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Come si vede, dunque, molti sono i temi di interesse. Fra tutti, quello della mens occupa un ruolo di fatto centrale all’interno della magia divina di Pelagio. Magia che, a tutti gli effetti, si pone come una delle più immediate fonti di ispirazione a livello dottrinale per l’elaborazione di quella magia cerimoniale e spirituale che il discepolo Tritemio, per mezzo di Libanio, potrebbe aver trasmesso per via diretta al giovane affiliato Agrippa. Sarà infatti di questi l’affermazione, in apertura al suo terzo libro del De occulta philosophia, circa la univocità assunta dal principio mens nella riuscita completa della praxis magica.

Ma è proprio a Tritemio che ora è necessario tornare per vedere come il tema qui in questione sia stato sviluppato dall’abate. Intanto, un rapido riferimento storico-biografico non sarà inutile. È appunto nella sua autobiografia, nel

Nepiachus che Tritemio ricorda, oltre Libanio, anche Pelagio di Maiorca213, in

questi termini:

Hic aliquandiu cum Pelagio illo Monacho & Heremita in insula Majorica conversatus omnium Librorum ejus, mortuo illo, factus est haeres, & multa ab eo didicit arcana in Philosophia, in fide Christiana, de natura Spirituum bonorum & malorum, & de naturae mysteriis, & alia multa, quae non sunt passim vulgaria in Scholis hominum istius tempestatis. Iste, inquam, Libanius vir certe undecunque doctissimus, cernens mei dispositionem animi, & indefessum Studiorum affectum, congaudens dicebat mihi: Tritemium quaesivi & inveni, quem Minerva suo est dignata cognomine insigniri, dignumque facere, quem nihil debeat eorum latere, quae nos cum labore magno primum a Pelagio ac

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Più tardi, nel redigere i due possenti volumi di una opera a sfondo storico (cfr. J. Trithemius,

Annales Hirsaugienses: Opus nunquam hactenus editum, & ab Eruditis semper desideratum: Complectens Historiam Franciae Et Germaniae, Gesta Imperatorum, Regum, Principium, Episcoporum, Abbatum, Et Illustrium Virorum. Tomus II, Typis ejusdem Monasterji S. Galli, 1690,

pp. 585-586) Tritemio finirà per confondere l’eremita di Mayorca con un altro personaggio, il cui nome corrisponde ad un umanista ed erudito effettivamente esistito: Fernando di Cordoba. Su quest’ultima figura, cfr. L. Thorndike, History of Magic, cit., vol. IV, pp. 586-587. Benché i principali biografi di Tritemio non abbiano prestato molta attenzione a tale aspetto, Dupèbe (cfr. “Curiositè”, cit., p. 83; “Pélagius”, cit., p. 142) ha fatto notare che questo non può che essere un errore imputabile alla vecchiaia di Tritemio, perché ciò indurrebbe a riportare la figura dell’eremita nell’alveo della tradizione lulliana, il che sembra altamente improbabile.

deinde a Joanne Pico Mirandulano Comite, aliisque multis per annos triginta capere potuimus214.

Così fra Tritemio e Libanio Gallo si ripete, impersonalmente, il medesimo passaggio di influenze spirituali da noi già visto fra Libanio Gallo e Pelagio: è una trasmissione iniziatica. Come già abbiamo visto, giunto a Sponheim nel 1495 perché richiamato dalla fama dell’abate, Libanio trasmette a Tritemio lo stesso corpo di dottrine e insegnamenti che egli ebbe ad apprendere a Maiorca. Nelle righe or ora riportate vediamo poi come Tritemio accenni, similmente a quanto aveva fatto Libanio nelle sue epistole, alla dignitas che lo stesso Libanio colse nell’essere suo, riportando ancora una volta al centro l’importanza di tale aspetto. Libanio dunque avvia Tritemio alla pratica, comunicandogli precetti i quali, a suo dire, egli poté apprendere nel giro di trent’anni, prima (primum) da Pelagio, e poi (deinde) dall’altro illustre mago italiano, Giovanni Pico della Mirandola, e da altri215. Ora, la priorità data a Pelagio nella trasmissione delle dottrine e dei principali insegnamenti è a mio giudizio indicativa e può riuscire abbastanza istruttiva per un approfondimento a tale riguardo. Essa infatti getta una viva luce sull’ascendente che, di là da una figura nota come Giovanni Pico, anche un personaggio ai più sconosciuto come Pelagio di Maiorca e la tradizione teurgica cristiana ad esso connessa possono aver esercitato su alcuni fondamentali protagonisti del magismo rinascimentale.

