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Luigi SONNENFELD

Nel documento Quanto resta della notte? (pagine 55-58)

Giorni fa, un giovane ricercatore della Fondazione Basso, Andrea Mulas, ha postato su Fb un dato di Ignazio Visco, governatore di Bankitalia: L’Italia è

“al primo posto per la percentuale di giovani tra i 15 e i 29 anni che non stu-diano, non lavorano e non seguono percorsi di formazione”.

Si tratta del 22% della popolazione in questa fascia di età che sale al 33% nel Mezzogiorno.

Ho creduto di commentare a caldo il post di Mulas da lui intitolato “Gli esclu-si”, così:

“Dati come questi sono un grosso punto interrogativo per il domani. Giovani senza ‘domani’, campati come ‘signorini’, non hanno bisogno di progettare niente, interessati solo a ‘consumare’ ”.

No. non è il lavoro che manca il problema principale, ma questa progressiva assuefazione a vivere bene senza lavorare.

Gli sciami di api, quando riescono a procurarsi il miele entrando negli alve-ari più deboli, perdono l’abitudine al lavoro per produrre miele e lo vanno a predare dove è già fatto. E, una volta sperimentata questa “scorciatoia” rinun-ziano a tornare sui loro passi raccogliendo il polline e assalgono altri alveari per saccheggiarli.

Una parola che nelle chiese dovrebbe risuonare: “Chi non lavora, non mangi!”.

Ma quando mai la chiesa si occupa di giustizia? Di caritas semmai e pastorale giovanile fatta di viaggi e vacanze; in luoghi santi e percorsi spirituali, benin-teso.

Mi inquieta la rinuncia di vescovi e di preti all’esercizio del discernimento e della profezia. E il conseguente approdo dei “fedeli laici” ad un consumo religioso di garanzia del buon giudizio da parte di Dio e della gratificante constatazione di essere “dalla parte giusta”.

In tempi come questi, dominati dalla pandemia in atto, può apparire eccessi-vo puntare l’attenzione su che tipo di società stiamo costruendo con i nostri comportamenti e quindi su quali elementi stiamo disegnando il nostro stesso profilo umano.

Ma come evitare di interrogarci se ancora possiamo parlare di “esclusione”

nei confronti di questa rilevante percentuale di giovani che, nel nostro paese, non lavorano, o invece soffermarsi per esempio sulla recente, comunque di-scussa analisi di Luca Ricolfi nel libro “La società signorile di massa” (La nave di Teseo editore 2019) che scardina le idee correnti sulla società in cui viviamo.

Luca Ricolfi sociologo, insegna Analisi dei dati presso l’Università di Torino, città in cui è nato nel 1950.

Oggi – egli argomenta – per la prima volta nella storia d’Italia, ricorrono in-sieme tre condizioni: il numero di cittadini che non lavorano ha superato am-piamente il numero di cittadini che lavorano (questo dal 1964); l’accesso ai consumi opulenti ha raggiunto una larga parte della popolazione (tra gli anni

‘80 e i primi anni del duemila); l’economia è entrata in stagnazione e la pro-duttività è ferma da vent’anni (sicuramente dal 2008).

Questi tre fatti hanno aperto la strada all’affermazione di un tipo nuovo di organizzazione sociale, che si regge su tre pilastri: la ricchezza accumulata dai padri, la distruzione di scuola e università, una infrastruttura di tipo para-schiavistico.

Una domanda: qual è il futuro di una società in cui molti consumano e pochi producono? Dove stiamo andando?

Domande per niente affatto facili, complesse... specie quando cercano di met-tere insieme dati e riferimenti spesso su piani diversi.

Il linguaggio biblico appare lontanissimo, la preghiera balbetta invocazioni generiche, Dio sembra assente, estraneo, del tutto silenzioso.

Eppure, nella paziente ricerca di rispondere al silenzio di Dio con il proprio silenzio, alcune piccole fiammelle impediscono al buio di prendere il soprav-vento. Non sono finestre aperte sul mondo, piuttosto modestissime illumina-zioni sufficienti a non favorirne la assoluta chiusura.

“Ezechiele – Il Signore mi rivolse la parola – denunzia apertamente quelli che si credono profeti in Israele e profetizzano secondo i propri desideri… Essi ingannano il mio popolo quando dicono che tutto va bene, mentre non va bene niente. Il popolo costruisce un muro pieno di crepe, ma quei profeti si limita-no solo a ricoprirlo di calce. Dì a quei muratori da strapazzo: Il muro crolle-rà! Verrà una pioggia torrenziale, cadrà la grandine, si scatenerà un uragano.

Quando il muro crollerà, vi chiederanno a che cosa sia servita la calce con cui l’avete ricoperto”. (Ezechiele 13, 1ss.).

Con alcune favole, Ezechiele cerca di convincere il popolo che l’esilio è la con-seguenza del peccato del popolo: d’ora innanzi ognuno dovrà riconoscere la propria responsabilità personale e Dio, Signore della storia, ricostruirà il suo popolo sulla base di un totale rinnovamento interiore e di vita (capitoli 33-39):

“Lo ripeto: io, Dio il Signore, non desidero la morte di nessuno. Cambiate vita e vivrete!” (Ezechiele 18, 32).

Cambiare vita inizia dalla assunzione della propria responsabilità nei con-fronti della vita concreta, così come si presenta.

Questo passo iniziale ci costa fatica, mette a nudo la nostra inclinazione al giudizio, il nostro peccato immerso nella facilità con cui giudichiamo.

Ricordo – con commossa nostalgia – le serate trascorse intorno al lungo tavolo sotto la tettoia della Cascina G, animate da don Gino Piccio. E, negli anni, al-cuni “giochi” si ripetevano, anche perché non perdevano affatto il loro ruolo pedagogico. Tra questi, una intricata vicenda intorno a un castello, circondato da un grande fossato, con tanti personaggi che implicavano oltre alla presen-za della bella moglie del castellano spesso assente per spirito di avventura guerresca, anche l’ardente proprietario di un castello vicino che non si capa-citava come potesse essere lasciata sola una così bella creatura. E come tra scudieri, cavalieri, barcaioli, trovatori, damigelle e fantesche, combinassero un pasticcio fino all’uccisione della bella da parte del marito rientrato troppo presto da un paese lontano.

Alla fine la fatidica domanda di don Gino a tutto il gruppo affascinato dalla sua capacità affabulatrice: “Di chi è la responsabilità?”.

Divisi in gruppetti, affannati a discutere “per me questo, no, per me quest’al-tro…”, ogni gruppo presentava alla fine la propria conclusione.

Salomonica la conclusione di don Gino: “Ognuno ha la SUA responsabilità nella vicenda”.

A questo, ancora una volta, ci richiama il silenzio di Dio. Non possiamo elu-dere il suo invito, cercare di giustificare la propria resistenza chiamando altri come complici o colpevoli...

“Il Silenzio è tutto ciò che temiamo C’è riscatto in una Voce

ma il Silenzio è Infinità.

In sé non ha un volto”.

(Emily Dickinson)

Nel documento Quanto resta della notte? (pagine 55-58)