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e 1127 luglio 22) e Lazara, nel 1124 aprile 24: in realtà non si può escludere che si tratti di una svista del copista.

22

Nel 1042 “Maria monacha filia quondam Iohannis qui vocabatur Pitulo”(AAR, Sant'Andrea, n. 11419 (A); edito in BENERICETTI 2009, pp. 180 – 183); nel 1064 “Alderada veneravili monache monasterii Sancti Andree” (AAR, Sant'Andrea, n. 11437 bis(A); edito in BENERICETTI 2010, pp. 40 – 42); nel 1068 “Lliuza et Gisla monache” (AAR, Sant'Andrea, n. 11441 (A); edito in BENERICETTI 2010, pp. 52 - 53); nel 1137 come testimoni compaiono Imilia, Cedrena, Roberga, Gisla, Scolastica (AAR, S. Andrea, n. 11530; regesto in ZATTONI, scheda n. 225, ms); nel 1172 Guilia, Lazara, Agnes e Adalasia (AAR, S. Andrea, n. 11602; regesto in ZATTONI, scheda n. 299, ms), nel 1188 Signa Lazarae, Adalasiae, Manfredae, Donellae, Remgardae (AAR, S. Andrea, n. 11656; regesto in ZATTONI, scheda n. 358, ms), nel 1255: Domine Gualdrata, Benedicta, Zanecta, Daria & Garisenda (FANTUZZI, I, n. CLXVIII, p. 358); nel 1286 Sapia, Rengarda, Zanneta, Bernardina, Margarita, Thomassina, Agnese, Dianora, Romea, Bartholina, & hisela (regesto in FANTUZZI, II, CL/57 p. 392).

23

Sempre per l’XI secolo, dal 1055 al 1078, la maggior parte delle carte venne rogata da Deusdedit in Dei nomine tabellio Ravenne.

69 patrimonio: si tratta perlopiù di semplici riferimenti a determinati ambienti dove avevano luogo le transazioni, in genere contenuti nella datazione topica degli atti. Fonti cartografiche e narrative sono disponibili solo a partire da periodi posteriori (XVII – XVIII secolo). Risultano particolarmente interessanti, a volte anche per il carattere dettagliato e vivido delle descrizioni, le Visite Pastorali effettuate dalla metà del XVI secolo in poi e oggi conservate presso l’Archivio Arcivescovile di Ravenna.

Come per il complesso di San Severo e Sant’Apollinare in Classe, anche in questo caso l’edificio di culto è anteriore all’istituzione del cenobio. La basilica venne edificata infatti prima dell’episcopato di Massimiano (546 – 556) che rinnovò una precedente chiesa, forse di culto ariano24: l’abbellì con colonne in marmo, sostituendo quelle preesistenti in legno25; in seguito a questo intervento, le tre navate della chiesa furono scandite da 18 colonne marmoree. Lo stesso vescovo volle essere seppellito qui (iuxta altarium), presso le reliquie dell’apostolo Andrea che aveva trasportato da Costantinopoli26. Probabilmente, l’erezione della chiesa è da porre nel V secolo e potrebbero risalire alla fase iniziale alcuni mosaici pavimentali rinvenuti nel corso di scavi eseguiti presso la basilica nel XIX secolo. Dai dati di scavo raccolti durante questo intervento, è possibile intuire l’esistenza di restauri o rifacimenti nelle strutture murarie, probabilmente di età altomedievale27. Alcune indagini effettuate nel 2000 hanno poi identificato altri interventi nella struttura tardoantica, in particolare un rifacimento della parte anteriore della navata centrale e delle arcate28. Il vescovo Teodoro (677 - 691), nell’VIII secolo, la dotò di un ambone monumentale, oggi scomparso29. L’intera chiesa probabilmente venne poi ristrutturata dall’arcivescovo Gebeardo (1027 – 1044)30. In un momento imprecisato (forse contestualmente a questi ultimi interventi) venne aggiunto anche il campanile cilindrico, oggi scomparso, ma di cui si possiede uno spaccato effettuato dal Cuppini prima delle demolizioni del XIX secolo e un disegno di Gaetano Savini degli inizi del ‘90031. Nel 1059, l’arcivescovo Enrico provvide alla costruzione della “confessione”, ossia della cripta, dedicata ai santi Maurizio, Adalberto, Pancrazio, Nicola, Giorgio, Biagio, Teodoro e Lucio.