Lo stretto rapporto fra tutti questi personaggi sospesi a metà fra storia e leggenda, rapporto che spingerebbe a ritenere valida l’ipotesi della vera e propria costituzione di una catena iniziatica, è abbastanza visibile in due epistole, contenute entrambe nell’opera a noi ormai nota De septem secundeis: nell’una, datata 6 giugno 1505216, Libanio istruisce Tritemio circa i veri fini della pratica magica; nell’altra, scritta il 20 agosto del medesimo anno, l’abate risponde al proprio maestro cogliendo l’occasione per appuntare varie annotazioni

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J. Trithemius, Nepiachus, XIII, col. 1830. Cfr. N. L. Brann, Magical Theology, cit., pp. 109-112.

215 J. Dupèbe, “Pélagius”, cit., p. 145, crede che, fra questi “altri”, vi possa essere anche Ficino. Ad

ogni modo è da rilevare, con lo stesso Dupèbe, come l’ambiente nel quale sia Libanio Gallo che Pelagio poterono muoversi sia da mettere in stretta relazione con il mondo del neoplatonismo fiorentino.

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interessanti. Nella sua epistola Libanio si riferisce al sacrificio al quale chi intenda iniziarsi alla sapienza deve consacrarsi, calcando le orme di una vera e propria imitatio Christi:

Nulla mihi requies mentis, o pater Tritemi, donec ivincamus hanc horam, non dixerim malorum sed exercitationis. Ad laborem sumus nati, laboremus agendo simul et patiendo, quoniam sic penitus oportet expeditque nobis. Non metuas hanc hominum adversum te invidiam, dabit enim rebus tuis fortem in brevi meliorem. Eius amore patienter tolera, qui pro te mortuus est in cruce, ne contristeris, sed tacitus mente tranquilla sequere Dei consilium, quoniam aliorum vocaris. Custodi propositum tuum, neque divitias cures, neque vanissimos mundi honores217.

Il lavoro interiore, il muto sacrificio correlativo a quello di colui “qui pro te mortuus est in cruce”, è lo scopo ultimo della pratica. Essa, di nuovo, si caratterizza secondo le sembianze di una impersonale, severa ascesi: il Cristo e la passione della croce, non dovendosi qui interpretare che in un senso fondamentalmente simbolico. Oltre a concernere la personale fatica patita dal saggio per arginare i pericoli derivanti dall’invidia degli ignoranti, il labor – di cui qui si parla – ricorda assai limpidamente quello che certa alchimia, interpretata come pratica rivolta alla trasmutazione interna e all’ottenimento dell’Elixir, pone a base del magisterium e della “Grande Opera”218. Sotto tale riguardo si è ad esempio potuto parlare di un “lavoro, lavoro tenace, spesso duro, pericoloso e

217 J. Trithemius, SS, pp. 76-77. 218

Qui sembra dunque già serpeggiare il motivo, che si affermerà sistematicamente in alcune figure di teosofi e alchimisti del XVII secolo (si pensi a Robert Fludd, Heinrich Kuhnrath, Guillaume Postel, Jacob Böhme ecc.), secondo il quale lo sforzo vissuto a che si realizzi la Grande Opera viene assimilato alla passione cristica. Donde il frutto dell’opera, la Pietra Filosofale, è paragonato al Cristo stesso, presso ad una sottile convergenza di motivi neoplatonici e cristiani. Cfr. M. Eliade, Il mito, cit., pp. 27 sgg.; C. G. Jung, Psicologia, cit., pp. 333-413; N. Michel, “Le Grand Oeuvre, liturgie de l'alchimie chrétienne”, in Revue de l'histoire des religions, t. 186, n. 2 (1974), pp. 149-183,.

incompatibile con le mani troppo bianche”: solo ciò avvia a quella conoscenza capace di rendere invincibili, vincitori e signori della morte219.

