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Lo spazio abissale dell'incontro con l'Altro

2.1. Shall I let them in?

Con una partenza incerta, una lettura in controluce di due testi e un graduale ma non uniforme delinearsi di una struttura attraverso cui poterli interpretare, il capitolo appena concluso ha presentato un reading che, come tale, è stato inevitabilmente anche un

misreading; come ogni traduzione, un tradimento. In particolare, nei confronti di Scented Gardens for the Blind si è operato con un'economia che ci ha permesso una

riduzione di un'opera complessa a un modello il quale, per quanto dinamico e aperto – per lo meno così ci appare – non può comprendere la totalità del testo. Il nostro è stato un taglio grossolano; la nostra una chirurgia approssimativa che ha lasciato suture aperte e cicatrici ben visibili e è da questi tagli che vorremmo ripartire.

In particolare, appare piuttosto evidente la cesura di un personaggio, Edward Glace, che è rimasto tagliato fuori dalla circolarità aperta della nostra lettura. Si potrebbe parlare forse di una castrazione alla luce della mascolinità che si condensa attorno a lui: i ruoli di marito, padre, amante, ascoltatore – preferibilmente a distanza di sicurezza – del suono delle generazioni, e altre caratteristiche che avremo modo di ricordare determinano il suo spazio di uomo spregevole («I can't help being a squalid personality»; «[He] lived […] by remote control. Also he liked power») ma dall'apparenza mite e ordinaria («an apparently harmless human being.[…] “He would not hurt a fly”»).177 Data la mediocrità del personaggio in questione forse si tratta di un

accumulo eccessivo di ruoli rispetto alla capacità del suo spazio ma questo eccesso, così come il suo impulso ad andare “lontano” nel tempo e nello spazio, non lo porta ad andare “oltre”; non lo porta a non-coincidere con se stesso. Eppure Edward si mette in viaggio; fedele al suo metodo, abbandona la sua famiglia e la Nuova Zelanda, suo paese di origine, per portare a termine le sue ricerche genealogiche sulla famiglia Strang. Con il suo viaggio di andata e ritorno da un emisfero all'altro vorrebbe infatti delineare limpidamente la sequenza delle generazioni mentre la sua stessa personalità sembra distendersi in un'altrettanto rassicurante linearità, allungandosi tra un punto A e un punto B.

Qualcosa ci spinge a seguirlo; a seguire la sua traccia. Per quanto spregevole, ci sentiamo attratti da lui, ci identifichiamo con lui nella pulsione a muoversi e condividiamo il suo desiderio di linearità. Da un lato percepiamo la pericolosità del suo

movimento, potenzialmente in grado di mettere in crisi la circolarità che abbiamo tracciato, e dall'altro capiamo la sua esigenza di attenersi a paradigmi spazio-temporali di tipo tradizionale. Edward è una scheggia che sfugge al controllo, un vettore centrifugo, un parassita, uno stercorario à la Uncle Blackbeetle, o forse un bug che s'installa e che penetra negli interstizi della nostra interpretazione. La sua potenziale distruttività rivela però anche un aspetto positivo: ci mette di fronte a una linearità “altra” che perseguita fantasmaticamente il diagramma circolare della nostra lettura di

Scented Gardens for the Blind; scopriamo così che la sua linearità è sempre stata

coappartenente alla struttura del romanzo. La sua irriducibilità porta con sé un'apertura feconda in quanto apre uno spazio aporetico tra la retta e il cerchio ed è proprio questo spazio che ci proponiamo di esplorare; è proprio in questa faglia che vorremmo scavare in questo secondo capitolo perché forse è questa apertura che ci consente di vivere e muoverci in uno spazio, uno spielraum sempre però già abitato e posseduto dalla sua stessa impossibilità.

A ben vedere, in termini fenomenologico-esistenziali, questi due problemi, il vivere e il muoversi, sono soltanto due diverse manifestazioni di un essere-nel-mondo. Di conseguenza, operando attraverso un'economia di sostituzioni non sinonimiche, si potrebbe sovrapporre alla coppia stasi-movimento quella identità-alterità e anche in questo caso i due termini potrebbero essere ricondotti alla stessa apertura o, per meglio dire, alla stessa aporia che in un unico momento e movimento – contemporaneità impensabile e simmetria impossibile – genera l'Io e l'Altro e li inghiotte, facendo perdere traccia della loro origine comune, ma senza mai ridurli completamente alla stessa linea di faglia.

