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LA LOTTA DI CLASSE NELLA VITA QUOTIDIANA

Nel documento La lotta di classe dopo la lotta di classe (pagine 139-156)

D. Abbiamo parlato finora di classi sociali soffermandoci in via principale sul modo in cui viene condotta la lotta di classe, che di questi tempi è principalmente lotta delle classi dominanti contro la classe operaia e la classe media. Ma le persone conducono la loro vita giorno per giorno, ora per ora. Che cosa significa nella vita quotidiana appartenere a una classe sociale piuttosto che a un’altra? Si può parlare di lotta di classe nella vita quotidiana?

R. Per milioni di persone la parte centrale della vita quotidiana è occupata dal lavoro. E nel caso del lavoro le disuguaglianze di classe, e la lotta di classe, sono evidenti anzitutto nel controllo fisico al quale viene sottoposto dalle imprese, per molte ore al giorno, il corpo del lavoratore. In settori produttivi che vanno dalle catene di montaggio dell’auto e degli elettrodomestici alla ristorazione rapida, dall’industria alimentare al comparto alberghiero e alle imprese di pulizia, le direzioni aziendali e i capi esercitano un controllo ferreo sul corpo del lavoratore. In tutti questi settori i movimenti da compiere degli arti, del torso, della testa, e i tempi in cui uno deve compierli, sono prescritti dai dirigenti ai lavoratori con estremo dettaglio, in ogni minuto della prestazione lavorativa, e in molti casi in ogni secondo. Movimenti e durata di ogni operazione sono prestabiliti sulla base di sofisticate tecniche di misurazione dei tempi e dei metodi, in uso in tutto il mondo. Tra i più noti rientrano il WCM (World Class Manufacturing) e lo UAS (Universal Analyzing System). Quest’ultimo si presenta come un metodo “ergonomico”, nel senso che, mentre punta al maggior rendimento del lavoro, assicura di rispettare la fisiologia dell’essere umano nel suo rapporto con la macchina.

In forza di questo controllo sul suo corpo, un lavoratore può trovarsi obbligato, in un gran numero di mansioni, a ripetere gli stessi movimenti centinaia di volte al giorno. Il conto è presto fatto. In molti stabilimenti sono comuni fasi di lavorazione di un minuto. Ciò significa compiere esattamente gli stessi gesti, tipo avvitare un bullone o inserire un componente al posto giusto, 60 volte all’ora, più di 400 volte al giorno, tolte le pause previste dall’orario, inclusa la mensa. Le quali diventano

oltre 2000 volte nell’arco di una settimana lavorativa di cinque giorni. Chi vuole avere un’idea del modo in cui si articola questo spietato controllo, dovrebbe leggersi la parte dell’accordo imposto dalla Fiat a Pomigliano e a Mirafiori dedicato alla metrica del lavoro. In base ad essa movimenti come chinare la schiena, piegarsi sulle ginocchia, spostare un braccio di lato, sono misurati in centesimi di secondo.

Beninteso, non si tratta di una novità assoluta. La cosiddetta “organizzazione scientifica del lavoro”, che ha lo scopo di ottenere dal corpo del lavoratore il massimo di utilità per l’impresa per tutta la durata della prestazione lavorativa, esiste da un secolo. Ciò che è cambiato negli ultimi decenni è la sua estensione a diversi altri settori, al di là dell’industria meccanica dov’è nata, e il suo grado di accanimento nel pretendere mansioni sempre più parcellari, svolte a ritmi infernali, e affatto prive di contenuti professionali. Tale accanimento è di per sé una forma di lotta di classe nella vita quotidiana, anche in questo caso condotta dall’alto verso il basso.

D. Un tema che si collega al controllo fisico del lavoratore è quello della qualità e del contenuto del lavoro, che si riferisce alla possibilità che questo dia un senso a ciò che si fa e alla possibilità di accumulare esperienze professionali. Si direbbe che il tema più generale della qualità del lavoro sia andato perso nella riflessione dei sociologi.

