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DELLE LIBERTÀ FONDAMENTAL

FORME ED ESPRESSIONI DI RAZZISMO E XENOFOBIA

3.4 M ECCANISMI DI TUTELA DALLA DISCRIMINAZIONE

La Direttiva 2000/43/CE dedica il suo art. 5 al tema delle azioni

positive.301 Tale disposizione consente agli Stati membri l’adozione o

il mantenimento di misure specifiche dirette ad evitare o compensare svantaggi connessi con una determinata razza o origine etnica, allo scopo di assicurare l’effettiva e completa parità, assumendo dunque

una funzione preventiva.302 In tale contesto, le condizioni di legittimità

delle azioni positive tendono ad essere valutate secondo il paradigma dell'eguaglianza di opportunità e di risultato, attribuendo una

preferenza per il primo approccio.303 La prospettiva, infatti,

301 Storicamente la nozione di “azione positiva” è emersa nel diritto europeo con la

Raccomandazione CEE n. 84/235, “Raccomandazione del Consiglio del 13 Dicembre 1984 sulla promozione di azioni positive a favore delle donne”, pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. L 331 del 19/12/1984, pp. 0034 ss., che sollecitava gli Stati alla realizzazione delle pari opportunità nei confronti delle donne rispetto all’accesso al lavoro e alla carriera professionale, e intendeva completare il quadro normativo per la realizzazione dell’eguaglianza effettiva tra uomini e donne nel lavoro.

302 D. Strazzari, Discriminazione razziale e diritto. Un'indagine comparata per un modello

«europeo» dell'antidiscriminazione, op. cit., p. 277.

303 La Corte di Giustizia nel caso Kalanke (Sentenza 17 Dicembre 1995, C-450/93) affronta la

questione della legittimità delle azioni positive per il genere. In essa la Corte aderisce alla distinzione concettuale tra azioni positive che perseguono l’uguaglianza di opportunità e quelle che perseguono l’uguaglianza di risultato, riconoscendo solo alle prime la compatibilità con l’ordinamento (allora) comunitario Questa sentenza assume una rilevanza particolare in quanto ha per oggetto una legge tedesca sulla parità uomo-donna nel pubblico impiego adottata nel Land di Brema che, di fatto, prevedeva una preferenza automatica nei confronti delle donne in tema di accesso al lavoro, finendo per creare una situazione di squilibrio a sfavore degli uomini. La Corte, in questa sentenza, riconosce che le azioni positive sono strumenti di eguaglianza sostanziale diretti ad eliminare gli ostacoli di fatto che pesano su certi gruppi sociali svantaggiati. Tuttavia accoglierà una versione “soft” delle azioni positive dichiarandole ammissibili solo se dirette a realizzare una parità di chance e non a garantire dei risultati prefissati. Cfr. A. Del Re, V. Longo, L. Perini, I confini della cittadinanza. Genere, partecipazione politica e vita quotidiana, Franco Angeli, Milano, 2010, p. 61. La sentenza Kalanke è estremamente significativa, perché evidenzia l’insufficienza delle leggi antidiscriminatorie emanate fino ad allora, finalizzate ad ottenere la parità delle donne in materia di accesso al lavoro e di promozioni. In effetti, malgrado i reali

dell’eguaglianza di opportunità ammette come legittime quelle azioni positive che siano tali da consentire ai membri dei gruppi svantaggiati di concorrere in modo paritario per l’allocazione delle risorse, facendo salvo il principio meritocratico e individualistico della tradizione

liberale. La Corte di Giustizia, nella sentenza Lommers,304 ha

precisato che la legittimità di tali misure trova un suo criterio di contemperamento nel principio di proporzionalità. Essa, infatti, osserva: “Nel determinare la portata di qualsiasi deroga ad un diritto

fondamentale, come quello alla parità di trattamento tra uomini e donne sancito dalla Direttiva, occorre rispettare il principio di proporzionalità che richiede che le limitazioni non eccedano quanto è adeguato e necessario per raggiungere lo scopo perseguito e prescrive di conciliare, per quanto possibile, il principio della parità di trattamento con le esigenze del fine perseguito”. Ciò sta a significare che bisognerà valutare in concreto quale sia, tra le diverse

progressi compiuti in tale campo, ad oggi il tasso di disoccupazione è più elevato fra le donne che tra gli uomini: nella maggior parte dei Paesi dell’Unione europea le donne costituiscono infatti ancora la maggioranza tra i disoccupati di lunga durata e spesso svolgono attività precarie, con scarse qualificazioni e retribuzioni inferiori.

304 Corte di Giustizia delle Comunità europee, Sentenza 19 Marzo 2002, Causa C-476/99,

Lommers v Minister van Landbouw, Natuurbeheer en Visserij, in eur-

lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX. La vicenda ha per oggetto il rifiuto del Ministro dell’agricoltura olandese di dare accesso al figlio del signor Lommer all’asilo nido sovvenzionato dallo stesso Ministro, in quanto i posti in numero limitato erano riservati alle donne sottorappresentate tra i dipendenti del Ministero. La Corte di Giustizia, investita del caso, ha ritenuto legittime le misure adottate, poiché aventi lo scopo di eliminare o ridurre le disparità di fatto esistenti in quel contesto socio-lavorativo. Nello specifico l’insufficienza delle strutture di accoglienza per i figli era tale da indurre più i lavoratori di sesso femminile a rinunciare alla loro occupazione, limitando così le opportunità di accesso al lavoro e di progressione di carriera.

possibili forme di azione positiva, la più idonea a garantire, comunque, margini di rispetto al principio di uguaglianza formale. Alla luce di tali considerazioni si fa strada la convinzione che le azioni positive possano agire, in taluni casi e condizionatamente alla presenza di certi presupposti, sull'inserimento sociale degli appartenenti a gruppi svantaggiati, assicurando loro un'effettiva preferenza nelle assunzioni e nelle promozioni.

