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2 « Non sei mai solo su internet »

Nel capitolo precedente ho tentato di tracciare il percorso teorico e metodologico che ha portato la mia domanda inziale a complessificarsi e -soprattutto- ha permesso di focalizzare la lente attraverso cui portare avanti le mie osservazioni rispetto a queste pratiche che pur riguardando l’uso di media digitali sembrano relazionarsi con l’abitare e in particolare, come vedremo in questo capitolo, con l’abitare in città.

Prima di riuscire a individuare tali pratiche è però necessario individuare un preciso campo all’interno del quale far emergere i reali protagonisti di ogni ricerca antropologica, cioè le persone e i loro gesti, i loro comportamenti e i loro modi di relazionarsi con il mondo. E, nel caso di una ricerca che vorrebbe indagare i media digitali, giustificare la scelta di un determinato campo piuttosto che un altro è questione non di poco conto, anche dal punto di vista delle metodologie di ricerca. Così la domanda a cui cercherò di rispondere è: perché per questa ricerca mi sono recato in un quartiere periferico di Roma, cioè Montesacro? Cosa caratterizza questo luogo? Che tipo di persone ci abitano?

Perché lavorare proprio con queste persone?

In questo capitolo quindi cercherò inizialmente di giustificare le mie scelte nella definizione del campo; in seguito, seguiremo le storie di alcuni abitanti del quartiere per vedere se e come i media digitali concorrono nelle modalità con cui producono Montesacro come un contesto dotato di senso. Infine, dopo aver isolato alcune pratiche significative, cercheremo di definirne da un lato la forma che assumono, dall’altro le motivazioni che le provocano.

Prima ancora di poter rispondere a queste domande e quindi chiarire come si configura il quartiere Montesacro, dove si trova, come si caratterizza, devo però porre una questione ancor più prodromica: perché un contesto “fisico”? Si potrebbe infatti obiettare che lavorando sui media digitali mi sarebbe stato possibile partire proprio da essi, individuare un certo tipo di pratiche rintracciabili online e seguire poi le tracce dei praticanti stessi, raggiungendoli per vedere come quanto fanno online si relazioni con il loro stare in un luogo. Non si sarebbe trattato affatto di una strada sbagliata.26

Nel mio piccolo, quando ho dovuto redigere la tesi per la laurea magistrale, ho tentato proprio questa via,

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AdovepArtire

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26 Come resoconto delle metodologie di indagine connesse

all’antropologia digitale si veda Miller e Horst (2012) e in particolare l’intervento di Tom Boelstorff all’interno del volume.

arrivando anzi ad estremizzarla. Prendendo spunto dai diversi autori che si sono confrontati con le realtà delle comunità virtuali a partire dal concetto di fandom,27 tentai di inserirmi all’interno di una di esse che si configurava come una comunità di persone particolarmente riflessive, soprattutto rispetto a loro stesse in quanto gruppo capace di contattarsi attraverso il gesto di scrivere. Senza dilungarmi, non mi limitai a partire dal contesto virtuale, ma ci rimasi. Vi sono diversi antropologi convinti della ricchezza di un approccio che sia totalmente partecipante del modo in cui gli individui vivono questo genere di comunità, cioè un desiderio di condividere e fare amicizie, giocare e imparare cose nuove senza aver bisogno di trasferire l’esperienza sul piano del mondo “attuale”.28 In qualche misura, significa

27 Il termine deriva dall’unione del termine inglese fanatic

(appassionato, abbreviato in fan) al suffisso -dom (come in kingdom o freedom), con il significato di mondo degli appassionati. Il termine in sé quindi non si riferisce semplicemente al gruppo di appassionati di un argomento o l’altro, ma all’ambiente o comunità virtuale che essi costituiscono. In merito si veda Mizuko Ito (2012;2013) per lo studio dei fandom digitali, Quinto Antonelli e Anna Iuso (2007) per riflessioni sul rapporto tra fan e idoli nel passaggio da cultura popolare a cultura di massa, e ovviamente Benedict Anderson (1983) per quanto concerne la costruzione mediatica di comunità immaginate.

28 Seguendo la sistematizzazione proposta da Tom Boelstorff

(2010, 2012) rispetto a questi termini, con “attuale” intendo indicare ciò che avviene offline. Secondo l’antropologo britannico in questo modo si potrebbe evitare sia di concentrare il discorso su “fisico” e “non fisico”, sgombrando il campo da dubbi riguardanti come sia possibile considerare degli artefatti tecnologici non fisici, ma soprattutto si eviterebbe di ragionare la relazione in termini di un’opposizione tra qualcosa di falso e qualcosa di reale.

entrare all’interno delle comunità alle condizioni degli “indigeni”, piuttosto che imporre un’importanza maggiore al contesto non virtuale arrivando tramite un approccio dall’esterno.

