• Non ci sono risultati.

IL LUOGO, LA SCALA E IL TEMPIO: ADRIANO NON ERA SOLO UN

PROGETTISTA

ANDREA CALIFANO Dottorando DSDRA, Sapienza Università di Roma. Architetto, nato a Benevento,1990.

Si laurea all’Università degli Studi di Firenze (2016) e si diploma alla Scuola di Specializzazione In Beni Architettonici e del Paesaggio allo Iuav (2020). Studia metodi e criteri del restauro del moderno ed è attualmente Dottorando in Restauro al Dipartimento di Storia Disegno e Restauro dell’Architettura.

“[…] che cosa mi ha impressionato? […] era un uomo di progetto, e questo non è un paese dove si progetta” (Vittoria, 1988).Sono le parole con cui il fedele architetto e amico Eduardo Vittoria ritrae Adriano Olivetti; una profonda ammirazione che condivideranno tra gli altri anche Ludovico Quaroni e Ludovico Barbiano di Belgioioso1. La capacità concreta dell’Ing. Olivetti di pro-iettare il suo pensiero, di immaginare un’alternativa possibile, un futuro diverso, non può che portare a definirlo un progettista. Ciò che semmai dovrebbe stupirci oggi è la continua e sempre maggiore attualità della sua idea di società, vita e lavoro, in un contesto che, in maniera quasi scontata, rimane invece statico e incapace di ideare e realizzare cambiamenti di questa portata.

Abbiamo forse ancora bisogno della Comunità per sfuggire ai disastri della contemporaneità? Molte delle considerazioni di Adriano, che mi permetto di chiamare per nome per la vicinanza delle sue parole, rimangono ancora attuali nel nostro sistema Italia. Una centralità che non riguarda tanto l’attuabilità della sua Comunità concreta, quanto piuttosto il suo modus operandi, le premesse che lo hanno portato a tracciare quel sentiero e che determinano tanto l’approccio critico con il quale si è posto degli interrogativi, quanto l’approccio metodologico con cui è riuscito a darvi delle risposte. La sua capacità di fondere tecnica e luogo alla ricerca di un fine più alto rappresenta ancora oggi un insegnamento per chiunque abbia a che fare con il progetto; siano essi architetti, ingegneri o urbanisti, ma anche pensatori, imprenditori o politici.

La buona riuscita di un progetto infatti, sebbene la gran parte di essi rimanga irrealizzata, dipende sempre dalla buona capacità di immaginare e di porre le giuste domande.

“Non rifiuto la scala delle conquiste che permettono all’uomo di salire più in alto. Ma non ho punto confuso il mezzo con lo scopo, la scala e il tempio. È urgente che la scala permetta l’accesso al tempio, altrimenti esso rimarrà deserto. Ma il tempio, solo, è importante. È urgente che l’uomo trovi intorno a sé i mezzi per ingrandirsi, ma essi non sono che la scala che porta all’uomo. L’anima che gli edificherò sarà cattedrale, perché essa, sola è importante” (Saint-Exupéry, 1956).

Mezzo e scopo, strumento, contenitore e contenuto: con le stesse parole di Antoine de Saint- Exupéry con cui prende avvio il Cammino della Comunità2 credo possano, con riverenza, muovere i primi passi le nostre riflessioni sulla figura di Adriano e sul suo approccio al progetto.

Al dittico scala e tempio proposto da Saint-Exupéry occorre però aggiungere, o meglio esplicitare, un terzo elemento sempre presente nel progetto di architettura: il sito da cui il tempio si eleva. Luogo, scala e tempio costituiscono così una triade che rappresenta metaforicamente gli elementi del progetto e che possono essere abbinati, come vedremo, ognuno a uno o più riflessioni sul concetto di progetto elaborate dell’Ingegnere.

Adriano infatti, figlio del fondatore della Olivetti&C. Camillo Olivetti, era un ingegnere laureatosi nel 1924 al Politecnico di Torino in chimica industriale, un uomo da sempre vicino alla scienza e alla tecnica, un pioniere dell’innovazione e dei processi di produzione che apprese egli stesso negli Stati Uniti. Eppure è una delle sue più grandi convinzioni quella che risuona nelle prime due righe delle parole di Saint-Exupéry: così come in molti suoi testi e discorsi afferma, non sono le conquiste della tecnica il suo più grande interesse; il motivo della sua ricerca risiede solo nell’edificazione del tempio.

