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Per una logica dei sensi, o estesiologia

I valori, a differenza dei fini, rendono comprensibile uno stato di fatto senza relazione ad altro.

Helmuth Plessner, 1923108

1 . Scienza vs. filosofia

Johannes Müller, padre fondatore della fisiologia dei sensi, insegna che gli organi sensoriali fungono da “trasduttori” dello stimolo ambientale in codice neuronale. Essi hanno il compito fondamentale di codificare il linguaggio del cervello attraverso segnali fisici e chimici neutrali. Recettori sensoriali specifici in ciascun organo di senso lavorano alla compilazione di tale linguaggio rielaborando le informazioni recepite dall’ambiente esterno, e trasducendole alla corteccia cerebrale, la quale, infine, attraverso i processi percettivi, costruisce le proprie “ipotesi” del mondo109. Tra le qualità di una sedia e la percezione di essa, in poche parole, non vi sarebbe alcuna relazione evidente, se le ricerche

108 ES, 70.

109 Per una riflessione filosofica sulla situazione contemporanea delle neuroscienze di rilievo sono gli scritti di G. Roth, Das Gehirn und seine Wirklichkeit. Kognitive Neurobiologie und ihre philosophischen Konsequenzen, cit.; Id., Fühlen, Denken, Handeln. Wie das Gehirn unser Verhalten steuert, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2003; Id., Cervello, in C. Wulf (a cura di), Cosmo, corpo, cultura. Enciclopedia antropologica, ed. It. a cura di R. Bodei e A. Borsari, Bruno Mondadori, Milano 2002, pp. 427-437. Cfr. inoltre la discussione sul rapporto tra scienza e filosofia a cura di H.-P. Krüger nei numeri 52/2, 6 (2004) e 53/5 (2005) della «Deutsche Zeitschrift für Philosophie».

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neurofisiologiche non avessero individuato le corrispondenze specifiche tra lo stimolo e i recettori sensoriali dello stimolo.

Con Helmholtz, allievo di Müller, e i suoi colleghi contemporanei, la certezza sensibile subì, sul piano scientifico, un ulteriore shock. Si scoprì, infatti, che i diversi canali sensoriali utilizzano il medesimo linguaggio del cervello, che il potenziale d’azione del sistema visuale e uditivo è dunque identico. La possibilità per il cervello di distinguere un mondo di colori e suoni, profumi e superfici, veniva così messa a repentaglio, tornava ad essere un “mistero di Dio”. In seguito, gli scienziati seppero comunque dimostrare che la diversa forma e sensibilità delle singole cellule sensoriali rende possibile una prima differenziazione dell’informazione esterna, la quale, in ogni caso, diverrebbe significato solo attraverso il lavoro cerebrale della percezione.

Porre una connessione strutturale tra lo stimolo e il recettore dello stimolo ha significato per la neurofisiologia, anzitutto, legittimare un terreno comune tra interno e esterno, tra colui che esperisce e l’oggetto esperito, sulla base delle proprietà chimico-fisiche corrispondenti. Infatti, gli organi di senso codificano gli oggetti esterni non direttamente per le modalità (visuale, acustica, tattile, olfattiva, ecc.) e submodalità o qualità (colore o luminosità, altezza sonora) dello stimolo, bensì meramente per le sue proprietà chimico-fisiche, legate a intensità e durata. La sedia che è qui di fronte, in altre parole, non la si visualizza nel suo essere verde oliva, di colore brillante, di materiale translucido, bensì in base all’intensità della luce (il numero dei quanti luminosi per unità di tempo) e alla lunghezza d’onda. I fotorecettori del mondo visibile non possono segnalare nient’altro, le immagini sulla retina accadono nella percezione, non sono immediate e tuttavia non sono mere rielaborazioni del cervello. Lo stesso vale per i suoni. Dal punto di vista chimico-fisico all’orecchio occorrono soltanto ampiezza e oscillazione. La melodia non esiste nel senso dell’udito, bensì nella percezione, cioè nell’attività della corteccia cerebrale, dove la memoria e la coscienza sensoriale (ivi localizzata nelle prestazioni cognitive della subcorteccia associativa) cooperano con i diversi centri periferici interessati.