Questo genere d’approccio non avrebbe però potuto funzionare per rispondere alla domanda che ci siamo posti in apertura. Il problema non è tanto il termine “abitare” o i processi con cui viene prodotta la località; sarebbe stato anzi interessante mostrare come sia possibile fare casa anche in luoghi digitali e come essi si qualifichino. Sarebbe in qualche misura un proseguimento del lavoro inaugurato da Benedict Anderson mentre ragionava sui media a mezzo stampa, che avrebbe portato a osservare come, per dirla con le parole di Mizuko Ito: “locality—as defined place as well as meaningful context—remains robust, but the players that contribute to it can be impersonal, technological, and spatially dispersed” (Ito, 2001, p.1).

L’antropologa giapponese ha ragionato molto sulle caratteristiche delle comunità che si formano a partire da un contesto virtuale, ma anche sul legame tra i luoghi geografici e queste località virtuali. Proprio a partire da esempi “natii” degli ambienti virtuali, come ad esempio comunità di videogiocatori, ha cercato di mostrare come il concetto di località debba essere slegato da una concezione naturalizzata che lo legherebbe a un determinato luogo fisico, che non gli è infatti mai appartenuta.

Denaturalized from association with geographic place, locality is unbounded and

dynamic, an ongoing partial achievement that never exhausts possibilities for affiliation and solidarity. At the same time, it is grounded in particular social practices, materialized texts, placed infrastructures and architectures. All localities are ultimately hybrids of geographically and technologically placed connection. (ivi)

L’approccio proposto da Ito tende quasi a de- territorializzare l’etnografia al fine di cogliere come le persone costituiscono quelli che lei chiama “network localities”, cioè reti assemblate dall’individuo che tiene insieme la località come contesto personale dotato di senso. Questo risulterebbe però problematico dal momento in cui riteniamo che per comprendere appieno la relazione tra media digitali e produzione della località sia necessario osservare come il lavoro dell’immaginazione permetta di “rimediare” questi stessi all’interno di contesti più “tradizionali” e comprendere tramite quali pratiche ciò avviene. In questa operazione è l’individuo con il suo agire che si trova nella posizione centrale di medium tra i diversi ambienti in cui può situarsi; è quindi soprattutto l’individuo che svolge questo ruolo ad essere il fuoco della nostra ricerca.

Il tentativo è infatti quello di comprendere con quali modalità, individuali e collettive, i media digitali concorrano a produrre un contesto sensato per l’agire quotidiano e considerando questo contesto come un nodo all’interno di una rete più ampia, composto da tanti fili “virtuali” quanti sono quelli “attuali”. A tal proposito, Carlo Ratti

(2017), riassumendo i risultati del lavoro del Sensable City Laboratory del Massachusetts Institute of Technology e riprendendo, oltre le tesi di Latour, quanto sostenuto da Manuel Castells (2008), sostiene che gli umani collegati in rete digitalmente “sono il punto di incontro di bit e atomi: le tecnologie integrate stanno trasformando profondamente non solo l’identità sociale, ma il modo di abitare fisicamente la città” (ibid., p. 45).

Ratti, ripercorrendo la storia delle tecnologie digitali, nota che queste, inizialmente pensate per creare un “ambiente intimo”,29 si sono lentamente evolute per tornare nello spazio fisico. In particolare, Ratti collega questo cambiamento a una tecnologia in particolare, cioè a quella dello smartphone.

Attraverso gli smartphone, la città si espande e si modifica nelle nostre tasche. Ogni cittadino ha lo strumento per rilevare ed elaborare la città. L’esperienza di scrutare attraverso questa lente digitale ha carattere fortemente individuale. Il tuo smartphone ti colloca con precisione nello spazio e nel tempo, conosce i tuoi gusti, i tuoi orari e il tuo profilo di consumatore (ivi).

Secondo Ratti gli smartphone sarebbero proprio quell’artefatto che avrebbe portato a smentire quanti

29 Nel testo di Ratti questa espressione è riportata tra virgolette

senza specificare se essa sia o meno un riferimento da un lato alle teorie di Anderson già affrontate precedentemente, dall’altro al concetto di intimità culturale proposto da Herzfeld.

pronosticavano la “morte della distanza” e il progressivo rendersi inutili delle città, proprio perché esso funziona meglio se connesso alla città.