C'è della follia, elemento in quanto tale impossibile da quantificare e qualificare, nel progetto di una topografia di quei «frightening perpetual shiftings of relationships which bring immeasurable faults and folds into the human landscape»178 che caratterizzano i rapporti umani, così come è folle una linea retta – folle pensarla – che porti incontro all'Altro; è folle seguirla nel tentativo di sfuggire a me stesso/a e contemporaneamente ritrovarmi. Identità e alterità – e ci si consenta, per un momento, l'arbitrio di ignorare il carico delle sedimentazioni che i due termini trascinano dietro di sé, ovvero la traccia che lasciano cancellandola – eccedono e s'iscrivono nello spazio

dei romanzi di Frame, in particolare quelli che raccontano di viaggi e di incontri, ci restituiscono scatti mossi e spesso in condizioni di luce non ottimali di una fluidità di persone e tracciano mappe incomplete dei confini entro i quali gli individui s'illudono di contenere se stessi.

Possediamo e siamo parlati da un solo linguaggio, quello della tradizione, ed è per questo che il titolo del capitolo promette lo spazio dell'etica, perché è all'interno de, e a partire da, i suoi confini che la filosofia iscrive la relazione con l'Altro. Torniamo dunque sulle tracce di Edward Glace che incontriamo innanzitutto nella sua alterità rispetto al diagramma di Scented Gardens for the Blind da noi tracciato. Chiediamoci ora se la linearità del suo progetto sia davvero in grado di mettere in crisi la struttura circolare della nostra operazione ermeneutica.

Si potrà rimanere perplessi di fronte all'inspiegata e, in una certa misura, inverosimile illimitatezza delle sue risorse economiche («his income was perpetual», p. 102); la sua ricchezza, si dice, proviene «from a secret source» (p. 110) e gli consente di portare avanti i suoi studi muovendosi tra la Nuova Zelanda e l'Inghilterra senza curarsi troppo dei costi. Tuttavia, ciò che ci stupisce maggiormente è la metodologia applicata nelle sue ricerche: «he began his research among the earliest records of the Strang family» (p. 42). Invece di risalire verso il passato, il suo lavoro segue un'impeccabile linearità, ab ovo, verso il presente. Crediamo si tratti di un caso unico nell'ambito della genealogia; per di più il punto di partenza della sua ricerca, l'origine incerta della famiglia Strang, rimarrà nell'oscurità per tutto il romanzo; non verrà mai rivelato, al pari dell'origine delle sue risorse economiche.

Altra anomalia che si può riscontrare nel suo metodo è data dall'attenzione riservata agli Strang trapassati mentre esita ad entrare in contato con i membri della famiglia ancora in circolazione: «Was it wise of him to have moved thus from the dead to the living? Was his concern for the human race really so deep that he could now face the living, and after that, the unborn without disaster to himself?» (p. 103). Nei piani di Edward, tracciare la genealogia di una famiglia ordinaria come gli Strang dovrebbe servire a salvare la razza umana dall'annientamento ma tale nobile e ambizioso progetto è compromesso dalla sua paura a andare incontro all'alterità. Si dice infatti: «He was afflicted with an enormous appetite for human news» (p. 110); allo stesso tempo il contatto umano lo turba profondamente: «So this was humanity – tension, disagreement,

discomfort, the common cold. […] Humanity tempted him, in spite of its revoltingly persistent attempts to play at being pigs instead of people» (p. 115). Il conflitto tra queste due pulsioni, quella ad andare incontro e quella ad allontanarsi, non è però produttivo, lo porta anzi a sprofondare nell'abisso della pazzia. Di fronte a tanta umanità o, per meglio dire, di fronte alla spinta a entrare in contatto e a immergersi in tanta umanità, Edward cade preda di una singolare ossessione, quella di costruire una sedia che gli permetta di isolarsi dal resto degli uomini e di contemplare con distacco i progressi della sua ricerca: «a throne, a little house, a safe place from which to consider the prospect of civilization and its triumph or ruin, a place of immunity, inaction, the body disposed of» (p. 166).