È significativo, intanto, che anche sul piano scientifico si concepisca la percezione come una prestazione del cervello complessa, né meramente immediata, né meramente riflessiva, piuttosto come un’articolazione di centri e

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periferie in continua attività di scambio. Il fatto che, contro le prime ipotesi “ricostruttive”, le neuroscienze riconoscano nell’evento esterno un elemento determinante per i reagenti sensoriali e che questi, allo stesso tempo e in un certo modo, neghino la complessità del mondo esterno e facciano della percezione un’esperienza “limitata”, incapace di cogliere l’intero, è un risultato scientifico certo importante che, tuttavia, dà da pensare molto. Infatti se, da un lato, nella cooperazione tra sensazione e percezione si delinea una dimensione intrinsecamente attiva dell’esperienza sensoriale, tanto che, come sottolinea ad esempio Gregory, anche in assenza totale di luce si riscontra un’attività dell’occhio110, dall’altro lato emerge con evidenza il solipsismo del cervello, il suo isolamento rispetto al mondo esterno e agli altri cervelli, la quasi totale solitudine dell’attività percettiva rispetto alla realtà effettuale111.

Come legittimare una simile varietà delle cose attraverso un sistema quantitativo estremamente semplificato? È possibile tradurre brutalmente le quantità in qualità attraverso procedure chimiche? E ancora: perché differenziare gli organi sensoriali se il loro linguaggio è neutrale, se le proprietà sensoriali determinanti del mondo si riducono a intensità e tempo? Il fatto che un suono, un colore, un odore siano tutti afferrabili mediante i sensi non impedisce, infatti, che un suono sia un suono, un colore un colore ecc., non inficia la consistenza qualitativa delle cose. Inoltre, come osserva Lawrence E. Marks in uno studio degli anni settanta sull’unità dei sensi, nel quale tuttavia non si fa menzione alcuna del lavoro plessneriano, si può ben comprendere che la sedia che si osserva e la sedia che si tocca per cogliere la levigatezza del suo materiale plastico sono un’unica e medesima sedia. Nonostante il loro carattere unitario, tuttavia, la sedia vista e la sedia avvertita mediante il tatto non costituiscono il medesimo senso, poiché tra le loro modalità, per definizione,

110 Cfr. R.L. Gregory, Occhio e cervello. La psicologia del vedere, trad. it. di A. Rebaglia, Cortina, Milano 1998, p. 135 e sgg.

111 Walter J. Freeman definisce efficacemente tale situazione una condizione di “solipsismo epistemologico”. Nella prospettiva delle neuroscienze il processo di trasduzione dello stimolo dai recettori sensoriali al cervello si può descrivere come una forma di progressiva eliminazione dei dati sensoriali grezzi cosicché «quel che rimane è quanto è stato fatto nel cervello». La dinamica ricorda il processo della digestione, essa «separa da tutti gli altri il significato presente in ogni cervello, ponendo ogni individuo in una condizione di isolamento e solitudine. Chiamo tale condizione “solipsismo epistemologico”» (Come pensa il cervello, trad. it. di S. Frediani, Einaudi, Torino 1999, p. 13).

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non può esservi continuità. Infatti se vi fosse, cioè «se i sensi – scrive Marks provocatoriamente – fossero veramente continui noi avremmo soltanto un senso»112.