Il cellulare serve da sala di controllo, rivelando sistemi urbani come trasporti, meteo, social media e media interattivi comprendere queste dinamiche urbane consente alle persone di abitare meglio la città (o renderla più godibile). Lo smartphone è uno strumento di analisi modulare sulla localizzazione, dotato di dimensioni pressoché infinite. (ibid., p. 47)

Verrebbe da osservare, come già Daniel Miller ha rilevato in più occasioni (Horst, Miller 2012, Miller 2016a), ma come anche Bausinger (2008, 2014) aveva a suo modo indicato oltre trent’anni fa, che tutta questa tecnologia capace secondo Ratti di renderci tutti cyborg,30 finisca spesso per essere utilizzata “soltanto” per chiacchierare con parenti e amici (cfr. Miller 2016a). Ironie a parte, non si vuole qui negare -sarebbe paradossale- le potenzialità e l’efficacia che questi strumenti possono avere nel vivere quotidiano lo spazio urbano, o almeno quello delle grandi città a cui pensa Ratti, dove la velocità di connessione minima è abbastanza alta da permettere lo svolgersi di queste dinamiche. Si vuole però mettere in luce come le potenzialità che le case produttrici offrono attraverso i loro prodotti sono poi accolte, “rimediate” e localizzate dagli

30 Rispetto al concetto di cyborg, oltre Ratti (2017), si veda

utenti in giro per il mondo in modalità spesso sorprendenti, come ribadisce a più riprese anche Miller quando sostiene che l’uso dei social network è contestuale alle caratteristiche culturali dell’individuo (2016a).

Per cui se pure mi in parte trovo d’accordo con Ratti quando afferma che

grazie agli smartphone, la vita quotidiana e le modalità di percezione della generazione Internet hanno assunto una valenza di stato postumano, con implicazioni di carattere architettonico, spaziale e, in particolare, urbano. «Questa generazione ha sviluppato atteggiamenti fisici e mentali che richiedono un tipo diverso di spazio, decifrabile attraverso sistemi di tracce e tutta una serie di realtà in continua evoluzione» (ibid., p.45)

ritengo questa più una previsione o una possibilità, che va poi verificata di volta in volta per capire come questo si reifica a Roma, a Londra, a Mumbai e a New York. Bisogna, insomma, verificare come tutte queste possibilità vengano messe all’opera dai cittadini e dalle istituzioni, in che modo queste tecnologie possano essere utilizzate come “strategie” o come “tattiche”, quale disparità esista nella distribuzione di tecnologie di connessione che realmente permettano ai cellulari di essere degli “strumenti di analisi” efficace, cosa che non solo cambierà da Roma a Mumbai, ma anche all’interno di una singola città tra il migrante clandestino e chi ha diritto di cittadinanza, tra l’anziano e il giovane, etc. etc.

Insomma, le tesi che Ratti porta avanti insieme al suo gruppo di lavoro sono sicuramente importanti perché frutto di uno sguardo fresco rispetto a queste tecnologie. Ratti evita infatti di cadere nelle delle trappole in cui alcuni studiosi, anche più sofisticati, cadono non conoscendo le pratiche effettive di utilizzo di questi strumenti messe in atto dai nati nel nuovo millennio, forse perché lontani generazionalmente, come vedremo nel capitolo dedicato proprio ai più giovani. D’altro canto però, il rischio è di ricadere in un determinismo tecnologico secondo cui, dato che il nostro smartphone possiede l’applicazione “Google Maps” allora tutti la useremo. L’etnografia che cercherò di proporre vorrebbe mostrare invece come questo non sia affatto scontato e molto spesso gli utilizzi fatti di una piattaforma piuttosto che un’altra sono ben diversi da quelli progettati.

La scelta del contesto della nostra ricerca verrà quindi condotta con la consapevolezza di non poter immaginare né uno spazio “virtuale assoluto” né tantomeno uno spazio “attuale assoluto”, ma necessariamente una commistione tra i due. Allo stesso tempo però, resta fondamentale scegliere un campo che esista “al di là” del suo essere connesso alla rete o avere eventuali protesi virtuali, e che esista da abbastanza tempo da farci vedere tanto le disgiunture sincroniche che quelle diacroniche, quelle tra un “prima” e un “dopo”.

