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Lo scambio delle Principesse sul fiume Bidassoa (canto X)

Il decimo canto descrive la salita di Adone dall’isola di Cipro al mondo celeste, dove si consumerà “un’esperienza conoscitiva esemplare”83. Dopo aver visitato il Cielo della Luna, i due amanti salgono al cielo di Mercurio, e lì vengono scortati fino ad una ricca ed ampia loggia nel cui centro si trova un immenso mappamondo, «dove si scorgono tutti gli accidenti dell’universo ed in particolare le moderne guerre della Francia e dell’Italia84»:

Vasto edificio d’ingegnosa sfera

reggea, quasi gran mappa, un piedistallo, che s’appoggiava ad una base intera

tutta intagliata del miglior metallo (CLXVIII, 1-4).

Attraverso l’espediente del mappamondo Marino ripropone, con una veste inedita, una costante strutturale sia del poema eroico che del romanzo cavalleresco: la narrazione, sotto veste di profezia, dei fatti più salienti della storia contemporanea, in particolare francese e piemontese.

Venere e Adone vengono fatti accomodare da Mercurio davanti ad una sfera e ai loro occhi si apre lo spettacolo del mondo. Le suggestioni che nascono dalla lettura di questa scena, descritta sullo scorcio del canto, sono molteplici; proveremo a riflettere su alcune di esse, prima di analizzare l’episodio festivo raccontato in questo canto.

Artefice materiale del mappamondo, che è il frutto dell’imitazione di un’idea preesistente, è il dio Mercurio, il quale è affidatario dell’imperscrutabile disegno della Natura e del “gran fattor sovrano”:

– Questa (dicea) sovramortal fattura, laqual confonde ogni creato ingegno, opra mirabil è, ma di Natura

83

Cfr. il commento di G. POZZI, in G.B. MARINO, Adone, cit. p. 436, vol. II.

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e di divin maestro alto disegno. L’artefice di tanta architettura

che d’ogni altro artificio eccede il segno fu questa mia, del gran fattor sovrano, benché imperfetta, imitatrice mano (CLXX)85.

La Natura in quanto tale e la storia delle vicende umane, passate, presenti e future (l’occasione è quella di una falsa premonizione) rappresentano la materia di cui è composta la sfera:

onde di quante cose o buone o ree

passate ha il mondo in qualsivoglia etade e di quante passar poscia ne dee

per quante ha colaggiù terre e contrade, qui son le prime e originarie idee

dove scorger si può ciò che v’accade (CLXXV, 1-6)86.

In questo modo il momento dell’invenzione della mirabile sfera, ovvero, in senso retorico, la fase del reperimento e della selezione del materiale di cui questa sfera deve essere composta, finisce per coincidere con l’atto stesso della disposizione e dell’ordinamento nello spazio di tale materiale:

ma quei ch’è sol tra noi fabro perfetto del bel lavor l’invenzion m’aperse e ’l secreto mi fè facile e lieve

di raccorre il gran mondo in spazio breve (CLXXI, 5-8).

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Sulla natura della sfera del X canto si interroga anche MARIE-FRANCE TRISTAN, in La scène de

l’écriture. Essai sur la poésie philosophique du Cavalier Marin (1569-1625), Paris, Honoré Champion

Éditeur, 2002.

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Cfr. il componimento nella Galeria, Mirò quaggiù dal Cielo il sommo Giove, dove Marino ripropone lo stesso rapporto di emulazione, artificio-natura, nell’opera di Archimede (Così Giove esclama di fronte all’opera dello scienziato: «Tanta è nel senno umano arte e possanza, Ch’imitandomi ancor, quasi

L’ingegnosità dell’autore della “macchina”, e quindi per metonimia l’ingegnosità della macchina stessa (ricordiamoci della definizione iniziale di ingegnosa

sfera, CLXVIII, 1), sta nell’aver saputo ricostruire fedelmente in scala ridotta tutta quanta la varietà che caratterizza il macrocosmo e nell’aver saputo ricomporla ordinatamente all’interno di una struttura unitaria e finita. Da questa nozione di ingegnosità scaturiscono di conseguenza gli effetti di straniamento e sorpresa, da cui deriva, in ultima fase, il piacere dello spettatore:

ma dove un tal miracolo si lesse o chi senno ebbe mai tanto profondo, che compilar, compendiar sapesse

la gran rota del tutto in picciol tondo? (CLXXIV, 1-4)87.