Per trovare almeno un risultato positivo nell'ambito dei suoi studi, che di fatto non lo portano a rivelare alcuna verità o significato occulto riguardo il destino della razza umana, bisognerà riferirsi all'incontro con Georgina, una Strang di Londra:

Georgina Strang had reminded him of his wife […] yet there was little resemblance between them […] there seemed to be a secret likeness between all people, […] as if between the entire human race there was this constant invisible exchanging and bargaining, transmitting of smiles and whims and gestures, in an attempt to efface all individual identity, to escape from the responsibility of owning unique essence and a name.

“A network of deceit,” Edward said. “We can't stand alone. We have to be imitating, bargaining, transacting every part of ourselves” (pp. 127-128)

Questa è probabilmente la rivelazione più significativa che ottiene Edward, la scoperta di un network of deceit. Quella degli Strang – famiglia di estranei, stranieri, e “strani” anche nel nome – è un'alterità che turba («the Strangs haunted him», p. 66) e che può far tremare l'identità del singolo proprio perché, paradossalmente, si mostrano nella loro (quasi) identità con ciò che è più familiare e, più in generale, rivelano un'inquietante rete di scambio che coinvolge l'umanità intera in un contrabbando di pezzi d'identità frammentarie. Nello steso tempo lo straniero porta nel nome un'alterità irriducibile, un fondo d'imperscrutabilità e illeggibilità che impedisce a chi lo incontra di collocarlo all'interno di un paradigma, come i mendicanti evocati da Vera Glace in una filastrocca che turbano i suoi ricordi d'infanzia:

Hark hark the dogs do bark,

The beggars are coming to town […]

Shall I let them in? […] I was afraid of them, and surely our house had no place fit for beggars. Surely they were difficult people to fit anywhere, for none of their measurements

were like ours! (pp. 52-53)179

D'altra parte anche Edward è straniero rispetto all'Altro; nell'incontro con gli Strang è lui l'estraneo alla porta che, inaspettato, aspetta sulla soglia il momento opportuno per entrare. La sua apparizione è inevitabilmente anche un'invasione.

Tutto questo ci porta a concludere che l'incontro con gli Strang presenta caratteristiche che rendono estremamente problematica una riduzione dell'alterità in un processo di Aufhebung; è impossibile elevarsi al di sopra del confronto con l'altro e fare chiarezza quando si è presi nella rete d'inganni e nel gioco di specchi di cui è fatto quest'incontro: «Edward leaned forward intently, and Mrs. Strang, seeing herself reflected three times in his rimless glasses, suddenly felt bewildered and strange» (p.119). Un soggetto diviso, replicato ed estraneo a se stesso non può essere semplicemente oggettivato e ricondotto ad un Io. A questo proposito, l'immagine riflessa di Georgina è qualcosa di più di un gioco di luce o di un inganno dei sensi; testimonia invece di una produzione di molteplicità incontrollabile che non sembra avere un'origine, né una fine, né un fine.

Edward incontra una prima Georgina o, per meglio dire, immagina sulla soglia della casa di lei l'incontro con una Strang fredda e distaccata. Georgina ha appena celebrato il funerale di del marito e sta traslocando: («the family was upset, they were moving somewhere – where? – they were refugees...», p. 120):

“I know, I know, you ‘somehow feel you are one of us’? Well you're not, Mr...” “Glace. Edward Glace.” […]

“I'm busy,” she said. “I'm mourning.” As if the state of mourning were one characterized by ceaseless activity (pp. 118-119)

A questa prima Georgina si sovrappone la Georgina reale, più cortese ma ancora più sbrigativa della prima nel liquidarlo. In conclusione, come ricordavamo, il risultato della sua indagine è piuttosto deludente:

179 Sottolineiamo l'importanza simbolica della figura del beggar, presenza estranea e inquietante che minaccia di rompe la sfera domestica e familiare. Oltre all'ascendente shakespeariano dei basest

beggars, evocati altrove nel romanzo (cfr. Scented Gardens, cit., p. 98), va ricordata anche la

declinazione neozelandese dello swagger (dal sostantivo swag che indicava il fardello caratteristico di questi personaggi ai margini del tessuto sociale). Se è vero che, come sottolinea Toby in The Edge of

the Alphabet, «they were a race that died with the goldfields» (Edge, cit., p. 436) di cui – un secolo

dopo la fine della corsa all'oro di metà Ottocento – si conserva solo la traccia nella leggenda popolare, la stessa Frame testimonia di un ritorno degli swaggers in corrispondenza con la grande depressione degli anni trenta del Novecento. Con il loro carico d'inquietudine, gli stessi versi citati da Vera ritornano infatti anche nei ricordi d'infanzia raccontati nell'autobiografia (cfr. An Autobiography, cit., p. 27 e p. 408).

He felt ashamed and depressed as Georgina Strang, adjusting her former pale mask, shut the door and left him standing feeling useless, on her doorstep.

So that was the Strang family, he thought angrily, saying to himself, Well? Well? What did you expect? (p. 127)

Edward non sembra riscuotere maggior successo con Clara Strang di Dunedin, l'unico altro membro della famiglia che incontrerà di persona e che, paradossalmente, gli è completamente estranea in quanto Strang e allo stesso tempo vicina, in quanto vive in quella Nuova Zelanda da dove Edward è partito e dove torna soltanto alla fine del romanzo. Quando Edward va a farle visita, la scopre impegnata in un'occupazione che ha dell'ironico: Clara ospita a casa sua dei bambini («I am taking in the orphans from the Children's Homes; being a foster parent […] a lot of gratitude you get, and a lot the authorities pay for the upkeep», p. 194) e la cosa ha il sapore di una beffa per chi, come Edward, si è sforzato di tenere la famiglia Strang all'interno dei confini rassicuranti di una ricerca genealogica. In tal senso Clara – il suo nome di battesimo investito da una certa luminosità e allo stesso tempo fonte di luce nella sua chiarezza – oltrepassa i confini all'interno dei quali la genealogia iscrive gli individui nel loro cognome. A suo modo Clara si oppone alla riduzione di una strangeness alla familiarità di un nucleo tradizionale che un Glace possa tracciare e bloccare nel ghiaccio della conoscenza.

Un'ulteriore annotazione su Clara confermerà l'impraticabilità di un approccio dialettico all'alterità che caratterizza il caso degli Strang. Così come la sua parente inglese, anche Clara ha un suo doppio o forse sarebbe meglio dire il suo riflesso, oppure il riflesso di un riflesso, perché, a ben vedere, gli Strang, come i Glace, sono poco più che simulacri sulla scena dell'allegoria di Frame. In questo senso, l'ultima replica dell'alterità si materializza alla fine del romanzo sotto le spoglie di Clara Strang, una paziente della clinica in cui è ricoverata anche Vera. Anche la seconda Clara si prende cura dell'Altro ma, a differenza della prima, sembra lo faccia in una dedizione sincera che le permette stabilire un contatto con Vera Glace, la quale è invece completamente alienata nei confronti del resto dell'umanità. Nel complesso dunque Clara e le sue repliche ci dicono qualcosa sull'importanza dell'Altro e sulla possibilità – o impossibilità – d'incontrarlo; a differenza di Edward Glace che rimane “congelato” tra l'impulso a possedere un'alterità e la repulsione che prova nei confronti dell'umanità, è proprio la dinamica di non-coincidenza rispetto a sé del personaggio di Clara che ci porta a scoprirla nel suo prendersi cura dell'Altro.

