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Caritas Diocesana di Genova

Vi porto i saluti di monsignor Marino Poggi, che mi ha indi- cato come relatrice a questa iniziativa come rappresentante della Caritas Diocesana, l’uffi cio della Curia di Genova che si occupa di carità, quindi parliamo di Chiesa che agisce sul territorio, che consente un angolo di osservazione pri- vilegiato, quello dei Centri d’Ascolto coordinati da Caritas.

Genova è città policentrica, con tanti centri, tante periferie, tante emiferie. Il territorio, la mancanza di spa- zio, ha sempre pesantemente condizionato il suo cresce- re, anche e soprattutto nell’assetto urbano. “Periferie” si trovano anche all’interno di una strada, persino all’in- terno di uno stesso caseggiato: nel Centro storico di Ge- nova non è raro che ai piani alti, col terrazzino e la vista sui tetti, abiti il dirigente, al piano sotto l’intellettuale e ancora a scendere la famiglia giovane, all’ammezzato la famiglia immigrata, in ottima armonia. Questo è un mix vero, una forza, una potenza che i genovesi sanno gestire e forse è un elemento replicabile. Come trasformare que- sta caratteristica dei quartieri in una risorsa?

Si è parlato di zone, diverse dai non luoghi, dove si concentra il degrado urbanistico e sociale. Ma non sono i poveri che creano il degrado urbanistico, semmai è il degrado che crea le condizioni perché i poveri ci vadano a vivere: fondamentalmente gli affi tti più bassi.

Si è parlato di demografi a: l’osservazione dei dati demografi ci della nostra città e della nostra regione è

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fondamentale per comprenderne il passato, il presente e per progettarne il futuro. L’invecchiamento è evidente e inesorabile ma oggi, con la crisi occupazionale, spesso sono le pensioni degli anziani genitori a sostenere le fa- miglie dei fi gli, precari o sottoccupati. I dati rilevati nei Centri d’Ascolto coordinati da Caritas lo confermano: gli anziani che chiedono aiuto sono appena il 12% e di questi la maggior parte chiede aiuto per poter continuare a sostenere i fi gli. Cosa succederà quando queste pen- sioni verranno a mancare? In Liguria si spendono denari guadagnati altrove: la regione è meta di famiglie, soprat- tutto anziani delle regioni del Nord, che vi trascorrono, nelle seconde case della Riviera, buona parte dell’anno. Inoltre, il pendolarismo dei lavoratori liguri, soprattutto genovesi, verso altre regioni (essenzialmente Piemonte e Lombardia) pare riguardare oltre il 2% dei lavoratori. La Liguria è tra le prime regioni italiane per l’importo medio delle pensioni. C’è il rischio che la regione abbia risorse economiche inerziali?

I dati demografi ci off rono inoltre informazioni pre- ziose sull’immigrazione: a parte due piccolissimi comu- ni del profondo entroterra, tutti i comuni liguri hanno stranieri residenti, alcuni in percentuale rilevante, anche nell’entroterra, maschi e femmine, e tra gli stranieri la percentuale degli anziani è signifi cativa: il 4,9% degli stranieri presenti ha oltre 65 anni. Genova, come soste- neva Paolo Arvati, ha tradizionalmente anticipato alcune tendenze nazionali: è stata la prima città dove ha iniziato a calare il tasso per fi gli per donna, il numero di compo- nenti per famiglia, la prima città del nord Italia che ha vi- sto calare l’immigrazione dal Sud. Il calo degli immigra- ti stranieri dipende sì dalla minore attrattività della città, ma è anche dovuto alle molte regolarizzazioni eff ettuate negli ultimi anni: il dato andrebbe scorporato e analizza- to. All’inizio dell’immigrazione, negli anni ’70, le pro-

Lucia Foglino

venienze erano diverse: Cile, Argentina, Ghana, nazio- nalità ora abbastanza scomparse, per il Ghana abbiamo nuovi arrivi ma non presenze stanziali e Argentina e Cile hanno perso rappresentatività. L’evoluzione degli arri- vi ha privilegiato prima i marittimi, poi dal nord Africa, quindi si è stabilito un fl usso dal Sudamerica prevalente- mente dall’Ecuador per motivi storici: a Guayaquil c’era da inizio Novecento una forte comunità ligure e credo che tale presenza abbia avuto conseguenze nella scelta di Genova dove ora si concentra la maggiore comunità ecuadoriana nel Paese.