Per quanto riguarda le strutture del monastero, il Savini le colloca a Est della basilica: “e si

distendeva fino alla strada in allora dinominata di S. Andrea, ed ora di Porta Aurea”32. Lo

stesso, poi, individuava parte di una muratura con arcate (da lui datate al XIII secolo), attribuita al monastero, inglobata nel muro di recinzione dell’orto dei Cappuccini. Nelle carte, la prima esplicita menzione a “claustra monasterii Sancti Andree apostoli Domini qui vocatur Maioris” è in un documento del giugno 1022; la stessa datazione topica comparirà in numerosi documenti almeno fino al XIII secolo inoltrato. Nel 1039, la badessa investiva Iohannes qui vocatur Blanco di alcuni possedimenti per la sorella. L’atto è datato “in stava monasterii Sancti Andree Maioris”:

24

CIRELLI 2008, p. 207.

25

SAVINI 1905 – 907, III, p. 11. Nei pressi della chiesa, venne rinvenuto un frammento di pulvino con scolpito il monogramma del vescovo. (CIRELLI 2008, p. 207).

26

I resti del vescovo vennero traslati una prima volta nella prima metà del IX secolo a causa di infiltrazioni d’acqua dal sottosuolo; alla traslazione assistette lo stesso Andrea Agnello. Nella seconda metà del XVII secolo vennero trasferiti in una cassa lignea custodita presso il coro delle monache e il sarcofago fu venduto (BALDINI 2002, p. 40).

27

Ciò è stato dedotto in base al ritrovamento di un lacerto di muratura sovrapposto ai pavimenti in mosaico e contenente un frammento di epigrafe di VI secolo (CIRELLI 2008, p. 208).

28

MANZELLI 2003, pp. 65 – 66.

29

CIRELLI 2008, p. 208.

30

BALDINI 2003, p. 40 (da L. A. Muratori, Rerum italicarum scriptores, vol. II p. 207 e vol. IX p. 185).

31

MUZZIOLI 1987, p. VIII.

32

70 impossibile stabilire cosa si intenda con il termine stava33. Occorre giungere al 1260 per avere altre informazioni relative agli ambienti del monastero: nel parlatorio viene datata la concessione rilasciata nel gennaio 1260 (“Ravenne, in parlatorio monasterii S. Andree apostoli”)34, che comparirà anche in altri documenti successivi; appare comunque verosimile che tale luogo fosse presente ben da prima35. Un inventario delle cose e beni posseduti dalla comunità religiosa, datato al 1263, consente di acquisire qualche altra informazione a proposito degli edifici36: l’elenco, infatti, fa esplicito riferimento all’esistenza di almeno una caminata e del dormitorio (dormetorio); è citato anche il “lecto domine abbatisse”, senza specificare se fosse in una stanza a parte o nel dormitorio. La carta riporta l’inventario degli oggetti posseduti dal monastero (mobilio, oggetti liturgici e vasellame prezioso, biancheria, libri): la lista inizia con l’elenco dei “saccus cartarum” (cioè i contenitori dei documenti relativi ai possedimenti, suddivisi per località) che è verosimile immaginare conservati in un ambiente apposito, visto il loro alto numero37; vengono elencati anche gli animali, da cui si deduce che Sant’Andrea doveva disporre non solo di strutture per l’immagazzinamento dei cereali e del vino, ma pure di stalle per il ricovero delle bestie38. In più, il fatto che le religiose ricevessero, come calciario, dei libri potrebbe far supporre l’esistenza di una biblioteca o comunque di un luogo per la loro collocazione.