1 Per le fonti da cui sono tratti i singoli pensieri degli architetti sulla figura di Olivetti, che in parte verranno riportati nella presente trattazione, si rimanda alla bibliografia.

2 La citazione di Antoine de Saint-Exupery è infatti riportata in esergo al brano Il cammino della Comunità nel libro-manifesto di Olivetti La città dell’uomo, quasi come fosse la rappresentazione dell’essenza del suo pensiero.

Ciò che risulta affascinante è che, nel pensiero di Olivetti, il ruolo della scala sembra essere svolto proprio dall’azienda paterna, dal mondo della tecnica e delle scoperte. Come è possibile dunque che l’ing. Olivetti, capo della più grande azienda di macchine da scrivere e calcolatori italiana, ponesse con tanta determinazione al secondo posto il ruolo della tecnica?

Adriano da ragazzo non era solo uno studente del Politecnico, desiderava fare il giornalista e, probabilmente, una parte di sé rimase uomo di lettere per tutta la sua vita: un ingegnere umanista che cercò di fondere la scienza e la tecnica con l’animo umano.

Ebbene si stabilisce proprio in questo un primo parallelo tra Adriano e l’arte del progetto: la ricerca e la sperimentazione sono fondamentali per permettere l’evoluzione del mondo e il suo adeguamento alle necessità sempre nuove dell’uomo, tuttavia la meta del viaggio non risiede nella ricerca della scoperta stessa, ma in un obiettivo spirituale prefissato più alto.

In uno dei suoi discorsi più famosi, rivolto ai lavoratori della fabbrica di Pozzuoli, nel giorno della sua inaugurazione, si domanda:

“Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente negli indici dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita della fabbrica?

Possiamo rispondere: c’è un fine nella nostra azione di ogni giorno, a Ivrea, come a Pozzuoli. […] Il tentativo sociale della fabbrica, […] risponde a una semplice idea: creare un’impresa di tipo nuovo […] La fabbrica di Ivrea, pur agendo in un mezzo economico e accettandone le regole, ha rivolto i suoi fini e le sue maggiori preoccupazioni all’elevazioni materiale, culturale, sociale[…] La nostra Società crede perciò nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura” (Olivetti, 2018a).

Uno degli aspetti affascinanti del pensiero di Adriano risiede proprio nel suo essere ricercatore al di là del contingente e dell’immediato: la continua crescita della sua azienda, gli studi, le innovazioni, le pubblicazioni della sua casa editrice, risultano semplici mezzi per il raggiungimento di un bene superiore. Analizzati in quest’ottica, i suoi investimenti imprenditoriali e i numerosissimi interventi architettonici da lui patrocinati, appaiono semplicemente come la cornice per raggiungere l’essenza, in un disvelamento tra l’ergon e il parergon3 (Derrida, 2018) che non si esaurisce esclusivamente nell’ambito produttivo-industriale. Il ruolo della scala infatti sembra non essere assunto solo dalla fabbrica o dalle sue innovazioni tecniche, ma anche dall’architettura. Interrogandosi al tempo della sua presidenza dell’Istituto Nazionale di Urbanistica a proposito della città e della sua pianificazione, seppur con elementi diversi, la ricerca appare la medesima:

“Che vale, che serve ricostruire città di marmo, affascinate di luci al neon, se il cuore della città, se pur vi è ancora visibile, è rimasto senz’anima, se in esso l’uomo, nel suo essere integrale, nella sua molteplice vita di relazione, nelle sue aspirazioni più alte e profonde, si trova perduto?” (Olivetti, 2018b).

Ciò non deve tuttavia sminuire il ruolo della scala, così come il valore della ricerca architettonica e urbanistica. La scala non fa solo sì che il tempio non rimanga deserto ma rappresenta il punto di contatto tra il tempio e il luogo, il terreno sul quale esso poggia, dal quale esso sorge e a cui

3 Il rapporto tra il velo e l’essenza viene ampliamente trattata in ambito filosofico da Derrida che, riprendendo la definizione kantiana di ergon (opera) e parergon (fuori d’opera), si interroga sul ruolo del limite e della cornice, del necessario e del superfluo per la comprensione dell’opera stessa.