Codesto liberarsi della spoglia psichico-corporea ai sensi di una interiore mortificazione onde pervenire ad una rinascita e ad una rettificazione spirituale220, contrassegna fra l’altro, in sede di processo ermetico-alchemico trasmutativo, la prima fase definita nigredo o “Opera al Nero”. Con essa ha luogo la putrefazione ermetica, punto in cui la rettificazione non vale solo al livello corporeo, ma anche e soprattutto al livello psichico. Nelle sue espressioni basilari e individuali, l’anima essendo abitualmente controllata da processi a carattere fisico e periferico, è l’illusione della chiusa individualità a dover venire meno. Circa tale momento di completa negazione, è stata giustamente rilevata la corrispondenza con quella ‘morte al mondo’ di cui vi è traccia in vari casi di mistica cristiana. Solo che la via ermetica assume sì la morte, ma in senso iniziatico, come mors philosophorum, cioè quale mezzo per proseguire oltre sorretti da una più lucida intenzione. Lungi dall’apparire come un abbandono, questo morire vale nei termini di un raccogliersi in qualcosa di più essenziale, e dunque costituisce la premessa alla superiore reintegrazione. Il requisito basilare per giungere a tanto è dunque che “la coscienza ha da essere distaccata dai sensi e rivolta all’interno. Finché la luce interiore non è scaturita, il distacco dal mondo esterno è vissuto come una nox profunda”221. Su ciò ritorneremo nella prossima parte di questo lavoro.

Con riferimento ad un essere “nati ad laborem”, Libanio tutto ciò lo pone quasi nei termini di una superiore vocazione riservata ad una schiera di eletti. Ogni scoria egoica, ogni legame carnale e ogni vanità legata a terreni sentimenti o

219 Cfr. E. Canseliet, Mutus liber. L'alchimia e il suo libro muto, Edizioni Arkeios, Roma 1995, p. 64.

Cfr. le suggestive espressioni di un serio occultista moderno, G. de Givry, Le Grand Oeuvre, Edizioni Mediterranee, Roma 1998, p. 29: “Devi ascendere nella vita superiore esaltando vigorosamente la tua volontà, operando una vera segregazione di te stesso dal mondo fisico ed esteriore. Innalza attorno a te un muro che fermi ciò che da te emana verso le cose terrene; ritirati nella cittadella ermetica da dove, un giorno uscirai, invulnerabile”.

220

Cfr. H. Silberer, Probleme der Mystik und ihrer Symbolik, Heller & co., Wien 1914, p. 178.

221 T. Burckhardt, Alchimia, cit., p 173. Cfr. M. Aniane, “Note sull’alchimia, ‘Yoga’ cosmologico della

galvanizzata dai mundi honores222 – e dunque dalle ricompense materiali che una certa magia può dare – debbono essere estinti, guardando bene a non scostare mai la mente da tale precetto:

Finem cogita quo tendimus, principium ama unde sumus223.