Come già detto, è possibile avere un’idea meno indefinita del monastero prendendo in considerazione le relazioni delle Visite Pastorali, effettuate presso gli enti religiosi per verificarne le condizioni, pratica istituita dal Concilio di Trento a metà del XVI secolo39. Ovviamente, le descrizioni vennero effettuate diversi secoli dopo il periodo preso in esame e, sulla base dei soli scritti, non è possibile affermare quanto degli edifici medievali fosse ancora conservato. Le informazioni, pertanto, devono essere prese solo a livello indicativo e riferite al periodo in cui vennero eseguite le ispezioni. La prima utile risale al 1583: dal documento si apprende che il dormitorio delle monache risultava piccolo, stretto, basso e poco illuminato; la cucina era semplice e il refettorio spoglio. Nel complesso, sembrerebbe di poter intuire che le strutture fossero piuttosto antiquate. Il monastero era poi dotato anche di cantine e granai: strutture simili dovevano essere presenti anche negli edifici medievali dal momento che qui venivano portati i canoni dovuti dai concessionari per le terre allocate. Nemmeno dieci anni dopo, nel 1591, parte delle strutture monastiche risultavano pericolanti: la cucina è detta vecchia e mancavano diversi ambienti indispensabili alla vita claustrale (la sala capitolare, l’infermeria, il guardaroba, la cancelleria). Disastrosa anche la situazione del dormitorio: i letti, disposti su tre ordini, non erano sufficienti e l’ambiente era poco areato. Per questo motivo le

33

AAR, Sant'Andrea, n. 11417 (A); edito in BENERICETTI 2009, pp. 176 – 178.

34

ASR, S. Andrea Vol. 1966 a p. 28; regesto in Bernicoli, XIII, p. 114.

35

Dalla Sacra Visita del 1786 voluta dall’Arcivescovo Codronchi, si apprende che, a quel tempo, il parlatorio era nei pressi dell’ingresso, in via Porta Aurea (un tempo via Sant’Andrea)

36

ASR, vol. 1966, pag. 46-47; regesto in Bernicoli XIII, p. 129.

37

“Saccus cartarum Raven. nove/ saccus cartarum de Raven. antique/ saccus cartarumet brivilegiorum/ saccus cartarum longane et godarie/ saccus cartarumCesene/ saccus cartarum novissime faventie/ saccus cartarumet privilegior. magnus/ carte de persolino et menzanigo/ carte plebis S. Pancratii/ de plebe S. Laurencii de vado rondino/ carte terr. pensariensis/ saccus cartarumpauci valoris/ saccus cartarumcervie/ saccus cartarumbozoleti et fili de ultra padum et capite sandali/ carte territ.ii corneliensis plebe S. Stephani in barbiano, S. Iohannis in libba, S. APollenaris Aquaviva, de feudo Centi et Armezani/ saccus cartarum S. Marie in furcoli/ saccus cartarum territ.ii Popiliensis et plebis ipsius/ carte de plebatu S. Zaccarie/ Territ. Faventie/ saccus cartarum inter Monasterium S. Salvestri et S. Andree” (Ibidem).

38

“Item XVIII inter porco set porcas/ Item XVI inter sunculos et sunculas/ Unum jumentum baium et/ unam puledra de supra anno”.

39

71 famiglie delle monache iniziarono a far costruire delle camere nuove a proprie spese (sembra nel lato meridionale del complesso)40. Probabilmente anche la chiesa non era in ottime condizioni se, nel 1605, l’edificio era già stato ridotto ad una sola navata41. Nel 1636 Ravenna venne colpita da un’alluvione e anche il monastero femminile subì danni consistenti. Sulla vicenda è conservata una cronaca scritta proprio da una delle religiose del cenobio benedettino, datata all’8 marzo 1637 e intitolata “Memoria dell’Acqua”42. Nello scritto la monaca racconta cosa accadde alla comunità nei giorni dell’alluvione, descrive come l’acqua entrò nel monastero e, in sintesi, i danni che il complesso subì: le spese per il restauro degli edifici furono di seicento scudi (per recuperarli, la badessa dovette accettare di concedere in anticipo l’abito monastico a due probande). Oltre a ciò, dal momento che un lato della proprietà monastica confinava con le mura cittadine, la comunità dovette partecipare anche alle spese per ripristinare la cinta: non è difficile immaginare che l’impegno economico non dovette essere indifferente per il cenobio. Anche in seguito, come si apprende da una lettera del 1653, il monastero ebbe problemi: infatti, la comunità voleva rialzare il pavimento della basilica, da cui continuava ad affiorare acqua, intralciando lo svolgimento regolare delle funzioni religiose43. Dallo stesso documento si apprende che “qualcuno” era interessato all’acquisto delle colonne marmoree, offerta – di certo non disinteressata – da collegare all’inondazione e alle sue conseguenze, sia sulle strutture che sulla situazione finanziaria del monastero. I lavori vennero eseguiti al tempo del Cardinale Altieri, nel 167044: l’edificio venne così rialzato e privato di molti elementi liturgici in marmo. E’ proprio nel corso del XVII e XVIII secolo che consistenti interventi furono eseguiti presso le strutture del complesso, sia al fine di rendere più confortevole la vita delle monache (come ad esempio la costruzione di nuove celle, erette anche sopra il refettorio e tramandate “ad uso ereditario” nelle famiglie), sia per adeguarle ai dettami canonici (costruzione del noviziato e dell’educandato). Una descrizione molto accurata delle strutture del complesso venne stilata in occasione della Sacra Visita voluta dall’arcivescovo Codronchi nel 1786, di poco successiva ai lavori di ammodernamento terminati nel 1784 per adeguare le strutture monastiche alle norme canoniche: dalla descrizione è possibile conoscere la disposizione degli spazi, la loro funzione e anche parte degli arredi45.