Con tono analogo, fin dai primi anni venti, riflettendo sulla questione dei sensi Plessner domanda: «come è possibile che qualcosa di sensato possa essere reso immediatamente sensibile soltanto in una modalità di senso e prima di tutto in una modalità assolutamente insostituibile?»113. Legittimare la molteplicità dei sensi, in altri termini, significa mostrare la necessità del mondo esterno di apparire così come appare, nel suo modo acustico, ottico, tattile, olfattivo di essere esperito attraverso occhi, orecchie, naso, pelle. Sono, infatti, i differenti modi di percepire oggetti determinati il nodo teorico della questione dell’unità differenziale dei sensi. Se le stesse qualità oggettuali non fossero molteplici e se non fossero correlate sensatamente ai modi della percezione non vi sarebbe alcuna necessità di interrogarsi sull’unità dei sensi. Per la comprensione delle dinamiche dell’esperienza sensoriale il percetto diviene pertanto primario. Il problema dei sensi, coerentemente con l’impostazione teorica generale di Plessner, viene decentrato rispetto al soggetto e indagato nei modi della relazione oggettuale. Tale impostazione, in piena sintonia con studi filosofici più recenti114, nonostante si collochi esplicitamente entro un orizzonte teorico fenomenologico spinge la fenomenologia fino ai suoi esiti più estremi: al di là della coscienza intenzionale, nella realtà fenomenica dell’oggetto estetico.

Al contrario, i criteri scientifici, nonostante permettano di analizzare il peculiare funzionamento degli organi di senso e di cogliere una loro capacità intrinsecamente produttiva115 non sono in grado di cogliere la consistenza

112 L.E. Marks, The Unity of the Senses. Interrelations among the Modalities, Academic Press, New York-San Francisco-London 1978, p. 188.

113 H. Plessner, Selbstanzeige der „Einheit der Sinne“, cit., p. 378. Qui Plessner per l’espressione render sensibile utilizza il verbo versinnbildlichen che significa anche “simboleggiare”.

114 Sul versante anglosassone, in autonomia dalla prospettiva plessneriana ma in piena continuità teorica con essa cfr. il recente saggio di M. Nudds, The Significance of the Senses, in «The Aristotelian Society», 104/1 (2004), pp. 31-52.

115 Questo, ad esempio, il problema di partenza del celebre studio di Gregory sul funzionamento dell’occhio: «Vi è qualcosa di assolutamente peculiare nella visione umana. […] Solamente gli uomini sanno disegnare o dipingere, così come solamente gli uomini possiedono un linguaggio strutturato; e, di fatto, sia le raffigurazioni grafiche sia il linguaggio dipendono dalla

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qualitativa delle cose, di comprendere perché, ad esempio, la Quinta di Beethoven sia intrinsecamente sonora, colpisca in primo luogo l’udito. In base alla distribuzione delle energie e all’invarianza dello stimolo si dovrebbe affermare che la qualità sonora della Quinta è una necessità soltanto relativa poiché, dal punto di vista fisico-chimico, essa potrebbe avere un suo equivalente tattile, visivo, ecc. Sarebbero, semmai, il complesso di costumi sociali e tradizioni culturali consolidatisi nella filogenesi e ontogenesi dell’uomo a indurre determinate produzioni spirituali dei sensi.

Il fatto è, come osserva Plessner, che le scienze sperimentali, compresa la psicologia, non sanno, e forse non intendono chiarire «le modalità di manifestazione di questo mondo» (ES, 23). Esse procedono con misura e calcolo, con l’intento metodico di quantificare le qualità, anzi convinte di determinare le cose in modo chiaro e distinto nell’unità di misura spazio-tempo. Ma delle cose le scienze spiegano soltanto le connessioni causali che determinano il cambiamento del singolo: i processi di congelamento e di fusione, le leggi di pietrificazione e di cristallizzazione, lo sviluppo degli organismi, i cambiamenti climatici; «ciò che tuttavia nel cambiamento permane, la qualità delle manifestazioni della natura, non si lascia comprendere per via fisica e chimica» (ES, 24). Se si prende, ad esempio, la questione del colore, uno scienziato attraverso lo spettro della luce descriverà la gamma di colori che caratterizza le diverse lunghezze d’onda del raggio luminoso, il fatto che ad una determinata lunghezza si trovi il rosso cinabro, ad un’altra l’azzurro cobalto. In ogni caso, Plessner domanda: «dove rimane qui l’aspetto qualitativo del mondo? Chi ci chiarisce ciò? Perché viviamo in una natura che consiste di luci e colori, di toni e suoni, di odori di ogni genere, di superficie liscia e ruvida, dura e tenera? Perché la natura mostra esattamente siffatte e non altre qualità, non altre forme e figure?» (ES, 23). Lo spettro della luce, in altre parole, per Plessner ancora non spiega il perché ad una determinata lunghezza d’onda corrisponda esattamente questo rosso cinabro e non un azzurro cobalto.