è indissolubilmente legato. Il rapporto con il luogo è, come vedremo, un elemento centrale del progetto di Olivetti e si estrinseca non solo in un rapporto tra il tempio e il luogo ma anche in un rapporto tra il tempio e la scala e tra la scala e il luogo. L’analogia tra il velo e il corpo proposta da Jacques Derrida risulta quindi molto vicina a questo concetto: sebbene occorre evitare infatti che i parerga siano equivocati con l’essenza, in una certa misura, questi servono a mostrarlo. La scala non è quindi solo un banale mezzo, ma possiede un ruolo di mediazione, di filtro imprescindibile per comprendere il luogo e raggiungere il tempio: il suo ruolo ci spinge a non dare significato solo agli elementi come singoli ma anche alle loro relazioni. È questo uno dei tratti di Adriano che colpisce l’architetto Ludovico Quaroni, che così descrive l’Ingegnere:

“Quello che ho riscontrato in Adriano Olivetti e che praticamente non ho mai riscontrato in nessun altro politico, è il senso della necessità per qualsiasi azione […] di considerare che il rapporto fra le cose è più importante delle cose stesse […] E aveva capito che è inutile occuparsi della fabbrica se non ci si occupa degli operai; è inutile occuparsi degli operai in fabbrica se non ci si occupa del paese nel quale vivono questi operai […] Praticamente bisognava occuparsi di tutto. Da qui nasce il principio della globalità della sua attività. Quel suo punto di vista si è allargato senza mai dimenticare il principio sostanziale della progettazione di cui parlava – in senso lato – Vittoria” (Quaroni, 1988).

Basterebbero le capacità di Adriano viste sin qui per concordare a pieno con il pensiero di Vittoria: l’uso della tecnica, la capacità di interpretare relazioni, di precorrere i tempi, passando “dalla città al cucchiaio” o per meglio dire “dallo Stato alla macchina da scrivere” fanno senz’altro di Adriano un progettista.

Ma tutto ciò non è abbastanza. Occorre a questo punto, dopo aver percorso la scala, fermarsi sulla soglia del tempio, al quale sin qui si è solo accennato: cosa rappresenta dunque l’essenza della ricerca olivettiana? Ha senso oggi, in una realtà del tutto mutata dal punto di vista economico e produttivo, parlare ancora del tempio che l’Ingegnere ha con tutte le forze cercato di erigere?

Il sentiero di Adriano era teso alla realizzazione di un nuovo modo di vivere, equo, giusto, a una nuova società, una nuova suddivisione del territorio, a una nuova epoca in cui il suo presente si sarebbe fuso con il passato, la masseria con l’industria, la città con il paesaggio: così sarebbe sorta la Comunità. Il suo tempio è caratterizzato quindi da un afflato ideale, da un senso di cooperazione di un gruppo di persone legate dagli stessi interessi, dalle stesse vicende e racchiuse nello stesso territorio. D’altro canto la Comunità concreta non era uno stato utopico; non è un legame ideale a unire le persone che vivono la Comunità adrianea, ma lo stesso luogo di vita. È infatti a partire dal luogo che gli abitanti della Comunità trovano una loro identità, fatta di necessità e di valori comuni. Così nel tentativo di creare la sua Comunità, il pensiero di Adriano si lega al paesaggio e il tempio si ancora alla terra rifugiandosi nell’architettura. Alla ricerca degli dèi della casa o degli dèi del nostro tempio, Adriano individua proprio nella casa e nel paesaggio la rappresentazione del legame spirituale, richiamando quel senso caro all’architettura italiana che C. N. Schulz individua nel genius loci. Tra tempio e luogo si forma quindi un doppio legame, fisico e spirituale, creando un progetto in grado di vivere con il luogo e di nascere da questo. La ricerca del fine ultimo non crea quindi solo lo spazio dell’uomo, ma eleva il paesaggio stesso. È questo un altro tratto dell’Adriano progettista che lui stesso ribadisce: “non dimenticheremo che la casa dell’uomo deve avere uno spazio, un territorio; e che nella casa si trovano le cellule elementari […], la casa è anch’essa una comunità, anzi la prima di esse” (Olivetti, 2018c).