In appena quattro versi, giocando sull’ambiguità linguistica, Marino accumula una complessità di significati, che crea dei problemi sul piano esegetico. Ci troviamo di fronte ad un canonico esordio in cui l’oratore accattiva i propri ascoltatori facendo leva sulla eccezionalità della materia proposta. I termini lesse, compilar, compendiar, che appartengono normalmente alla sfera semantica della speculazione, della parola e della scrittura, qui sono impiegati metaforicamente per descrivere l’atto pratico della fabbricazione della macchina.

L’uso dei tre verbi in questo contesto complica il senso di tutta la costruzione artificiosa ed insinua il forte sospetto che Marino, attraverso la figura di Mercurio, non a caso l’alto inventor dela celeste lira, stia parlando proprio della sua poesia («O nunzio divin, tu che sai tante Meraviglie formar nove e leggiadre», si legge ai versi 3-4 dell’ottava CLXVI). Viene immediatamente da chiedersi quanto nell’immagine del

picciol tondo (v. 4) riecheggi la metafora del picciolo mondo del noto Discorso II dell’arte poetica, dove Tasso elabora una mediazione tra il precetto aristotelico

dell’unità di azione e l’esigenza del poeta di dilettare i gusti così isvogliati dei lettori

m’avanza?»). Della Galeria si è consultata l’edizione a cura di Marzio Pieri, Padova, Liviana, 1979, p.155.

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Cfr. anche i versi 3-4 dell’ottava CLXXII: dì se vedesti o s’esser può che sia istromento maggior di meraviglia.

moderni attraverso una complessità episodica, che pure, secondo i precetti aristotelici, sia tutta ricompattata nella saldezza unitaria dell’insieme dell’opera:

peroché, sì come in questo mirabile magisterio di Dio, che mondo si chiama, e ’l cielo si vede sparso o distinto di tanta varietà di stelle […], l’aria e ’l mare pieni d’uccelli e di pesci, e la terra albergatrice di tanti animali […] ruscelli e fonti e laghi e prati e campagne e selve e monti […]; con tutto ciò uno è il mondo che tante e sì diverse cose nel suo grembo rinchiude, una la forma e l’essenza sua, uno il nodo dal quale sono le sue parti con discorde concordia insieme congiunte e collegate […]; così parimente giudico che da eccellente poeta (il quale non per altro divino è detto se non perché, al supremo Artefice nelle sue operazioni assomigliandosi, della sua divinità viene a partecipare) un poema formar si possa nel quale, quasi in un picciolo mondo, qui si leggano ordinanze d’esserciti, qui battaglie terrestri e navali, qui espugnazioni di città, scaramucce e duelli, qui giostre, qui descrizioni di fame e di sete, qui tempeste, qui incendii, qui prodigii […]; ma che nondimeno uno sia il poema che tanta varietà di materie contegna, una la forma e la favola sua, e che tutte queste cose siano di maniera composte che l’una l’altra riguardi, l’una a l’altra corrisponda, l’una da l’altra o necessariamente o verisimilmente dependa: sì che una sola parte o tolta via o mutata di sito, il tutto ruini88.

In questa gara di emulazione con Tasso l’ambizione di Marino raggiunge quasi la punta del paradosso: se il poeta della Gerusalemme, infatti, si impegnava a suggerire la varietà del mondo attraverso un ampio spettro di episodi, eventi e temi (in sostanza i

topoi della poesia epica), nell’Adone il mappamondo ha il compito di essere addirittura

esaustivo, di comprendere cioè, miracolosamente, tutto il creato («di raccorre il gran mondo in spazio breve», CLXXI, 8). Il dio in prima persona rivendica l’eccezionalità

della propria operazione dichiarando ai suoi ascoltatori:

Al magistero mio sol si concesse far un vero model del maggior mondo, loqual del mondo insieme elementare,

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TORQUATO TASSO, Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, a cura di Luigi Poma, Bari, Laterza, 1964, pp. 35-36. Cfr. RASI DONATELLA, Diacronie cinquecentesche. “Unità” e “varietà”,

“verità” e “finzione” nella “favola epica”, in Quasi un picciolo mondo. Tentativi di codificazione del genere epico nel Cinquecento, a cura di Guido Baldassarri, Milano, Edizioni Unicopli, 1982; BARBERI

nonché sol del celeste, è l’essemplare (CLXXIV, 5-8).

In sostanza, però, la sfera ingegnosa reifica quel rapporto tra macrocosmo e microcosmo che già Tasso aveva descritto a proposito del poema epico, inteso come teatro della varietà mondana. Marino prende alla lettera un’immagine topica e letteralmente la ricostruisce all’interno del testo, dando vita non ad un metaforico

picciolo mondo, ma ad un reale modello del cosmo, emblema del poema stesso,

attraverso il quale la storia entra di diritto nella finzione poetica del testo:

Composta è con tant’arte e maestria ch’al globo universal si rassomiglia; mirar nel cerchio puoi limpido e terso

quanto l’orbe contien del’universo (CLXXII, 5-8)89.