Nel 1798 il monastero fu soppresso e verosimilmente ciò causò anche l’abbandono della basilica, sconsacrata tre anni dopo e in parte venduta a privati. Il Tarlazzi, nel 1806, ne vide i ruderi46. Qualche anno dopo, nel 1810, le strutture del monastero vennero abbattute e in parte incorporate in nuove costruzioni. Oggi, della chiesa, si conserva parzialmente ancora la facciata, in cui sono visibili l’ingresso, costituito da un’arcata a tutto sesto, tre aperture circolari e alcuni elementi di arredo architettonico in marmo, riutilizzati nelle murature. Oltre a ciò, sono ancora visibili i muri perimetrali della navata Est, con le arcate interne tamponate.

40

Ibidem.

41

AAR, “Sacra Visita” Prot. N.. 3, c. 49.

42

BALDINI Il velo segreto, pp. 86 – 87.

43

Le più vecchie strutture del monastero risultavano molto più basse del piano di calpestio.

44

Epigrafe del 1672. Savini li data al 1673 (SAVINI 1905 – 907, III, p. 11).

45

Una esaustiva sintesi della visita si trova in BALDINI 2003 pp. 43 - 47, in cui si fornisce anche una planimetria ipotetica (pp. 120-121).

46

72

Patrimonio monastico

Come necessaria premessa all’analisi del patrimonio, si ritiene indispensabile fare un breve richiamo alle edizioni utilizzate, dal momento che – in parte – queste hanno influenzato i risultati ottenuti. Se dell’XI secolo è stato possibile utilizzare l’edizione integrale dei documenti47, per i restanti secoli sono invece stati consultati i regesta compilati dallo Zattoni: purtroppo, spesso l’autore non ha riportato le pensio pattuite e le indicazioni confinarie dei beni fondiari, limitando pertanto le informazioni disponibili, soprattutto per quanto riguarda la possibilità di ricostruire il contesto nel quale i possedimenti erano collocati, i canoni ottenuti e le richieste avanzate dalle badesse.

Dall’insieme delle carte emerge chiaramente come la prima metà dell’XI secolo costituì un momento critico per quanto riguarda il mantenimento della proprietà su parte del patrimonio di Sant’Andrea. Diversi fattori probabilmente furono all’origine di questa situazione, primo fra tutti la politica dell’arcivescovo Etelberto, propenso a concedere diversi diritti signorili ai laici su beni ecclesiastici48; ebbe un certo perso anche il passaggio di proprietà da una comunità monastica all’altra, di cui approfittarono i concessionari per impossessarsi delle terre ottenute dai non più esistenti enti religiosi. Numerosi sono infatti i documenti che attestano i tentativi messi in atto dalle badesse per riottenere il controllo sui beni, costituiti sia dalle richieste avanzate dai rappresentanti del monastero alle autorità preposte, forse incoraggiati dall’opposizione alla nobiltà locale del nuovo arcivescovo Arnoldo (1014 – 1019), sia da