La psicofisica, con le scoperte di Müller e di Helmholtz, ha creduto a lungo di poter risolvere la questione delle qualità delle cose attraverso la teoria della

capacità di utilizzare in modo creativo le ambiguità percettive» (op. cit., p. 20). Sul rilievo antropologico degli organi della vista e dell’udito cfr. anche i due articoli di C. Wulf: Occhio; Orecchio, in Id. (a cura di), Cosmo, corpo, cultura, cit. pp. 448-467.

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relatività specifica delle energie. All’origine delle qualità fenomeniche furono poste le proprietà chimico-fisiche comuni all’uomo e all’ambiente. La legge dell’equazione stimolo-risposta individuata da Weber e Fechner sembrò inoltre colmare l’abisso tra psicologia e fisica. Tuttavia, essa confronta il fisico e lo psichico sulla base dell’associazione, della connessione di due serie parallele, non riferendosi alla materia comune del vivente quale “interregno” dell’indifferenza psicofisica (cfr. ES, 20). In tale prospettiva, la qualità della cosa coincide con la comparsa della qualità prodotta dallo stimolo nella coscienza come un’immagine rovesciata, come una copia dell’impressione sensoriale. E, come osserva Plessner: «continuerebbe ad esistere la domanda, nella misura in cui la fisica ci converte la qualità in quantità, sul perché il mondo obiettivo degli stimoli anticipi tali qualità, sul perché il sostrato del mondo degli stimoli, caratterizzato quantitativamente dalla fisica, debba avere tale aspetto» (ES, 26).

Parallelamente alla destrutturazione plessneriana delle certezze scientifiche, fin dai primi anni trenta il neuropsichiatra tedesco Erwin W. Straus tenta di abbozzare una teoria sull’unità del sentire prendendo esplicitamente le distanze dalle prospettive positiviste dei data sensoriali e insistendo sull’irriducibilità dell’oggetto allo stimolo116. Con efficacia, egli definisce quest’ultimo un

116 Per la teoria strausiana del sentire si ricordano, in particolare, gli scritti: Geschehnis und Erlebnis, Springer Verlag, Berlin 1930; Vom Sinn der Sinne. Ein Beitrag zur Grundlegung der Psychologie, cit. (trad. it. di alcuni paragrafi: parte III, cap. F, §§ A-C, Paesaggio e geografia, di A. Pinotti, parte IV, cap. 1, § C, Per una teoria delle allucinazioni, di F. Leoni, ora in A. Pinotti (a cura di), L’estetico e l’estetica, Un dialogo nello spazio della fenomenologia, Mimesis, Milano 2005, pp. 69-80, 81-86); la raccolta di saggi Psychologie der menschlichen Welt. Gesammelte Schriften, Berlin/Göttingen/Heidelberg 1960, di cui in particolare si ricordano: Die Zeiterlebnis in der endogenen Depression und in der psychopatischen Verstimmung (1928), pp. 126-139; Die formen des Räumlichen. Ihre Bedeutung für die Motorik und die Wahrnehmung (1930), pp. 141-178 (trad. it. di P. Quadrelli, Le forme della spazialità. Il loro significato per la motricità e per la percezione, in A. Pinotti (a cura di), L’estetico e l’estetica, cit., pp. 35-68); Die Aufrechte Haltung. Eine anthropologische Studie (1949), pp. 224-235; Ästhesiologie und ihre Bedeutung für das Verständnis der Halluzinationen (1949), pp. 236-269 (trad. it. dall’inglese di P. Gambazzi, Estesiologia e allucinazioni, in D. Cargnello (a cura di), Antropologia e psicopatologia, Bompiani, Milano 1967, pp. 177-230); On the Form and Structure of Mann’s inner Freedom (1956-57), pp. 364-376. Significativo è anche l’ampio saggio Psychiatrie und Philosophie (1963), in W.H. Gruhle, R. Jung, W. Mayer-Gross, M. Müller (Hgg.), Psychiatrie der Gegenwart, Band I/2: Grundlagen und Methoden der klinischen Psychiatrie, Springer Verlag, Berlin-Göttingen-Heidelberg 1963, pp. 926- 994. Una selezione degli scritti strausiani sul rapporto tra fenomenologia e psicologia è inoltre pubblicata nell’antologia inglese Phenomenological Psychology. Selected Papers, trad. ingl. di E. Eng, Basic Books, New York 1966. Infine, per una bibliografia completa dell’autore cfr. Aa. Vv.,