L’unità spirituale, l’unificazione con Dio – con il principio in virtù del quale noi siamo – ha bisogno però di una condizione interna adeguata. È interessante allora vedere come Libanio esorti il proprio discepolo ad aver la “mente tranquilla” e denudata, ad obbedire, in tale stato di beatitudine, al consiglio divino. Già Pelagio, come abbiamo visto, invocava un luogo tranquillo e una placidità spirituale quale necessario preliminare. Dopo avere riferito alcuni ragguagli astrologici inerenti alla condizione privata di Tritemio, Libanio conclude la sua epistola profondendosi appunto, nel modo più neoplatonico, in una esaltazione di quella superiore unità che l’iniziando – rifuggendo dalla molteplicità – deve cercare224. Per tal via ecco che Libanio rievoca, in modo enigmatico, il silenzio legato alla pratica dell’Anacrisis rivelatagli da Pelagio:

222

Nella sua epistola di risposta, Tritemio dimostrerà di aver ben inteso, scrivendo: “Nihil unquam, ut nosti, quaesivi mundanum, nihil amavi terrenum, omnes mundi voluptates fugi atque despexi, et persecutionem ab hominibus sustinui gratis, sine demerito, sine causa, sine culpa […]” (J. Trithemius, SS, p. 136). Cfr., su questo tema, anche l’epistola datata 20 luglio 1505 e inviata da Tritemio ad un giovane corrispondente e probabile neofito, Johann Steinmoel. Questa epistola è utile per comprendere il particolare clima spirituale e pregno di elementi ascetici propri al credo magico a cui Tritemio fu iniziato. Facendo propri gli argomenti del proprio precettore Libanio, Tritemio intima ora al suo giovane allievo di provar vergogna per aver inteso la magia e i segreti della sapienza come strumenti finalizzati ad un mero arricchimento materiale. In un punto troviamo scritto: “[…] tu vane jactabundus nimium, ea quae susceptisti a nobis philosophiae secretioris archana, pro turpi lucro, ut facti sumus certi, venalia circumferas”. Cfr. J. Trithemius,

Ioannis Tritemij abbatis Spanhemensis Epistolarum familiarium, I, 24, cit., p. 57

223

J. Trithemius, SS, p. 77. Come giustamente ricorda T. Burckhardt, Alchimia, cit., p. 173, non diversa, in fondo, era la via degli antichi misteri: qui si trattava di testimoniare, di là da ogni immediata apparenza di morte, la propria indistruttibilità, l’intimo sussistere in un centro immortale, di un principio atemporale e indivisibile il quale, però, non poteva essere guadagnato che a patto di rinunciare alla compagine peritura costituita da anima e corpo.

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Libanio fa poi seguire, nell’ultima parte dell’epistola, tutta una serie di precetti riferentisi alla scienza astrologica e, talvolta, a carattere altamente simbolico. Non vi è qui spazio per soffermarvisi.

Silentio anacrisim serva nec ante tempus emitte columbam. Unus esto tecum, et cave ne solus. Multitudinem fugito omnem, quia unum est omnia, et sine uno est nihil225.

È così che Libanio riconferma a chiare lettere la filiazione iniziatica, suggellando l’epistola con l’ammonimento a Tritemio non solo di rimanere fedele alla parola cristiana, ma anche di “esser pitagorico”: “Tu tantum in Christo manens fidelis, in uno solo, quod licite potes, Pythagoricus esto”226. Tale esortazione, a tutta prima, potrebbe suonare strana, ma potrà essere meglio chiarita in seguito con riferimento ad altre epistole tritemiane.

Nella sua importante risposta del 20 agosto, Tritemio dimostra comunque di avere ben recepito i motivi essenziali delle indicazioni di Libanio. Qualche dettaglio interessante: egli si rivolge devotamente al maestro, lo definisce “saggio sacerdote”227, non senza qualche segnalazione polemica rispetto alle vicende che lo angustiavano228; poi, esortando Libanio a scrivere a Joachim von Branderburg229, gli chiede di inviare al Margravio “aliquid ex officina Pelagii”230. L’abate poi invoca il principio di una riforma della mens, nei termini di una purgatio. Riportiamo le sue parole:

225

J. Trithemius, SS, p. 78.

226 J. Trithemius, SS, p. 80. 227

Cfr. J. Trithemius, SS, p. 133: “preceptorum optime”. Ad attestare ulteriormente il legame fra l’abate e Libanio, in una seconda epistola – l’ultima – dell’ottobre del 1507, Tritemio utilizzerà una intensa immagine per definire il suo maestro: “animae dimidium meae” (SS, p. 169).

