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LO SPAZIO ESPOSITIVO COME NEGOZIAZIONE TRA INDUSTRIA E

MODELLI DI ALLOCAZIONE DEI PRODOTTI SUGLI SCAFFAL

I MODELLI COMMERCIAL

2.6. LO SPAZIO ESPOSITIVO COME NEGOZIAZIONE TRA INDUSTRIA E

DISTRIBUZIONE

Sebbene non possa essere annoverato tra i modelli empirici di allocazione dello spazio espositivo, riserviamo comunque per completezza di esposizione l’ultima parte del presente capitolo ad un accenno ai rapporti intercorrenti tra industria e distribuzione. Solitamente, i modelli di merchandising si concentrano sull’efficienza delle scelte strategiche dei retailer a livello di punto vendita e, al più, sull’incidenza che la domanda di mercato e le sue caratteristiche possono esercitare sulla produttività dell’assortimento. Finora, poca importanza è stata attribuita alla varietà di relazioni tra produttori, distributori e consumatori.

L’attività del retailer non si limita all’individuazione della migliore offerta di servizi commerciali alla clientela, della gestione più efficiente dello spazio espositivo per trarre maggiori ritorni finanziari o della gestione assortimentale ottimale che risponde ai cambiamenti evolutivi della domanda. Un retailer, infatti, ha anche il compito di vendere ai produttori lo spazio espositivo a sua disposizione. Per i produttori, lo spazio allocativo rappresenta una concentrazione di potenziali compratori del proprio prodotto, è quindi un’opportunità per raggiungere i consumatori finali. Per questo motivo, egli non potrà che essere favorevole a pagare al dettagliante un prezzo per poter esporre i propri prodotti in quel negozio. Il prezzo pagato dai fornitori sarà pari al margine lordo43 che il retailer può guadagnare allocando lo spazio espositivo ai prodotti dei suppliers. Per indurre il retailer a vendergli spazio espositivo, il fornitore può offrire un prezzo (o profitto lordo) per unità di spazio che eccede il costo- opportunità dello spazio in questione. Il costo-opportunità di unità di spazio corrisponde al profitto lordo che il retailer può ottenere allocando lo spazio all’articolo

43 L’uso della parola “lordo” al posto di “netto” ha senso soltanto se si assumono i costi operativi del retailer come fissi rispetto ai cambiamenti di mix di prodotto.

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più profittevole non ancora in assortimento, oppure alla combinazione ottimale di prodotti già stoccati e disponibili sugli scaffali. Il prezzo offerto dipende da alcuni fattori: (1) prezzo di vendita al dettaglio del prodotto (Pv), (2) margine percentuale (o mark up), (3) numero di unità che possono essere vendute in un certo periodo di tempo), (4) numero di unità di spazio necessarie per esporre una data quantità di prodotto. Il prezzo può essere espresso nel seguente modo:

Prezzo offerto per un’unità di spazio espositivo = Prezzo di vendita al dettaglio x Margine percentuale x

Unità vendute in un dato periodo di tempo Unità di spazio espositivo utilizzato

Un incremento del prezzo offerto dal produttore per un’unità di spazio può essere generato da un aumento del prezzo di vendita al dettaglio, del margine percentuale, del numero delle unità di prodotto vendute, così come da una riduzione di spazio destinato alla vendita del prodotto.

Nel vendere spazio espositivo ad un produttore, il retailer assume decisioni sulla base di un prezzo atteso, cioè del prezzo che egli si aspetta di ricevere dal supplier; questo non necessariamente è uguale al prezzo effettivamente ricevuto. Se il prezzo offerto è inferiore al costo-opportunità ottenibile dal retailer, quest’ultimo non sarà disposto a concedere spazio allocativo al prodotto in questione.