R. Si potrebbe dire che coloro che un lavoro ce l’hanno, come dipendenti, possono essere divisi in due sottoclassi di diversa grandezza. C’è quella minoritaria di chi svolge un lavoro relativamente interessante, che permette di cumulare esperienze e di applicare le conoscenze che si sono acquisite a scuola o in azienda. E poi c’è quella di coloro – la gran maggioranza – a cui tutto questo è negato perché non accumuleranno mai esperienze professionali significative; affrontano ogni giorno una fatica sfiancante; non devono far altro che eseguire i movimenti pre-calcolati da un ufficio tempi e metodi, oppure da un computer (una forma di controllo che non tocca solo i metalmeccanici). Il risultato è uno svuotamento quasi totale di senso del lavoro che viene svolto per l’intera giornata.

Ed è vero quanto dicevi: la qualità del lavoro, il grande tema degli anni Sessanta e Settanta su cui un’intera generazione di sociologi ha discusso e fatto ricerca, è completamente scomparso dal loro orizzonte. Ma perfino i sindacati non usano più discuterne. Pensiamo alla questione dell’accordo Fiat prima ricordato: si è dibattuto a non finire sulla questione dei diritti che esso viola, della libera rappresentanza del sindacato – temi sacrosanti,

sia chiaro, che era necessario affrontare –, mentre si è dedicato pochissimo spazio alla povertà fisica e professionale di quel lavoro, fatto di fasi di un minuto o meno.

D. Alla difficoltà di ricavare un senso da quello che fanno, per molti lavoratori si aggiunge la fatica di arrivare a fine mese. Richiamo con queste parole il sottotitolo di un libro basato sull’inchiesta di una giornalista statunitense che ha deciso di vivere un mese di “povertà e tribolazioni” per verificare se fosse riuscita a far quadrare le entrate con le uscite, proprio come cercano di fare tutti i giorni i tanti poveri veri. La cronista racconta la sua storia di lavoratrice a basso salario, alla fine degli anni Novanta, a partire dalla sua prima esperienza di cameriera con la paga di 2,43 dollari all’ora più le mance. La paga da fame (è il titolo del libro) ricavata da questi lavori ha conseguenze sulle condizioni di vita della protagonista – ivi compresa l’esperienza della paura a uscire da sola, poiché può permettersi di abitare solo in zone non sicure della città. Possiamo affermare che la lotta di classe ha a che fare ad un tempo con la qualità del lavoro e con la qualità della vita?

R. Non c’è dubbio che tra le due esista una stretta correlazione. La qualità della vita è fatta di tranquillità economica, sicurezza sociale, possibilità di un equo riposo, di poter abitare abbastanza vicino al luogo di lavoro, in modo da non dover spendere ore al giorno in auto o sui mezzi pubblici. Soffermiamoci su quest’ultimo tema. Decine di milioni di persone in tutti i maggiori paesi, in particolare chi lavora nelle grandi città, risiedono lontano dal luogo di lavoro perché non possono permettersi di affittare o acquistare un alloggio in prossimità dell’azienda da cui dipendono. Per queste persone la qualità della vita è di per sé erosa dal tunnel della pendolarità, ove si consideri la fatica, la noia, il tempo vuoto che essa comporta.

Parigi, ad esempio, entro i limiti della périphérique conta tre milioni di abitanti; ma ove si comprenda anche la banlieue arriva a 15 milioni. Di questi, più della metà affrontano almeno due ore di Rer (la rete di ferrovie regionali che attraversa pure la città) e/o di metropolitana al giorno. Con passo tra il militaresco e il robotico e lo sguardo opaco, più volte al giorno migliaia di persone camminano a valanga nei giganteschi corridoi delle stazioni di interscambio passando da un treno regionale alla metro, da una linea di metro ad un’altra. Lo stesso accade in tutte le grandi città, da Londra a New York, da Madrid a Milano o Roma. Si aggiunga che in Italia, che ha seguito il Regno Unito sulla strada di una privatizzazione

delle ferrovie connotata dal disprezzo per la stragrande maggioranza dei viaggiatori, i treni regionali in genere sono un inferno: lenti, sporchi, con orari e percorsi disagevoli, quasi sempre sovraffollati.