Gli oggetti, gli uomini e gli avvenimenti descritti da Mercurio posseggono, in nome della natura strettamente teatrale della sfera, la piena legittimità per sfilare davanti ai due spettatori con quella stessa evidenza che Tasso raccomandava per la creazione dei poemi epici:

Stando che lo stile sia un instrumento co ’l quale imita il poeta quelle cose che d’imitare si ha proposte, necessaria è in lui l’energia: la quale sì con le parole pone innanzi a gli occhi la cosa che pare altrui non di udirla, ma di vederla.

E tanto più nell’epopeia è necessaria questa virtù che nella tragedia, quanto che quella è priva dell’aiuto e degli istrioni e della scena.90

Il ruolo di Mercurio è duplice: egli è allo stesso tempo l’artefice materiale che ha fabbricato la sfera e colui che (almeno fino all’ottava CCLXIII, quando il dio passerà il

testimone alla voce narrante dell’autore che descriverà la guerra degli Uscocchi), come un istrione teatrale, fa da intermediario e interprete per prestare le proprie parole alle immagini che compaiono sulla scena:

Torquato Tasso e la cultura estense. Atti del convegno di Ferrara 1995, a cura di Gianni Venturi,

Firenze, Olschki, 1999, pp. 43-54;

89

Così divisa e del’istorie ignote

svela il fosco tenor lo dio d’Egitto (CCLX, 1-2)91.

Possiamo dire, pertanto, che l’enargeia della scena, consigliata da Tasso, è assicurata da quella che abbiamo definito la reificazione della metafora teatrale.

Gli strumenti retorici e stilistici con cui Mercurio accompagna le immagini che compaiono sulla sfera e le traduce in discorso letterario sono gli stessi che Guido Baldassarri definisce specifici degli inserti ecfrastici che costellano le produzione epica e cavalleresca da lui presa in esame: l’intero brano è caratterizzato, infatti, dall’uso massiccio delle figure della ripetizione e dell’enumerazione, dei verba videndi, dell’asindeto e degli indicatori spazio-temporali92. Lo scarto rispetto alla norma in Marino è diretta conseguenza della novità del supporto su cui appaiono le immagini descritte da Mercurio, il cui ruolo di interprete è anch’esso topico all’interno dell’ecfrasis: quella che è la naturale tendenza della letteratura a trasformare il presunto oggetto figurativo in un flusso narrativo, cioè nell’animare le figure fisse dell’arte grafica e nel trasformare la pittura di un singolo momento in una narrazione di azioni successive, senza attenzione alla staticità dell’oggetto descritto93, in Marino è legittimata e anzi resa necessaria dalla scelta della sfera, sulla quale gli oggetti da descrivere si presentano già di per sé come azioni in movimento.

Mercurio, dunque, illustra il contenuto di questo teatro meraviglioso procedendo dal generale al particolare: con un meccanismo di messa a fuoco il dio enumera, infatti, gli elementi prima celesti e poi terrestri che compongono il cosmo94, fino a giungere ad individuare la scena dell’isola di Cipro, e su questa, con un effetto di mise en abyme, il prato su cui Adone e Venere si sono conosciuti ed il palazzo in cui hanno consumato il loro amore («conosci il prato ove perdesti il core? È quello il tetto ove t’accolse

90

T. TASSO, Discorsi dell’arte poetica, cit. p. 47.

91

Cfr. anche i versi 5 e 6 dell’ottava CCXXXI: E, se pari l’udir fusse ala vista risonar v’udirei timpani e tube.

92

G. BALDASSARRI, Ut poesis pictura. Cicli figurativi nei poemi epici e cavallereschi, in La corte e lo

spazio: Ferrara estense, a cura di Giuseppe Papagno e Amedeo Quondam, Roma, Bulzoni, 1982.

93

Cfr. oltre al sopracitato saggio di Baldassarri anche JAMES A. W. HEFFERNAN, Ekphrasis and

Representation, in «New Literary History», 22, n. 2 (1991), pp. 297-316.

94

Amore?»95). Mercurio paragona il brulichio terrestre, la varietà e la complessità mondana ad un teatro, in cui le combinazioni delle trame si moltiplicano:

Grande è il teatro e ne’ suoi spazi immensi

chi langue in pena e chi gioisce in gioco (CLXXXIII, 1-2).