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“costrutto concettuale” che, dovendo precedere la risposta, non può essere in alcun modo manipolato, osservato, né condiviso tra più individui. Lo stimolo manca di quel rapporto mutuo e reversibile intrinseco all’oggetto, cioè all’aspetto costitutivo dell’esperienza che reclama un soggetto, un io per il quale l’esperienza accada allo stesso tempo in modo individuale e generale. Che tra lo stimolo e l’oggetto vi sia uno slittamento significativo, per Straus, lo dimostra il fatto che: «se l’oggetto visibile si rompe, la sua visione non si rompe, ma vedo dei pezzi rotti; se l’oggetto brucia, la visione non brucia. Se un oggetto può agire su un altro oggetto, una percezione visiva non può influire su un’altra percezione visiva»117. Si immagini, per esempio, di trovarsi dinnanzi all’imponente cattedrale di Colonia. Secondo la legge dello stimolo, in qualità di ricettori occorrerebbe assorbire materialmente l’edificio per poterlo vedere. Tuttavia, la grandezza della cattedrale per Straus non si misura attraverso un criterio numerico, né nel confronto con gli edifici circostanti, bensì in rapporto al soggetto che vi si pone di fronte e la contempla nella sua consistenza eidetica, senza con ciò escluderne la sostanzialità, il peso e la solidità118.

Nel determinare quantitativamente le qualità del mondo attraverso la teoria dello stimolo, ponendo cioè un’antitesi “spuria” tra il dato sensoriale e la cosa materiale119, le scienze sperimentali restano saldamente ancorate alla dicotomia cartesiana tra res cogitans e res extensa. Anzi, in un certo senso, come osserva Straus in perfetta sintonia con la posizione plessneriana: «la dottrina dei riflessi comincia con Descartes»120, con il perfetto isolamento della natura dalla sfera del senso su cui si fonda la sua teoria della coscienza.

Conditio humana. Erwin W. Straus on his 75th Birthday, Springer Verlag, Berlin-Heidelberg- NewYork 1966, pp. 334-337.

117 E.W. Straus, Estesiologia e allucinazioni, cit., p. 192 [pp. 243-244]. 118 Cfr. E.W. Straus, Psychiatrie und Philosophie, cit, p. 951.

119 “Carattere spurio”, in riferimento all’antitesi tra cosa materiale e dato sensoriale, è un’espressione che utilizza John L. Austin in Senso e sensibilia (trad. it. di A. Dell’Anna, Marietti, Genova 2001, p. 25) quando critica “rompicapi” filosofici come la teoria dei dati sensoriali e del loro referenzialismo oggettuale. Da questo punto di vista, la critica plessneriana (ma anche strausiana) al cartesianesimo e al riduzionismo scientifico, e il conseguente tentativo di superare l’unilateralismo tanto razionalista quanto sensista, si pone lungo una linea che dalla filosofia della vita di Dilthey, attraverso il pragmatismo di Dewey corre fino alle teorie più recenti di Austin, Putnam e del secondo Wittgenstein.