D’altronde cos’è la casa se non il luogo “dove il cuore umano fiorisce e l’intelletto compone” (Veesas, 1954)? E dove davvero inizia la casa di ognuno di noi, al di là del concetto di proprietà? Al rientro da un viaggio non sentiamo forse altrettanto casa le nostre montagne, le nostre strade come Knut sente il bosco in cui ogni giorno si reca per tagliare la legna?4

Giunti dunque alla fine del viaggio, una volta arrivati al tempio sembra possibile ribaltare la nostra piramide che ci ri-porta ad analizzare la base della triade, non solo come base da cui erigere il tempio, ma come ipotesi imprescindibile senza la quale il tempio non può essere eretto. Ri-partendo dal valore che ha per il tempio possiamo quindi tornare a guardare al luogo. La realizzazione del paesaggio di Adriano prende avvio dalla ricerca della dimensione perfetta: la Comunità potrà realizzarsi solo in un paesaggio a misura d’uomo e, proprio a partire da questa ricerca di un aureo limite, Adriano elaborerà la sua critica alla città moderna. La città raccontata dall’ingegnere è una metropoli-megalopoli che ha fagocitato il territorio che la circonda, annullando l’identità dei luoghi e le possibilità di vita dei suoi abitanti. I cittadini incapaci di mantenere la propria individualità si trasformano in una massa informe alla stregua di un gregge:

“Cosa riceve l’unità umana, finora ignorata da questo manicomio commerciale, in compenso dei disagi della ristrettezza, della demoralizzante perdita di libertà, dell’avvilente degradazione di un più vasto senso dello spazio?” (Olivetti, 2018d).

La città contemporanea, come quella moderna, si sta ancora perdendo nella ricerca della grandezza, trasformandosi piuttosto in una metropoli-necropoli che impedisce all’uomo di vivere nel suo ambiente ideale. La sua grandezza, come ricorda Aristotele, non risiede infatti nella dimensione, ma nella sua capacità di offrire lo spazio e i servizi atti a soddisfare i bisogni dei suoi cittadini: nessuna città che funzioni desidera ingrandirsi.

Tale fenomeno di accrescimento bulimico, come già aveva affermato Adriano, sta portando all’abbandono delle piccole realtà, allo spopolamento dei paesi del Sud Italia, così come dei villaggi alpini. Ieri come oggi il sogno di un’aspettativa di vita migliore spinge le persone a emigrare dai piccoli centri che continuano a soffrire una distanza eccessiva dalle possibilità di studio e lavoro, sebbene presentino qualità di vita più alte. In base a un rilevamento Anci, dal 1971 al 2015 sono 115 i comuni che hanno registrato da Nord a Sud un esodo dei residenti superiore al 60% (Calandra, 2019). E la perdita di ognuno di questi borghi significa la perdita di una parte irrecuperabile della nostra storia:

“Il grado di rispetto dovuto alle collettività umane deve essere molto elevato; e per vari motivi. Anzitutto, ognuna di esse è unica, e non può essere sostituita se viene distrutta. […] Il nutrimento che una collettività fornisce all’anima dei suoi membri non ha equivalenti in tutto l’universo. Poi, con la sua durata, la collettività penetra già l’avvenire. Contiene nutrimento non solo per le anime dei vivi ma anche per quegli esseri non ancora nati che verranno al mondo nei secoli a venire. E finalmente, per la stessa durata, la collettività ha le sue radici nel passato” (Olivetti, 2018d). Adriano auspicava una terza rivoluzione industriale con la quale, per mezzo di un decentramento della fabbrica dalla città alla campagna, si sarebbe potuto arrestare l’emigrazione dai piccoli centri, individuare le Comunità e giungere a un rinnovato rapporto uomo-paese-paesaggio.

4 Knut è il protagonista della storia scritta da T. Veesas. Lo scrittore norvegese racconta il rapporto di appartenenza e simbiosi del taglialegna con il bosco in cui ogni giorno si reca per lavoro; il valore del racconto risiede proprio nel bisogno di abitare che Knut sente nel luogo oltre che nella propria abitazione.