Si tratta di un riflesso delle disuguglianze di reddito, che come abbiamo già osservato incide sulla qualità della vita in primo luogo di coloro che sono particolarmente utili alla città: infermieri, insegnanti, giovani medici, pompieri, personale delle pulizie. Si potrebbe dire che quanto più la mansione è indispensabile nel centro di una grande città, tanto più obbliga ad abitare lontano perché la paga non permette di risiedere vicino al luogo di lavoro. Barbara Ehrenreich, che tu hai citato, raccontando la sua ricerca di un’abitazione in una città di media grandezza, scrive che le vennero richiesti 675 dollari al mese per una roulotte collocata a un’ora di macchina dal centro, senz’aria condizionata né ventilatore, senza tende né televisore. E riporta il calcolo di quanto avrebbe dovuto allontanarsi ulteriormente dal centro per poter arrivare a spendere meno.

Connessa alla pendolarità v’è la questione della qualità del quartiere in cui si abita. Se, grazie al reddito di cui dispone, una famiglia può permettersi di acquistare o affittare un alloggio che vale 10.000 euro al metro quadro, ha varie possibilità. Può decidere di abitare in un quartiere rinomato del centro (high standing è l’espressione preferita da architetti e agenzie immobiliari), in una grande città europea o americana, con alloggi di molte stanze, bei palazzi, vie silenziose, scuole d’élite, abbastanza sicuro, a un quarto d’ora dal posto di lavoro. Oppure può optare per le periferie dove ci sono quartieri per benestanti che garantiscono condizioni abitative privilegiate. Si vedono spesso nei film: si pensi a Desperate Housewives, o al prototipo di quartiere portato alla triste parodia in The Truman Show. O, ancora, la famiglia in parola può scegliere una enclave riservata e superprotetta: pagando somme spropositate, acquista un’abitazione entro un quartiere totalmente recintato, sorvegliato da un corpo apposito, che impedisce l’ingresso a chiunque non vi abbia titolo e garantisce sicurezza e tranquillità; inoltre controlla che il comportamento dei residenti non si scosti mai dalle regole localmente stabilite – anche se diversi tribunali le considerano illegali. Si stima che nei soli Stati Uniti parecchi milioni di persone, potendoselo permettere, abbiano scelto di vivere in questo genere di residenze. Se non è divisione di classe questa, è difficile dire che cosa sia. Benché non costituiscano un fenomeno squisitamente americano (qualcosa del genere esiste in altri paesi, dalla Francia all’India), è soprattutto negli Stati Uniti che famiglie ad alto

reddito, inclusi componenti benestanti della classe media, hanno scelto di vivere in una enclave protetta.

Viceversa, una famiglia che può permettersi unicamente un’abitazione dal costo cinque volte inferiore ha una sola scelta: un alloggio di 60-70 metri quadri, in un quartiere marginale con palazzoni anonimi, un alto tasso di criminalità, scuole pessime, distante una o più ore dal luogo di lavoro, dove si vive tra fracasso, strade sporche, scenari squallidi, e paura. Un quartiere che propone ai giovani una rosa ristretta di scelte, comprendente unicamente disoccupazione, droga, ingresso nella malavita, o manifestazioni di violenza, tipo quelle che si sono viste anche di recente nelle periferie francesi o inglesi.

Mi dirai: è vero che si tratta di una disuguaglianza che incide profondamente sulla qualità della vita, ma che c’entra con la lotta di classe nella vita quotidiana? C’entra nel senso che a ciascun individuo “ad alto valore netto”, pronto a pagare un prezzo elevatissimo per abitare in un quartiere ad alta reputazione, corrisponde un alto numero di individui “a scarso valore netto”, chiamiamoli così, che sono costretti a cercare alloggio in quartieri a basso costo perché costruiti sin dall’inizio con pessimi criteri architettonici e materiali scadenti, o degradati gravemente col tempo. L’offerta economica senza limiti del primo rende via via più debole la domanda dei secondi, limitata com’è dal salario che percepiscono.

D. Per parlare di condizioni complessive di vita, ci siamo occupati sin qui di abitazioni, di luoghi di residenza, di trasporti, di sicurezza. Che cosa possiamo dire della relazione che si dà tra posizione occupazionale, rischio di incidenti e condizioni di salute?