refutationes eseguite dai concessionari. Non sempre è possibile conoscere come si conclusero le liti; in alcuni casi i possedimenti vennero riconosciuti di diritto del monastero, anche se scompaiono dalle fonti successive, facendo nascere il sospetto che, forse, non sempre le badesse di fatto riuscirono a riottenerli. A tale riguardo, risulta particolarmente significativo l’esempio dei possedimenti collocati nel Forlimpopolese: della loro esistenza si ha testimonianza solo dal placito tenuto nel giugno del 1055, durante il quale i missi imperiali

investirono l’avvocato di Sant’Andrea dei beni da quest’ultimo reclamati sugli usurpatori, già appartenuti al monastero di San Martino e collocati nel piviere cittadino e nel resto del territorio di Forlimpopoli49. Stando al documento, si trattava di una dotazione piuttosto consistente, in quanto costituita da circa quattordici fondi o parti di essi. Di fatto, però, nell’archivio monastico nessuno dei documenti successivi ha come oggetto questi beni fondiari.

Per tutelarsi dalle usurpazioni e trovare alleati potenti, le badesse costruirono una rete di relazioni con chi era in grado di proteggere il patrimonio del monastero, dando in locazione parte delle proprietà fondiarie: esemplare, in questo senso, è la concessione effettuata nel 1037 ai conti di Imola, gli stessi che furono chiamati a giudicare su alcune delle rivendicazioni di cui si è detto50. In tutti questi atti le badesse non sembrano mai agire in prima persona, o comunque da sole, ma erano rappresentate sempre da un avocatore o un procurator, tra i quali spicca la figura del tabellione Costantino, che rivestì tale carica per circa due decenni.

47

Cfr. supra, p. 67.

48

PIERPAOLI 2001, p. 12; PASQUALI 1989, p. 284. L’arcivescovo, sebbene ordinato dal pontefice, non fu invece riconosciuto dall’imperatore Enrico II.

49

AAR, Sant'Andrea, n. 11431(A); edito in BENERICETTI 2010, pp. 9 – 11.

50

73 Sempre alla prima metà dell’XI secolo risalgono anche altri documenti di tipo pubblico, come il privilegio di Corrado II del 1037 o la conferma arcivescovile del 1028, volti a consolidare e sostenere l’appena costituita comunità monastica. Anche nei secoli successivi, tuttavia, le monache dovettero difendere il patrimonio monastico dalle usurpazioni, soprattutto dei signori locali, sia laici che religiosi. Ad esempio, nel XIII secolo Sant’Andrea fu impegnato in una serie di contese relative ai possedimenti collocati presso Bozoleto, nel Ferrarese. Ruggero Benericetti ha collegato l’acuirsi delle usurpazioni ai periodi di debolezza del potere centrale, impossibilitato a difendere le comunità monastiche dalle mire espansionistiche delle forze locali; ne sarebbe un indice il fatto che, durante la vacanza della sede imperiale o arcivescovile, la documentazione del monastero diminuisce sensibilmente51. Oltre alle usurpazioni da parte dei signori laici, la proprietà delle religiose venne indebolita anche da alcuni arcivescovi: in particolare, a metà del XIII secolo, parte del patrimonio di Sant’Andrea (e non solo) fu utilizzato dall’arcivescovo Filippo per consolidare la propria rete di alleanze, privando il monastero della possibilità di gestire liberamente i possedimenti collocati nel Ferrarese e presso Lugo, forse concessi ad Azzo VII Este come fece con i beni di San Severo collocati nel territorio di Ferrara52. I documenti testimoniano come le religiose ritornassero in seguito in possesso solo in parte di tali proprietà.

Il patrimonio era disperso in numerosi territori (nel Faentino acto Corneliense, in quello di Faenza, nel Decimano, nel Cesenate e nel Cervese) (Figura 19) e, tranne Ravenna e una mansio domnicata presso Faenza, sembrano del tutto assenti – almeno dai documenti – proprietà urbane nelle città a cui questi territori facevano riferimento.

Figura 19: localizzazione dei possedimenti monastici attestati nei documenti in base al grado di localizzazione (rosa,

zonale; verde: incerta; azzurro: indefinita; rosso: impossibile).