Qui Marino sta riproponendo l’antico topos del mondo come teatro, in cui gli uomini rappresentano, davanti ad uno spettatore celeste, la loro parte nella buona e nella cattiva sorte secondo infinite possibili soluzioni96. Un caso cronologicamente vicino all’Adone, ad esempio, è rappresentato dalla Gerusalemme liberata, dove, all’inizio del XIV canto Ugone mostra in sogno a Goffredo la Terra vista da una prospettiva abissale. L’immagine della terra vista dai cieli, scaturita da «quell’atmosfera di sogno e di estasi che avvolge ogni cosa97», offre a Tasso il mezzo per parlare della follia umana sempre alla ricerca, nei fatti di guerra e d’amore, di un’illusoria grandezza98:

China – poi disse (e gli additò la terra) – gli occhi a ciò che quel globo ultimo serra.

Quanto è vil la cagion ch’a la virtude umana è colà giù premio e contrasto!

95

Ottava 182, vv. 5-8:

Ve’ le rive di Cipro ambiziose d’una tanta bellezza abitatrice; conosci il prato ove perdesti il core? è quello il tetto ove t’accolse Amore?

Sul concetto di mise en abyme cfr. il libro fondamentale di LUCIEN DÄLLENBACH, Il racconto

speculare. Saggio sulla mise en abyme, Parma, Nuova Pratiche Editrice, 1994 [tit. orig. Le récit spéculaire. Essai sur la mise en abyme, Paris 1977].

96

Cfr. ERNST ROBERT CURTIUS, Letteratura europea e Medioevo latino, Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1992 [tit. orig.: Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, Bern 1948], pp. 158-164; MARIO COSTANZO, Il Gran Theatro del mondo, in Dallo Scaligero al Quadrio, Milano, Scheiwiller, 1961. Sulla metafora del mondo come teatro nel Barocco cfr. J. ROUSSET, La letteratura dell’età

barocca in Francia. Circe e il pavone, Bologna, Mulino, 1985 [tit. orig.: La littérature de l’âge baroque en France. Circé et le paon, Paris 1981], in particolare le pp. 36-38; J. A. MARAVALL, La cultura del Barocco, cit., pp.289-341. Per l’operazione compiuta dal Marino cfr. SUSANNA PETERS N., The Anatomical Machine: A Representation of the Microcosm in the “Adone” of G.B. Marino, in «Modern

Language Notes», 88 (1973), pp. 95-110.

97

GIOVANNI GETTO, Lo spettacolo del mondo e la poesia della «Gerusalemme», in «Lettere italiane», luglio-settembre 1960, pp. 247-267, p. 249.

in che picciolo cerchio e fra che nude

solitudini è stretto il vostro fasto! (G.L., XIV, IX, 7-8; X, 1-4)99.

Le pagine di Maravall sul senso di forte relativismo che incombe sulla coscienza barocca illustrano l’elaborazione condotta dall’uomo secentesco (in particolare spagnolo) sui grandi temi della percezione della realtà. «Il topos della teatralità del mondo – scrive lo studioso – si formula anche in modo da accentuare e porre in risalto la fondamentale contraddizione della realtà100» e il senso di inalienabile confusione tra verità e menzogna, ombra e realtà.

Nel ripercorrere le linee fondamentali di questa contemplazione dall’alto, già di ascendenza ciceroniana101, Marino non propone una semplice visione dell’esistente, ma riproduce “in vitro” l’esistente stesso attraverso il congegno della sfera. In questo modo la dimensione artificiosa della visione del decimo canto investe di nuovi significati antichi motivi e dà origine a nuove soluzioni. Mercurio ha realizzato per i suoi spettatori d’eccezione uno strumento attraverso il quale l’universo appaia chiaramente sub specie

theatri. Come se si trattasse di una reale platea, nello spazio che circonda la sfera sono

stati posizionati dei seggi d’oro da cui lo spettacolo risulta comodamente ed interamente visibile:

e d’aurei seggi intorno intorno avea

per risguardarla un commodo apparecchio (CLXIX, 3-4).

Già una volta, nel quinto canto, Adone e Venere hanno assistito ad una rappresentazione teatrale seduti su simili seggi d’oro «donde quanto si fa tutto si

98

Da non dimenticare anche l’altrettanto emblematico episodio della Luna del XXXIV canto dell’Orlando furioso, per il quale cfr. CESARE SEGRE, Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle

immagini dell’aldilà, Torino, Einaudi, 1990, pp. 103-114.