228 J. Trithemius, SS, p. 134: “Bobus et capris foenum subtraxi, et magnum mihi cum simiis bellum,

sed hactenus victor evasi”.

229

Le relazioni fra Tritemio, Libanio, Pelagio e von Branderburg sono assai intricate. Nella successiva epistola del 5 ottobre 1507 a Libanio, già citata, i riferimenti a Joachim von Branderburg si riaffacciano, seppur sotto segno cifrato. Qui Tritemio, lamentando il definitivo ritiro del maestro nell’isola di Mayorca, accenna ad un misterioso “fidelem imo fidelissimum” Melanio, evidentemente un religioso ben conosciuto da Libanio, poi chiede: “Maioricam siecine Libani abibis confusioni exponens Triandricum, moerori quoque Megalopium, quorum alter promisit, alter iam diu anhelus praestolatur adventum?”. Ora, nella sua sezione dedicata a Pelagio, il già menzionato Arpe accenna (Feriae Aestivales, p. 117) che esiste una epistola indirizzata “ad Melanium triandrum Philosophum, quem in partem haereditaris venire volebat” [del 1 maggio 1509], nonché un’altra epistola di Melanio “ad Megalopium Regem, super interpretationem Pelagii”. Poi, continua l’Arpe, vi è una “Praefatio Melanii, in librum Sanctorum somnialium [di Pelagio]. Qui è nominato un certo “Megalopius Rex Articorum”: lo stesso “quem Jaimielem vocat, virum sapientissimum, Trithemius, Polygraph. libr. VI, p. 603”. Cfr. K. Arnold, Trithemius, cit., p. 199, che ha dunque chiarito come Triandricus corrisponda a Melanio e stia per Tritemio, mentre Megalopius sia uno pseudonimo dietro cui si cela proprio von Branderburg.

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Scribo sapienti & Deo dilecto sacerdoti, qui nos iuvare potest precibus & votis, ut mens reformetur inversa, sit unum in amore & cognitione unius summi boni, Patris & Filii & Spiritus sancti, gratiam assecuta principii, a quo multitudine labitur, unita te ad ipsum reformatur. Utinam o praeceptorum omnium post Deum fidelissime, vel nunc tandem fieri posset quod optavimus saepe, quo nobis veros et sanctos liceret imitari sapientes, qui per abstractionem sibi veraciter unitum cum ardentissimo amoris desiderio in Deum salutis tramitem tenuerunt231.

È, questo, un passo assai importante dal punto di vista della dottrina, nel quale riecheggiano sottilmente motivi centrali utili ai fini di una comprensione di certi passi agrippiani che andremo ad analizzare nel prossimo capitolo. Come si vede, la riforma della mens, ossia del principio intellettuale, è da concepirsi come il tentativo di invertire un processo di caduta (reformatio e conversio) dovuto al disperdersi dell’unità metafisica intrinsecamente propria alla mens in un contesto di molteplicità caotica (“multitudine labitur”) affiorante dal basso dell’essere, dalle affezioni carnali. Il verbo usato da Tritemio a tale riguardo – labor – è indicativo, perché nel significato di dispersione sussiste anche quello di una caduta, di un venir meno; caduta che, però, secondo le fonti ermetiche, neoplatoniche e cabalistiche donde è tratta tale teoria, non potremmo riferire direttamente alla mens, in quanto essa è in sé inalterabile e non suscettibile di esser lesa da qualsiasi peccato o errore. Come già il Pico della Mirandola delle Conclusiones – autore che Tritemio afferma apertamente di seguire non diversamente da un altro suo maestro, Johannes Reuchlin – l’abate, alla stessa stregua di quel che ripresenterà la “magia divina” di Agrippa, concepisce la mens quale nucleo immortale nell’uomo. A tale nucleo Tritemio sembra attribuire anche la funzione di una parte incorruttibile, divina e “non cadente” dell’anima – come dirà Pico e ripeterà Agrippa – che solo per via di una caduta dell’essere individuale da un piano di perfezione ad uno di imperfezione ontologica, si trova

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anch’essa dispersa nella molteplicità e partecipa, come in uno stato di tramortimento, dei limiti propri alla compagine corporea e sensibile.