E’ possibile individuare alcuni nuclei fondiari che emergono sia per consistenza dei possedimenti, sia per l’interesse dimostrato dalle monache nella loro gestione, in genere attestato dal numero delle concessioni rilasciate. Il primo di essi può essere identificato nella località Roeta, (Figura 20) collocata nel piviere di San Pietro in Brussita, dove la comunità

51

BENERICETTI 2009, p. XVI

52

74 monastica possedevano numerosi mansi dati in locazione con contratti di livello; le religiose erano entrate in possesso di questi beni da Santa Maria, che già aveva manifestato un certo attivismo nello sfruttamento agricolo della zona. Un secondo nucleo va individuato presso l’odierno centro di Lugo, dove Sant’Andrea possedeva diversi fondi, già di Santa Maria: attraverso la concessione di numerosi appezzamenti (dal XIII secolo definiti casamenta, da intendersi come terreno su cui costruire o come nucleo edile, comunque indice di un insediamento sparso) collocati nel fondo Cento, Sant’Andrea partecipò allo sviluppo di Lugo53. Infine, dalle carte emerge anche la località Longana, collocata presso la pieve di Sant’Apollinare in Ronco.

Figura 20: nuclei patrimoniali di Sant’Andrea.

Se in altre zone il patrimonio risulta maggiormente disperso, con possedimenti collocati su più fondi, ciò non implica che fosse meno significativo, sia per consistenza che per funzione. Ad esempio, a Bozoleto, nel piviere di Santa Maria in Porto Maggiore (Ferrara), le monache possedevano una peschiera, già di proprietà del monastero maschile, oltre a terreni a selva e

valli: da questi beni, per i quali non sembra attestata una significativa messa a coltura delle terre, si potevano ottenere pesci, uccelli e cacciagione, prodotti fondamentali per la dieta monastica. Ciò emerge chiaramente nella concessione rilasciata nel 1217 dalla badessa

Gualdrada a tale Alberto Michaeli: in cambio della “vallem Bozoleti cum aquis, piscationibus, venationibus”, il concessionario si impegnava a fornire un determinato quantitativo di pesce, di cui è specificato il tipo, in determinati giorni dell’anno (Quadragesima majori, Quadragesima S. Martini in Vigilia S. Andreae), forse quando le monache dovevano “mangiare di magro”54. In più, Alberto avrebbe pescato, un giorno all’anno, per le religiose.

Procedendo da Nord, nel territorio Faventino acto Corneliense, il contesto ambientale nel quale

erano inserite le proprietà fondiarie sembra rimanere caratterizzato dall’incolto fino al XIII secolo, soprattutto per quanto riguarda i beni collocati nei pivieri di San Pietro in Transilva e di San Pietro in Brussita/Santa Maria in Furculis. Dove risulta meno consolidato l’assetto agrario le monache sembrano incentivare la messa a coltura di nuove terre, sia tramite concessioni a

53

VASINA 1995, p. 178. PASQUALI 2003, p. 26.

54

“cum pensione 20. solid. den. Venet. in quadragesima majori pisces 200 capitaneos, lucios, & Tinchas, & alios 200 pisces in Quadragesima S. Martini in Vigilia S. Andreae; item 100 anguillas. Item pro ipsa oni anno piscari debebant una die. Dedit etiam terram in eodem loco sub terratico cum pensione dandi septimam partem de fructibus” (indice edito in FANTUZZI, II, CXXXXIII/56, p. 336).

75 lunghissimo termine (enfiteusi), sia con la richiesta di canoni più lievi. In questa zona, l’organizzazione delle proprietà faceva riferimento a Ravenna, dove erano portati i canoni in natura direttamente dai livellari o consegnandoli al porto di Libba.

Nel Faentino, le monache avevano possedimenti in diversi pivieri e, complessivamente, lo sfruttamento agricolo risulta più intenso e consolidato. Forse anche per questo, Sant’Andrea disponeva qui di alcuni centri gestionali collocati nel territorio, con funzioni di coordinamento rispetto ai beni posti nei dintorni (Figura 21); oltre a ciò, non si può escludere che anche i rapporti conflittuali, fin dalla seconda metà dell’XI secolo, tra le due città portarono a

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