R. Secondo i dati raccolti dall’Organizzazione internazionale del lavoro, ogni anno muoiono per cause correlate al lavoro due milioni di persone. Circa un quarto di esse sono vittime di incidenti; le altre muoiono a causa di malattie contratte sul lavoro, nonché di intossicazioni di varia origine, di esposizione prolungata a sostanze cancerogene, di radiazioni. Al dato delle morti va aggiunto quello degli invalidi a causa di incidenti e di coloro che contraggono malattie o stati patologici inguaribili: il che vuol dire altri milioni di persone. Le vittime di incidenti e malattie, letali e non, sono quasi esclusivamente operai e operaie, i più vicini fisicamente alle macchine, agli strumenti di lavoro, ai materiali, tutte cose che a seconda dei casi possono esplodere, incendiarsi, intossicare, o caderti addosso. Sono invece quasi del tutto assenti dirigenti d’azienda, imprenditori,

politici, funzionari della pubblica amministrazione e, manco a dirlo, i docenti universitari. Nessun appartenente a queste categorie, in nessun paese, muore schiacciato da un cassone di lamiere, oppure cadendo da un tetto o calandosi in una cisterna o travolto mentre lavorava sui binari d’una ferrovia.

In Italia le morti dovute a incidenti connessi al lavoro si aggirano da tempo su 1100-1200 l’anno. Poiché le malattie correlate al lavoro superano da due a quattro volte quelle dovute a incidenti, si può stimare che le morti derivanti da malattie professionali, contratte magari nel corso di decenni e sovente non riconosciute come tali perché le aziende riescono a dimostrare che non c’era alcun nesso tra il lavoro svolto e la patologia conseguita, si collocano tra i 3000 e i 4000 casi l’anno.

Le cause degli incidenti e delle malattie connesse al lavoro sono principalmente due: la mancanza o l’insufficienza sui luoghi di lavoro di misure adeguate di protezione attiva e passiva, e la fatica. Le imprese che per risparmiare qualche migliaio di dollari o di euro non predispongono misure adeguate per prevenire incidenti o gravi patologie a lunga genesi rappresentano in modo singolarmente efficace la lotta di classe sui luoghi di lavoro. Ricorderò due casi. Il 6 dicembre 2007 scoppia un incendio in un impianto di laminazione della ThyssenKrupp di Torino. Muoiono bruciati vivi sette giovani operai. Il processo che ne è seguito ha messo in luce oltre ogni ragionevole dubbio che la società aveva evitato di aggiornare le misure di sicurezza dell’impianto per un motivo specifico: la produzione doveva essere spostata entro pochi mesi a Terni, quindi non conveniva spendere cento o duecentomila euro per accrescere la sicurezza di quell’impianto. Non è dato sapere se nella direzione della filiale italiana o in quella tedesca si siano posti apertamente a confronto il risparmio di tot euro e il rischio che a causa di tale risparmio qualcuno ci perdesse la vita. Ma la lotta di classe dei forti contro i deboli non sempre ha bisogno, per essere condotta con efficacia, che si discuta in chiaro dei danni che può infliggere rispetto ai ricavi che se ne possono trarre.

Per quanto riguarda invece le malattie, è esemplare il caso Eternit, per decenni uno dei maggiori produttori europei di manufatti aventi per componente base l’amianto. A Casale Monferrato, in Piemonte, l’attività di uno dei suoi stabilimenti ha presumibilmente causato migliaia di morti; non solo tra i dipendenti dello stabilimento, si noti, ma anche tra gli abitanti della cittadina esposti in qualche modo alle polveri d’amianto – talora attraverso gli indumenti dei congiunti che lavoravano in fabbrica.

Pertanto la Procura di Torino ha dato inizio nel 2009 a un processo contro la Eternit. In questo caso la lotta di classe ha preso una forma particolare, peraltro assai diffusa: negare innanzitutto che le vittime siano causate dal lavoro che svolgevano e dalla correlata inspirazione di polveri di amianto.