La povertà cambia volto con frequenza inaspettata: negli anni ’80 e ’90 aveva il volto di determinate catego- rie di famiglie, molte riconducibili alla tossicodipenden- za, alla carcerazione del capofamiglia. Si cominciò a par- lare di nuovi poveri negli anni ’90 quindi, dopo oltre 20 anni, questi cosiddetti poveri non sono più tanto nuovi: il prezzo dell’abitare (affi tto, amministrazione, utenze) assorbe talvolta oltre il 50% delle entrate delle famiglie, per cui non ci sono materialmente le risorse economiche per gli altri capitoli di spesa, sanità, istruzione, cultura. Lo sfratto esecutivo per morosità è frequente: tra le per- sone che chiedono aiuto ai Centri d’Ascolto il 10% circa ha problemi abitativi gravi, essenzialmente sfratto ese- cutivo o minacciato. La perdita della casa, o anche solo la possibilità concreta della sua perdita, provoca sempre nelle persone stati ansiosi che possono veramente com- prometterne la salute.

Si parlava in mattinata (nell’intervento di Stefano Poli) della correlazione tra povertà e morte, in partico- lare per quanto riguarda l’abitare in zone più inquinate. Ma la vulnerabilità non è solo dovuta a fattori ambienta- li: i poveri si ammalano, e muoiono di più perché, nono- stante il Sistema Sanitario Nazionale sia in genere buono e le cure essenziali siano garantite a tutti, alcune pratiche

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sanitarie non sono gratuite, come il dentista o la fi siote- rapia, l’ortopedia. La dieta inoltre non sempre è adegua- ta in famiglie costrette a vivere coi pacchi viveri recupe- rati nei centri di distribuzione, che solo occasionalmente off rono cibi freschi per cui non è azzardato aff ermare che i poveri sono più esposti alla malattia.

I dati, e soprattutto le narrazioni, raccolte nei Centri d’Ascolto, comunicano inequivocabilmente che la po- vertà non è mai solo economica. Qualche anno fa Cari- tas ha voluto approfondire questo aspetto in un piccolo dossier, dal titolo R-esistenze sul crinale. In esso si è chiamato disagio psico-relazionale quello stato che non si confi gura all’interno di una vera e propria diagnosi di malattia mentale ma che, di fatto, priva le persone del- le proprie capacità di resistenza nel quotidiano e delle abilità lavorative. Continui stati d’ansia per la precarietà lavorativa, per i rischi di sfratto, per il futuro incerto da off rire ai fi gli, uniti alla frustrazione, sono in grado di minare seriamente la stabilità e la salute delle persone relegandole ad una zona grigia da cui non è facile uscire.

Così come la ricchezza, anche la povertà, purtroppo, si eredita. Qualche volta capita, nei Centri d’Ascolto, di incontrare, ascoltare e sostenere la famiglia di qualcuno di cui già si erano sostenuti i genitori: in alcune zone siamo già alla terza generazione assistita. Gli ascensori sociali sono in eterna avaria, nel nostro Paese chi nasce in una famiglia povera, oggi ha altissime probabilità di rimanere tale in assenza di accesso alla cultura, a mo- menti di aggregazione, allo sport.

Come interrompere questa pesante ereditarietà? La scuola, l’associazionismo, l’attività educativa hanno un ruolo fondamentale: se è vero che un titolo di studio non mette al riparo dalla povertà, è ancor più vero che la sua as- senza espone molto di più e le famiglie spesso non riescono a sostenere i costi di una adeguata istruzione dei fi gli.