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L’atomismo e fisicalismo delle scienze impedisce di cogliere le cose al di fuori della loro determinazione spazio-temporale, delle proprietà estensive e intensive legate alle modificazioni quantitative dell’accadimento. Tolta la variabilità delle grandezze spazio-temporali, ciò che però ancora permane delle qualità delle cose è, per Plessner, la modalità in cui la cosa si manifesta oggettualmente alla percezione, «la qualità di senso, ciò in cui le percezioni e le sensazioni si distinguono l’una dall’altra senza riguardo per le differenze graduali e per le divergenze dinamiche» (ES, 28). I qualia esigono, pertanto, una risposta non fisicalista, non fisiologica, non psicologica, capace di comprendere la necessità costitutiva delle modalità molteplici che distinguono un senso dall’altro.

2. Il valore come condizione logico-materiale del senso

Le ricerche scientifiche dimostrano che gli esseri viventi, gli uomini in particolare, non avvertono che una parte del mondo infinitamente piccola. I raggi infrarossi, le onde radio e certi altri fenomeni elettrici non sono percepibili intuitivamente. Essi si possono semmai rappresentare o comprendere nel loro effetto sulle cose. L’organizzazione dei sensi dinnanzi alla varietà e plurivocità del mondo sembrerebbe, pertanto, assai misera: «essa somiglia ad un debole faro che qua e là carpisce qualcosa (heraustasten) dalla notte immensa, che tuttavia si perde nella sua immensità. Com’è infinitamente piccolo il frammento che le lunghezze d’onda del nostro spettro visibile ricevono in tutta la scala delle onde eteriche!» (ES, 29-30). Tuttavia, sarebbe assurdo rinunciare alla ricerca di un’unità “più alta”, superiore, dei sensi, abbattere qualunque forma di pensiero e affidare l’essere così del mondo fenomenico e dei nostri organi di senso al caso, all’idea che in altre circostanze si sarebbero sviluppati altri organi di senso (cfr. ES, 29).

La questione dell’unità dei sensi, ovvero dell’unità delle modalità molteplici del manifestarsi della cosa, come si intendeva far emergere nelle pagine precedenti, finché si rimane nell’ambito della scienza non sembra muovere di un passo in avanti – per Plessner. Nondimeno, tolta la fisica, la fisiologia, la chimica, la psicologia, la biologia ecc., resta da definire la “nuova” forma che può assumere una ricerca sull’unità dei sensi. Per prima cosa, oltrepassare il mero bisogno biologico per investigare come il senso dell’esperienza sensoriale

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si insinui nelle dinamiche modali, nel contenuto performativo delle prestazioni; mostrare come nella vista, nell’udito, nel tatto si celino questioni la cui soluzione, oltre alla speculazione filosofica, coinvolge ambiti molteplici della vita spirituale, a cominciare dalla «discussione estetica sui limiti tra arte figurativa e musica» (ES, 30), significa per Plessner applicare il concetto di “norma” alla sfera dei sensi, indagare la sensibilità nella sua consistenza valoriale. Che vi sia la necessità di intraprendere questa via, di esplorare filosoficamente la “nuova terra” dell’esperienza sensibile lo dimostrano non soltanto il residuo cartesiano-kantiano delle scienze e delle filosofie razionaliste e sensiste, bensì anche le false pretese di sinestesia che Plessner critica nell’espressionismo pittorico. Una teoria valoriale sull’unità dei sensi, ovvero una critica del valore materiale dei sensi, in altre parole, offrirebbe un contributo importante sia per la teoria della conoscenza e per l’estetica, che per le singole prestazioni culturali e, in primis, per il mondo delle arti, dove il vincolo materiale del valore costituisce un aspetto indissolubile.

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