Particolare rilievo, in tema di lotta alla discriminazione razziale nel quadro delineato dalla disposizione in esame, hanno le regole processuali, imposte agli Stati membri con il chiaro intento di dare effettività ai divieti di discriminazione.

Per un verso, gli Stati membri vengono obbligati a garantire alle vittime delle discriminazioni la possibilità di attivare procedure giurisdizionali e/o amministrative nonché - ove ritenuto opportuno dal legislatore nazionale - di natura conciliativa, promuovibili anche dopo

la cessazione del rapporto di lavoro305; per altro verso, si introduce e si

generalizza quel criterio di “quasi inversione dell’onere della prova”

305 Come acutamente rileva Chieco, tale previsione potrebbe entrare in conflitto con il terzo

comma dell’art. 7 della Direttiva, secondo il quale rimangono impregiudicate le norme nazionali relative ai termini per la proposizione di azioni relative al principio di parità di trattamento. Non può escludersi che, in qualche ordinamento nazionale, l’attivazione della procedura (giurisdizionale o amministrativa) avverso le discriminazioni (specie più risalenti nel tempo) dopo la cessazione del rapporto sia di fatto impedita dall’avvenuta maturazione del termine finale per proporre l’azione. P. Chieco, Le nuove direttive comunitarie sul divieto di discriminazione, op. cit., p. 108.

sin qui confinato a presidio di effettività delle sole discriminazioni per motivi di sesso.

La Direttiva 2000/43/CE dedica una particolare attenzione alla fase della tutela, mostrando l’intenzione del legislatore europeo in

primo luogo di migliorare l’attuazione della normativa europea306, ed

in secondo luogo di differenziarsi da quanto è accaduto in relazione alla discriminazione per il genere, dove la fase attuativa si è

dimostrata spesso debole.307

Le vie di tutela sono attuate mediante una doppia prospettiva: da un lato, si ha la valorizzazione dello strumento individuale dell’azione in giudizio, mentre dall’altro si ha l’affiancamento di un sistema di tutela dal carattere collettivo che presenta anche tratti di natura pubblicistica.

Per quanto concerne il ricorso individuale, un elemento fortemente innovativo è costituito dalla previsione relativa all’onere

della prova, infatti l’art. 8308 stabilisce che dovrà essere l’attore a far

sorgere, attraverso la deduzione in giudizio di elementi di fatto, la

306 D. Tega, Le discriminazioni razziali ed etniche, op. cit., p. 237.

307 D. Strazzari, Discriminazione razziale e diritto. Un'indagine comparata per un modello

«europeo» dell'antidiscriminazione, op. cit., p. 285.

308 Art. 8, par. 1: «Gli Stati membri prendono le misure necessarie, conformemente ai loro sistemi

giudiziari nazionali, per assicurare che, allorché persone che si ritengono lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio della parità di trattamento, espongono, dinanzi a un tribunale o a un’altra autorità competente, fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento».

presunzione che il convenuto abbia assunto un comportamento discriminatorio. Sarà compito di quest’ultimo dimostrare il contrario, con il rischio di soccombenza nel caso in cui non soddisfi il relativo

onere.309 Secondo Strazzari, tale dettame normativo, sotto questo

aspetto, sembra essersi ispirato più all’esperienza statunitense che non a quella degli Stati europei, poiché nella legislazione americana l’articolazione dell’onere probatorio conosce una netta ripartizione,

mentre nelle esperienze europee tale suddivisione appare più fluida.310

La disposizione contenuta nell’art. 8 non si applica né ai procedimenti penali né ai procedimenti in cui il giudice riveste un ruolo inquirente.

Riguardo alla seconda tipologia di tutela, l’art. 7, par. 2, prevede che gli Stati riconoscono ad associazioni, organizzazioni o altre persone giuridiche che abbiano un legittimo interesse a garantire che le posizioni di tale previsione siano rispettate, il diritto di avviare, in via giurisdizionale o amministrativa, per conto e a sostegno della persona che si ritiene lesa e con il suo consenso, una procedura contenziosa.311

309 N. Fiorita, Le direttive comunitarie in tema di lotta alla discriminazione, la loro tempestiva

attuazione e l’eterogenesi dei fini, in Quad. dir. pol. eccl., 2004, p. 365.

310 D. Strazzari, Discriminazione razziale e diritto. Un'indagine comparata per un modello

«europeo» dell'antidiscriminazione, op. cit., p. 286.

311 Non si tratta di una legittimazione diretta. Con la contrapposizione tra intervento “per conto”

della persona lesa, oppure “a sostegno” di questa, si fa riferimento alla distinzione tra le figure della rappresentanza volontaria, nel primo caso, e dell’intervento adesivo, nel secondo caso. Cfr. J. Cruz-Villalón, Lo sviluppo della tutela antidiscriminatoria nel diritto comunitario, op. cit., p. 370.