A tale riguardo è istruttivo ricordare l’esistenza di una ulteriore epistola del 1505 e, precisamente, del 18 luglio, inviata ad un conoscente, l’astronomo e matematico parigino Johannes Cappelarius (Jean Chapelier). Qui Tritemio espone con dovizia di particolari il processo di caduta e la possibile resurrezione dell’anima umana mediante il concorso e la enucleazione della mens. Secondo una linea perfettamente pichiana, l’abate sottolinea come, avendo Dio accordato all’uomo il libero arbitrio e la possibilità di scegliere la propria condizione nel bene o nel male, è l’uomo stesso ad aver permesso, divenendo insufficiente a se stesso, l’errore:

Quem enim indurat Deus, propriae voluntatis aversae demerito indurat: et quem salvat utique propriae voluntatis conversae bonitate salvat. Tuae voluntatis est currere, Dei bonitatis est salvare. Non salvabit te gratia, si tua voluntas fuerit ociosa. Impossibile namque est bonam non salvari voluntatem. Sed et ipsa donum Dei est, quoniam nec velle bonum nec perficere sine gratia Dei possumus. Deus autem benedictus qui vult omnes homines salvos fieri: misereri nobis, et dare gratiam semper quidem paratus est, mens vero nostra carnis nimium delectata commertio, quoties in peccatum avertens se a summo bono prolabitur, toties nubem reatus interponit, qua gratia miserentis Dei alioquin semper prompta, in ea minime operetur232.

E Tritemio, utilizzando una metafora cosmica, parla subito dopo di quella via lungo la quale volse l’uomo nel punto di cadere:

Enimvero quemadmodum ad solem conversus lunae globus illius splendore luminosus ac lucidus efficitur, et quanto plus appropinquaverit directae oppositioni, tanto magis illustratur. Quod si terrae corpus interuenerit, eclipsim mox luna patitur, et involutionibus obfuscatur. Sic mens nostra ad deum per voluntatem

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bonam et interni desyderium amoris conversa pulcherrimis atque dulcissimis gratiarum illustrationibus perfunditur, et in sancto speculationis acumine mirifice roboratur. Mox vero ut peccati nubes intercesserit, se lumen illud in deficiens abscondit. Praeoccupatum namque secularibus siue carnalibus desyderiis animum, Dei gratia nequaquam illuminat. Neque misceri poterunt vana veris, aeterna caducis, spiritualia carnalibus, ima summis, impuraque sanctissimis, coelestia terrenis, ut pariter mens sapiat quae sursum, et quae super terram233.

La caduta dunque, secondo Tritemio, non è che un momentaneo rivolgimento dovuto alla interposizione di quanto di terrestre e di caduco vi è in noi rispetto a quel che è eterno e immutabile. Essa è, propriamente, il prodotto di una eclissi, di un offuscamento che è compito dell’uomo retto rimuovere onde ricongiungersi con la Luce originaria. Ma se noi ora, fatte tali considerazioni, ci riportiamo al già detto circa la posizione tritemiana sui demoni malvagi, sulla forza della demonizzazione e sulla energia di segno contrario di cui il mago cristiano deve poter disporre al fine di trascendere le barriere generate dai dèmoni e dalle forze oscure, ecco che qui abbiamo modo di integrare qualche elemento, come segue.

Se magia significa – come si è visto – la conoscenza più alta delle cose sia fisiche che metafisiche, sia naturali che divine, ciò diviene possibile, per Tritemio, solo esaurito un processo di riforma e di purgatio che costituisce per quella conoscenza il presupposto interno fondamentale. Ogni azione magica la quale