99

Da notare inoltre che il picciolo cerchio tassiano appare particolarmente vicino al già citato picciol

tondo mariniano.

100

A. MARAVALL, La cultura del Barocco, cit., p. 324.

101

Cfr. il già citato G. GETTO, Lo spettacolo del mondo; per i precedenti del passo tassiano (Somnium

Scipionis di Cicerone; il XXII canto del Paradiso di Dante; l’Africa del Petrarca; il Teseida del

Boccaccio) cfr. dello stesso autore, Interpretazione del Tasso, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1951, in particolare le pp. 310-313.

scerne» (canto V, CXXIV, 1-2); e anche in quel caso artefice dell’invenzione, regista, corago e attore del prologo era stato Mercurio (cfr. canto V, CXXII e CXXIV)102.

Nel quinto canto i due spettatori si trovavano immersi in una macchina teatrale che riproponeva il modello terrestre sia nella sostanza che nella forma («Qui per cento finestre immensa sala Di polito cristallo il giorno prende E in un bel quadro di mosaico terso La figura contien del’universo» CXII, 5-8); nel decimo, all’inverso, i due spettatori hanno davanti un congegno, altrettanto articolato ed ingegnoso, che smaschera la natura teatrale del mondo.

Il modello cosmico del decimo canto rivela la natura meccanicistica dell’universo stesso e vive grazie ad essa. Per dirlo con le parole di Susanna Peters la

nobil machina del decimo canto è «a kind of world-machine which functions in much

the same fashion as the image of the world as theatre-machine103». Il linguaggio meccanicistico utilizzato in queste ottave ha la prerogativa di descrivere contemporaneamente e senza soluzione di continuità sia il movimento del macrocosmo che quello del suo modello:

Eccoti là sotto il più basso cielo il foco che sempr’arde e mai non erra; mira del’acque il trasparente gelo, che’l gran vaso del mar nel ventre serra; mira del’aria molle il sottil velo,

mira scabrosa e ruvida la terra, tutta librata nel suo proprio pondo,

quasi centro del ciel, base del mondo (CLXXVIII).

Marino non si lascia sfuggire l’occasione di ricorrere, sebbene in modo quasi sbrigativo, ad un altro motivo, che nasce dalla stessa percezione conflittuale da cui scaturisce il topos del teatro universale, quello cioè della vita come sogno104:

102

Cfr. il capitolo IV di questa tesi.

103

S. PETERS N., The Anatomical Machine, cit., p. 105.

104

Qual’uom che pigro e sonnacchioso dorme, giace col corpo insu le piume molli,

con l’alma del pensier seguendo l’orme, varca fiumi e foreste e piani e colli, tal, rivolgendo Adon gli occhi ale forme, dela cui vista ancor non son satolli, non sa se vede o pargli di vedere

tra lumi ed ombre imagini e chimere (CCLXXXII).

Nelle ottave conclusive il ritratto di Adone, presentato come un viaggiatore onirico che osserva il mondo da una prospettiva privilegiata, mette in risalto l’ambiguità dello statuto della sua visione. La reale consistenza delle immagini, di cui il giovane è spettatore, rimane incerta proprio per la natura stessa della sfera. I personaggi che compaiono su questa “magica macchina” hanno la presunzione di apparire come reali, con la consistenza di attori («t’ho voluto mostrar come presenti, Accioché miri alcun fatto onorato Dele più degne e gloriose genti», CCLXXXIV, 2-4), ma posseggono la stessa

natura dei sogni («imagini e chimere», CCLXXXII, 8; «simulacri accolti Nel mondo

cristallino», CCLXXXIII, 1-2) anche se tali non sono.

Nell’ambito dei poemi narrativi, scrive Pozzi105, la presenza della palla di cristallo, come strumento di divinazione, costituisce una soluzione inedita, mentre rappresenta un motivo frequente nelle fiabe popolari. La sfera specchiante di diamante, acciaio e cristallo («Forma avea di un gran pomo e risplendea Più che lucente e ben polito specchio», CLXIX, 1-2) è indubbiamente legata al ricordo delle arti magiche per la premonizione del futuro, come la cristallomanzia e l’arte berillistica, di cui ci rimangono testimonianze di alcune pratiche, tra il serio e il ludico, svoltesi persino alla corte di Caterina de’ Medici e di Enrico IV106.

105

Adone, cit., vol. II, pp. 453-454.

106

Agrippa d’Aubigné, ad esempio, poeta e storico alla corte parigina, si compiaceva, per i suoi divertimenti galanti, di fare lo stregone dilettante e per questo si serviva di specchi, strategicamente