2.2. This undesirable property

Il viaggio di Edward si rivela dunque inconcludente nonostante in apparenza sembrasse ristabilire un vero punto di partenza e riaffermare la possibilità di un vero percorso inteso in senso lineare. Al contrario, il suo caso dimostra l'estrema instabilità di coppie quali vicino-lontano, familiare-estraneo, o possesso-conoscenza. Probabilmente lo slogan che sintetizza più efficacemente il crollo di queste certezze può essere ritrovato in una frase pronunciata da Daphne Withers in Owls Do Cry, proprio a proposito di spostamenti e ricerche: «if I travel a hundred miles to find treasure, I will find treasure. If I travel a hundred miles to find nothing, even if I bring money with me, to lay down in exchange, I will find nothing».180 Continuiamo dunque a riflettere sull'esperienza di

Edward chiedendoci perché la sua impresa fallisca così miseramente; come si ricorderà infatti il romanzo termina con un attacco nucleare all'Inghilterra, a dimostrazione del fatto che, se la profezia di Edward sull'arrivo imminente di una catastrofe era corretta, le soluzioni da lui cercate si sono rivelate inefficaci.

Da un certo punto di vista ci sembra che la sua missione fosse destinata a fallire perché, dietro una linearità apparentemente rassicurante, era viziata e “posseduta” in partenza da un passo abissale; una discesa nell'abisso che separa l'Inghilterra dalla Nuova Zelanda, la metropoli dalla colonia e il centro dagli antipodi. Opposizione singolare quest'ultima perché reciproca soltanto in teoria: è vero che per gli Antipodi il centro è effettivamente “là” e “dall'altra parte” – “sotto i piedi” – ma difficilmente in Nuova Zelanda sentiremo localizzare Londra agli Antipodi. La madrepatria è piuttosto

Home, casa con la H maiuscola, anche per chi è nato in Nuova Zelanda e non ha mai

lasciato la colonia. Anche un personaggio cinico come il padre di Frame nell'autobiografia sembra non resistere al richiamo nostalgico di questa definizione:

“So you're going home,” he said.

I was startled. I had never heard him call the Northern Hemisphere home; he had usually laughed at people who still talked of the United Kingdom as Home; I had heard him say scornfully, “Home my foot. Here's home right here. Or I'll go hopping sideways to Puketeraki.”181

Il fatto che, almeno fino alla metà del Novecento, la mobilità di larghi strati della popolazione fosse estremamente bassa tanto che persino gli spostamenti da un'isola all'altra o fuori dalla propria provincia nativa erano verosimilmente ridotti al minimo,

180 JANET FRAME, Owls, cit., p. 259.

non sembra aver costituito un deterrente per la diffusione e la permanenza di quest'uso linguistico.182 La “casa”, che in quel sentire comune neozelandese di cui si ha eco anche

nell'opera di Frame è il punto di partenza di ogni narrazione, è sin da subito divisa tra

Home e home, due termini così simili eppure così distanti nella gerarchia che li separa e

li ordina. Inoltre, a ben vedere, ciascuno dei due termini è a sua volta atomizzato in un pulviscolo di divisioni interne che non possono essere trascurate se non a rischio di generalizzazioni approssimative. Anche sotto questo aspetto Frame si dimostra osservatrice attenta: si pensi alle profonde differenze che separano la North Island dalla

South Island in termini climatici e geografici, oltre che storici e culturali, sui quali

Frame riflette in A State of Siege (1966).183

Occorre essere cauti anche nel definire i contorni di una metropoli monolitica. Verosimilmente, per una famiglia come i Frame, Home poteva coincidere con le

Highlands scozzesi, così come è legittimo ipotizzare che per i molti neozelandesi di

origine scozzese l'identificazione di Londra con una Home non dovesse essere immediata. Probabilmente proprio l'immaginario e l'esperienza dell'Impero – si pensi ad esempio alla chiamata alle armi che la madrepatria rivolge ai Dominions per le due guerre mondiali – può aver agito da termine medio per fare di Londra “Il Centro”. D'altra parte, segni di una Home sono disseminati anche sul territorio antipode: l'architettura di Dunedin, nome celtico di Edimburgo, o quella di Christchurch sono esempi di un'espressa volontà di riprodurre nella colonia le caratteristiche – o l'idea che i coloni avevano di esse – del suolo natio che i migranti avevano lasciato. Si vedano anche i kilt e le cornamuse delle Scottish Societies, attivissime specialmente al sud e specialmente prima della seconda guerra mondiale, oppure si pensi a Cock of the North

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