Le vendite di un prodotto di largo consumo sono in funzione non solo del prezzo di vendita al dettaglio, ma anche del numero dei negozi in cui il prodotto è disponibile al pubblico. Esse quindi dipendono della quantità (finanche della qualità) totale di spazio ad esso allocato. Per questo, i produttori danno vita ad una forte concorrenza per entrare nel maggior numero di assortimenti commerciali, ottenere un maggiore spazio ed una migliore esposizione rispetto ai rivali e beneficiare anche delle attività promozionali o pubblicitarie condotte autonomamente dai dettaglianti [59]. In tale modo, le imprese produttrici perseguono l’obiettivo di aumentare la propria quota di mercato approfittando del bacino di utenze creato dai punti di vendita localizzati nel territorio. Ciò a causa della progressiva sostituzione della brand loyalty con la store

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loyalty dovuta alla propensione del consumatore verso la concentrazione degli acquisti nel tempo (soprattutto nel caso di acquisti banali).

Da parte loro, i produttori cercano di influenzare le determinanti delle vendite attraverso la pubblicizzazione del loro brand, modificazioni del packaging e aumenti del margine commerciale del retailer. Prescindendo dalle attività promozionali, Pellegrini [6] individua i principali obiettivi che motivano il controllo del produttore sull’attività svolta dal retailer, obiettivi diretti a:

- garantire un equo trattamento dei suoi prodotti in termini di visibilità (quantità e qualità dello spazio);

- garantire che la quantità di spazio allocato ai propri prodotti non sia tale da indurre rotture di stock;

- garantire che i prodotti siano adeguatamente rappresentati in assortimento; - raccogliere informazioni sull’andamento delle vendite.

Un motivo di conflitto tra la singola impresa industriale e il negozio-acquirente nasce qualora quest’ultimo si rifiuta di tenere in assortimento tutte le referenze della marca nazionale, vi assegna spazio inadeguato e pratica decisioni allocative orientate alla redditività di linea invece che alla redditività di prodotto [58].

Il tema affrontato sinora assume argomentazioni differenti qualora nel rapporto distributivo intervenga un produttore con un articolo leader di mercato nel proprio portafoglio-prodotti. Secondo Lugli [58], il produttore di marca leader non ha difficoltà a posizionarsi all’interno degli assortimenti dei punti vendita poiché il suo prodotto è prevenduto al consumatore. Il suo acquisto è programmato dal cliente prima di entrare nel negozio, e di conseguenza, il retailer è obbligato ad introdurre il prodotto in assortimento, ridimensionando così l’efficacia e la libertà delle sue scelte di merchandising44. In caso contrario, una continua assenza del prodotto leader penalizzerebbe le vendite del negozio, lasciando insoddisfatta un parte di domanda. Questo significa che il fornitore di un prodotto con una domanda preferenziale molto forte può assicurarsi uno spazio allocativo sebbene ciò comporti per il retailer un

44 L’elasticità delle vendite della marca leader rispetto alla quantità (numero di facing) e qualità (livello espositivo) espositive è relativamente più bassa rispetto a quella degli altri brand. Perciò si può intuire come scelte di allocazione dello spazio siano più efficaci sui prodotti di merche minori o di marche commerciali.

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sacrificio in termini di margine commerciale. Tale sacrificio è compensato dall’impatto positivo sull’immagine di negozio.

Generalmente, un dettagliante è propenso a riservare dei trattamenti preferenziali (in termini di quantità/qualità espositiva) a quei prodotti che assicurano un margine lordo maggiore per unità di spazio occupato. Ceteris paribus, le vendite di un articolo aumentano grazie ad un incremento della quota di spazio destinata al prodotto ovvero ad un miglioramento qualitativo della spazio. Per questo, mentre i prodotti leader, per i quali i clienti sono disposti a sostenere l’onere della ricerca, sono collocati ad un livello espositivo che li penalizza rispetto agli altri prodotti, i prodotti meno noti o non di marca sono posizionati in punti strategici per favorirne l’acquisto d’impulso45.

Sempre più retailer propongono in assortimento alla clientela oltre ai prodotti a marchio nazionale (national brand) anche prodotti a marchio commerciale (private brand). Fintantoché il marchio commerciale è motivo di differenziazione tra punto di vendita localizzati nel medesimo territorio, i retailer tenderanno a stressare questi prodotti attraverso attività promozionali e una migliore disposizione espositiva.

45 Questo comportamento è spiegato dalla possibilità di ricavare maggiori margini commerciali dai

prodotti meno noti rispetto ai prodotti leader. Il ragionamento in termini di massimizzazione dei margini commerciali porta però a favorire le marche con rotazione più bassa.

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CAPITOLO III:

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