Sebbene l’attuale crisi del settore produttivo rimetta in discussione il ruolo che questo può giocare nella creazione di lavoro, il valore del pensiero di Adriano rimane inalterato: occorre ritornare a guardare al tempio piuttosto che fermarsi dinanzi ad una scala che le intemperie e il disuso hanno danneggiato. Ad oggi le strategie attuabili per il rilancio dei piccoli centri non mancano5, ma necessitano di un coordinamento e una visione condivisa da tutti coloro che dialogano con il progetto: politici, architetti, sociologi, filosofi e imprenditori. Il Terzo paradiso6 è possibile e in questo sta uno dei più grandi insegnamenti di Adriano: la sua realizzazione dipende solo dalla cooperazione di ogni uomo-giardiniere che gli uomini di progetto devono essere capaci di guidare7. Indipendentemente dalla scala che sceglieremo di progettare e realizzare, ognuno secondo le proprie competenze, occorre ri-tornare al tempio; è questa la sola strada per ricongiungere ciò che fino a ora abbiamo forzatamente separato.

Dopo aver analizzato gli elementi che costituiscono il progetto di Adriano e gli spunti ancora attuali che il suo pensiero rappresenta, intendo solo accennare ad un ulteriore spazio d’indagine, un nuovo sentiero che potrebbe portare l’ingegnere a essere visto come architetto. Sebbene Vittoria tratteggi chiaramente il valore di Olivetti come progettista e non come architetto8, il legame con la bellezza, il rapporto con la natura e la sua visione di paesaggio rendono l’ingegnere molto più che un progettista di idee o ideali. La sua concezione di architettura, come aveva sottolineato Belgiojoso (1988), mostrava infatti una visione quasi religiosa, fideistica nel modo di concepire i rapporti tra architettura e umanità: un legame inscindibile tra idee e realtà costruita. Rimanendo a contatto con l’architettura, Adriano ha probabilmente sviluppato una concezione sempre più materica della sua idea, che, seppur nelle

facies proprie ai singoli architetti, ha dato vita a elementi architettonici nati dalle idee dell’Ingegnere.

Se questi principi ed elementi a lui propri siano stati elaborati dagli architetti consciamente, o siano emersi inconsciamente, sarebbe interessante da indagare; ma ciò che appare chiaro è che sono diventati parte del progetto stesso: architettura.

La visione architettonica adrianea è presente in particolar modo nel rapporto che si instaura tra alcuni edifici degli anni ’50 e il paesaggio: in opere come la fabbrica di Pozzuoli, il villaggio della Martella o il centro civico del Canavese l’architettura sembra essere materia formata dell’idea olivettiana in un connubio uomo-architettura-natura. Un’architettura che, proprio per questo rapporto, verrebbe da definire mediterranea.

Il Centro Comunitario del Palazzo Canavese infatti, costruito nel 1952, unisce il lavoro sulle forme tipico dell’architetto-intellettuale Vittoria con un rapporto con il contesto legato alle idee dell’Ingegnere. L’aggregazione dei volumi e delle forme di matrice neo-realista di Vittoria si rapporta in maniera insolita per l’architetto con il paesaggio e il contesto urbano: ne risulta un’architettura che, direbbe Vittoria, “è nuova”, ma che al contempo mostra un rispetto per le preesistenze e un legame con il paesaggio. Tale fusione è rappresentata dalla corte-dematerializzata e dalle sue passerelle poste all’ingresso del centro, quasi come manifesto. È ovvio che tale risultato non

5 Rispetto alle possibilità di rilancio dei paesi in via d’abbandono si rimanda, a scopo esemplificativo, al progetto per il Centro storico di Castelvetere in Val Fortore (Califano, 2019) riportato in bibliografia.

6 La ricerca artistica di Michelangelo Pistoletto tratta gli stessi argomenti di Adriano e spinge l’uomo contemporaneo alla ricerca e realizzazione del Terzo Paradiso, un luogo, indentificato nell’intero pianeta terra, che deve ritornare ad essere un giardino (paradiso in persiano antico significa proprio giardino protetto) e in cui l’uomo deve riacquistare il suo ruolo di giardiniere.

7 Il lavoro di Adriano risulta esemplare anche nel suo tentativo di diffondere i saperi e preparare la cittadinanza alla “nuova epoca”. Risulta emblematica in questo senso la rivista Comunità e in particolare le annate dal 1958 al