Questa forma di negazionismo ha più di un secolo. La letale nocività delle polveri d’amianto, che causano un cancro inguaribile alla pleura e altri tessuti molli, è stata scoperta sin dalla fine dell’Ottocento. Fu denunciata da un’ispettrice del lavoro inglese intorno al 1898, dopo che un medico da lei allertato aveva osservato al microscopio la conformazione vetrosa delle particelle di amianto in sospensione. Si stima che nel corso del Novecento le vittime dell’amianto nel mondo siano state milioni. Ma poiché di amianto non si muore sul colpo durante il lavoro, per tutto quel secolo e ancora nel primo decennio di questo centinaia di imprese produttrici di manufatti amiantiferi, e altrettante se non più compagnie di assicurazione, hanno speso milioni di ore e centinaia di milioni di dollari e di euro per negare che esistesse un qualsiasi rapporto tra la diffusione dell’amianto, all’interno e all’esterno delle fabbriche, e il numero esorbitante di casi di cancro al polmone tra gli addetti e i loro congiunti. L’impiego dell’amianto a fini industriali è stato vietato dall’Unione europea soltanto nel 1998 – quando si dice la sollecitudine per la salute sui luoghi di lavoro. Nondimeno un rapporto dell’European Environment Agency stima in 250-300.000 i casi mortali di cancro attesi di qui al 2035 in Europa a causa dell’esposizione pregressa a tale sostanza.

Il processo Eternit – il più grande per amianto in Europa – si è concluso nel febbraio 2012 con condanne ai maggiori dirigenti della multinazionale elvetica per disastro doloso e omissione dolosa di misure infortunistiche. La condanna vale per i reati commessi negli stabilimenti piemontesi di Casale e Cavagnolo, dal 13 agosto 1999 in avanti (quelli precedenti risultano prescritti, come i reati contestati in altri stabilimenti). Le persone decedute, al 5 ottobre 2011, sono 1830, a cui si aggiungono altre 1027 parti lese. Il verdetto ha riconosciuto risarcimenti alle parti civili ammesse dal Tribunale (in tutto oltre 4500): principalmente ammalati (di asbestosi, tumori e altre patologie)o parenti di vittime, ma anche Comuni, Regione, Asl e associazioni ambientaliste. La sentenza di Torino ha due importanti aspetti innovativi in tema di tutela della salute sui luoghi di lavoro: in primo luogo, stabilisce una stretta relazione tra una sostanza alla quale gruppi di lavoratori sono stati esposti in azienda e una patologia che li colpisce anche molti anni dopo. In secondo luogo, la sentenza sembra

statuire che i massimi dirigenti avevano il dovere di predisporre un sistema di informazioni atto a comunicare ciò che nella loro posizione avevano il dovere di sapere, e cioè che l’amianto uccide. L’omissione di tale intervento è ciò che ha concorso a renderli penalmente responsabili.

D. Hai fatto cenno alla fatica come causa di incidenti e malattie legate al lavoro. Nell’epoca in cui robot, sistemi flessibili di produzione, attrezzature automatiche, macchine intelligenti e computer avrebbero dovuto cancellare la fatica fisica del lavoro in fabbrica, la fatica ammala ancora?

R. La fatica non uccide sul colpo, ma peggiora la vita e l’accorcia. Abbiamo ormai a disposizione parecchie raccolte di storie di fatica e di malanni dei giorni nostri, spesso non dissimili da quelle che vengono restituite dai romanzi o dai taccuini degli ispettori di fabbrica inglesi del secondo Ottocento. Nell’epoca in cui l’automazione avrebbe dovuto cancellare la fatica fisica del lavoro in fabbrica, in tante fabbriche essa continua a rappresentare un tratto dominante del lavoro quotidiano. Fino a quando il fisico cede, mani, braccia, schiena si spezzano, o si ammalano.

Insieme con le malattie di origine professionale, la fatica fisica è il principale fattore che spiega come mai intorno ai 50 anni, o al più tardi all’età della pensione, la speranza di vita di un operaio sia mediamente inferiore di alcuni anni rispetto a quella di chi svolge un altro lavoro, ovvero non è soggetto ai ritmi, ai tempi, ai carichi di lavoro propri del lavoro operaio. L’esistenza di forti disuguaglianze nella speranza di vita a danno delle persone che arrivano alla pensione da carriere di lavoro subordinato con basso reddito e modesta posizione sociale è ampiamente documentata nella letteratura internazionale. Per quanto riguarda la relazione che esiste tra status socio-economico e differenziali di longevità,

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