrizioni storiche più semplici, dunque, non si possono ignorare la natura e le modalità di costruzione delle fonti storiografiche, le vicende della trasmissione testuale, la dialettica rappre-sentazione/rimozione, il loro peculiare codice linguistico, che si sovrappongono o, meglio, agiscono come reagente sotterraneo combinando in un insieme discorsi e termini diversi.

Da questo punto di vista, davvero la costruzione della memoria urbis pare compendiata nelle parole usate da Ita-lo Calvino per descrivere Zaira, una delle sue folgoranti città invisibili, la terza città della memoria dopo Diomira e Isidora:

Inutilmente, magnanimo Kublai, tenterò di descriverti la città di Zaira dagli alti bastioni. Potrei dirti di quanti gradini sono le vie

fatte a scale, di che sesto gli archi dei porticati, di quali lamine di zinco sono ricoperti i tetti; ma so già che sarebbe come non dirti nulla. Non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato […] ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole16.

La città non dice il suo passato ma lo contiene, appunto, in ogni suo elemento, non solo architettonico, ma anche linguistico e narrativo, anche nella Storia tratteggiata dal-le fonti utilizzate per costruire il racconto storico e neldal-le storie sulla città che ne scaturiscono.

È evidente, già da queste brevi riflessioni, che ogni ricerca sul linguaggio politico veicolato dalla storiografia cittadina bassomedievale come espressione di una cultura pragmatica anche non autoriale richiede di conoscere e analizzare le caratteristiche politiche, economiche, sociali dei diversi contesti urbani, richiede cioè di localizzare in modo specifico i processi di formazione della memoria cittadina poiché, malgrado le innegabili costanti e aldilà delle analogie e dell’omogeneità di certe esperienze isti-tuzionali, ogni realtà urbana rappresenta un unicum. E rappresenta un unicum proprio perché i modi di costruire l’identità attraverso il passato sono mutevoli e unici, pur nella loro universalità, come lo sono le linee di una mano, condivise da tutti ma uniche per ogni individuo.

La costruzione della memoria urbis di Bologna costi-tuisce un esempio interessante proprio di tale varietà, poi-ché se è innegabile che la dimensione identitaria cittadina fosse nettamente connotata già dall’inizio del XII secolo in senso giuridico – Docta suas secum duxit Bononia le-ges17 –, la scrittura della storia ha, invece, seguito un per-corso particolare, di cui occorre tenere conto per poi veri-ficare nei testi l’eventuale ricorso a una parola politica efficace.

Bologna è una città carica di storia: ce lo dicono i suoi tre nomi Felsina, Bononia e Bologna, il suo impianto urbanistico, i suoi monumenti, la sua toponomastica stradale. È veramente una città in cui “il tempo diventa visibile”. Ma tutto questo non si è tra-dotto in quell’opera storiografica monumentale che avrebbe me-ritato e meriterebbe […] Bologna non ha mai avuto i suoi croni-sti ufficiali come Genova; non ha mai trovato i suoi annalicroni-sti fra i funzionari comunali come Venezia, o tra uomini di solida cul-tura umanistico-retorica, come Padova18.

Così Gina Fasoli individuava con chiarezza nella costru-zione memoriale bolognese un’assenza, un vuoto tanto più significativi se si considera che Bologna fu, fra XIII e XV secolo, un formidabile laboratorio di sperimentazione politica, nel doppio binario della dottrina giuridica e della tradizione retorica e nella concretezza della loro applica-zione pratica.

La città, sede dello Studium dove impartivano il loro insegnamento maestri di ars dictandi quali Boncompagno da Signa e Bernardo da Bologna e giuristi famosi in tutta Europa, governata da un Comune forte al punto da tenere prigioniero per oltre vent’anni il figlio dell’imperatore Federico II, Enzo re di Sardegna, a lungo non riuscì a ra-dicare in una Istoria cittadina l’immagine della propria grandezza, mentre nelle più importanti città dell’Italia

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centro-settentrionale si assisteva al progressivo codificarsi della memoria urbis, all’“invenzione della memoria”, alla consapevole costruzione del proprio passato per fini poli-tici e ideologici. I motivi di tale afasia sono stati varia-mente indagati da storici e filologi, poiché la difficoltà di delineare per la costruzione identitaria cittadina in ambito narrativo e storiografico «un processo attivo, largo e pie-no di memoria condivisa, inteso a tradurre un’auto-coscienza formata in una sequenza a tutto tondo di perso-naggi, momenti e situazioni trasposti a livello simbolico nella dimensione narrativa»19, caratterizza non solo i seco-li centraseco-li del Medioevo ma anche i successivi.

La carenza di narrazione storiografica è eclatante per la Bologna dell’XI e XII secolo, la città nella quale si svi-luppò il primo magistero universitario, e lo è anche per il XIII secolo, il secolo d’oro, appunto, della storia cittadi-na, il secolo in cui le istituzioni conobbero una complessa, alle volte sofferta, evoluzione, il secolo del conflitto con-tro Federico II, del Comune di popolo e del cosiddetto regime dell’esclusione, in un contesto culturale caratteriz-zato dalla redazione dei testi fondamentali della costru-zione politica e identitaria cittadina: fra tutti gli statuti e il Liber paradisus, che sanciva la cosiddetta “liberazione dei servi”, mentre l’ars dictandi raggiungeva il suo mas-simo splendore20. Ciò che sembra mancare, dunque, è proprio la scrittura di questa storia gloriosa modo istoriae, appunto, e non in base ad altre forme di comunicazione e rappresentazione.

D’altra parte, a Bologna solo all’inizio del XV secolo si giunse a individuare un testo di riferimento per la storia cittadina (la cronaca cosiddetta Rampona), tanto che la critica ha indagato a lungo e con perizia la tradizione ma-noscritta della cronachistica e la sua particolarità nell’am-bito di un panorama regionale e padano assai ricco, inve-ce, di opere storiografiche, giungendo a importanti risulta-ti sulle modalità di trasmissione dei tesrisulta-ti e proponendo ipotesi significative sulla loro scarsità per l’epoca anterio-re al Tanterio-recento. Gherardo Ortalli, analizzando uno dei ra-rissimi testimoni, il Chronicon Bononiense, risalente alla seconda metà del XIII secolo, ha sottolineato come «il silenzio odierno non deve necessariamente corrispondere a un vuoto originario. Quanto ci è pervenuto non è quanto si è prodotto. Il tempo e la tradizione sono filtri implaca-bili, che conservano o fanno cadere secondo criteri im-possibili da precisare appieno»21. Nello specifico, il caso ha, dunque, potuto essere in parte responsabile dell’oblio, ma, come continua l’Ortalli, a Bologna si affermò un «e-lemento potenzialmente distruttore delle testimonianze storiografiche più risalenti», cioè la presenza di un testo capace di mettere in ombra tutto ciò che lo aveva prece-duto22, divenendo il canone storiografico per ogni narra-zione successiva, mentre la tradinarra-zione precedente e la co-eva perdco-evano ogni possibilità di affermarsi e, dunque, di essere tramandate23. Ma non solo. Hoc est principium de-structionis Bononiae: così inizia il Serventese dei Gere-mei e Lambertazzi, poemetto anonimo risalente all’inizio del XIV secolo24 che narra con toni dolenti le fasi terribili della perdita dell’armonia fra le parti cittadine a partire dalla seconda metà del Duecento e la conseguente pro-gressiva perdita della libertas che era stata il simbolo del

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