Questo ci permetterà anche di affrontare, come vedremo meglio in seguito, la questione della deterritorializzazione e di osservare come i confini e le

divisioni presenti nello spazio fisico vengano anch’essi “rimediati” in seguito alle novità portata dai media digitali, secondo quanto sostenevano già nel 1992 Gupta e Ferguson:

instead of stopping with the notion of deterritorialization, the pulverization of the space of high modernity, we need to theorize how space is being reterritorialized in the contemporary world. We need to account sociologically for the fact that the ‘distance’ between the rich in Bombay and the rich in London may be much shorter than that between different classes in the ‘the same’ city. Physical location and physical territory, for so long the only grid on which difference could be mapped, need to be replaced by multiple grids that enable us to see that connection and contiguity—more generally the representation of territory—vary considerably by factors such as class, gender, races and sexuality, and are differentially available to those in different locations in the field of power. (ibid., p. 20)

Sono queste dunque le motivazioni principali che mi hanno portato a il quartiere romano di Montesacro come luogo dove osservare una declinazione locale dell’uso dei media digitali. Ora vedremo come si connota questo quartiere, all’interno del quale cercheremo capire se il tentativo di abbattere il confine che separa digitale da fisico e virtuale da attuale portato avanti dagli sviluppatori delle tecnologie digitali si reifichi nelle pratiche, venga rifiutato o faccia emergere qualcosa di inaspettato da entrambe le parti.

“Nel quadrante settentrionale di Roma, quello di Montesacro è certamente uno dei quartieri dove è necessario andare oltre le apparenze. Bisogna assolutamente farlo per capire quanta storia, e quanta umanità, siano passate da qui attraverso vicende che si perdono letteralmente nei tempi.”

Così inizia un libro di recente pubblicazione, “La Storia di Montesacro” (2018), parte di un esperimento editoriale che ha portato alla pubblicazione di volumi dedicati a diversi quartieri romani; non si tratta però di certo dell’unico libro dedicato a quest’area della capitale.31 Tra le cose che nessuno di questi libri riesce a individuare definitamente, ci sono i confini di Montesacro, per cui è proprio da questi che dobbiamo iniziare a descrivere il sedicesimo quartiere della capitale.

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ontesAcro

31 Si veda ad esempio: Marsilio (2003), Sozi (1993; 1995; 2003;

2005).

Sul sito istituzionale di Roma Capitale si trovano infatti due zone con questo toponimo, la zona urbanistica 4A “Montesacro” e la 4C “Montesacro alta”, zona che comunemente viene chiamata quartiere Talenti, dal nome della famiglia proprietaria della tenuta su cui sorse la zona abitata. Se quasi nessuno all’interno di queste zone parla di “Montesacro alta” è invece molto diffuso il toponimo “Città Giardino”; si tratta di un nome legato alle prime costruzioni degli anni ’20, che realizzarono una serie di villini inseriti nel verde e sufficientemente indipendenti, ai confini con quella che un tempo era una zona dedicata principalmente alla pastorizia. I vari libri dedicati alla storia del quartiere, non solo inglobano Montesacro Alto senza quasi mai specificare la differenza con il “Montesacro” e basta, ma spesso fanno sconfinare i limiti del quartiere a zone in realtà corrispondenti al Tufello o Bufalotta; i confini tendono a spostarsi anche nei discorsi comuni degli abitanti che molto spesso fanno rientrare anche la zona che risponderebbe al nome di “Casal Boccone” nei confini di Montesacro o addirittura della sola Talenti.

Ho preferito quindi lasciare che fossero i percorsi delle persone a guidarmi nel ritagliare la zona in cui svolgere la mia ricerca, piuttosto che affidarmi alle divisioni ufficiali o di selezionare forzosamente i confini del mio campo, scegliendo di chiamare questi luoghi comunque attraverso al più diffuso nome di “Montesacro”, ora che è stata esplicitata l’ambiguità nascosta dietro questa denominazione.

Ho “disegnato” il “mio” Montesacro utilizzando come punti di partenza le due piazze per eccellenza delle zone Montesacro e Montesacro Alta, cioè piazza Sempione

Fig. 2. Piazza Sempione e Piazza Talenti individuate su Google Maps

Piazza Sempione Piazza Talenti

e piazza Talenti e ho quindi ritagliato il campo della mia ricerca in maniera piuttosto disomogenea: oltre i due succitati quartieri esso contiene infatti “la Bufalotta” e parte di “Casal Boccone”. Si tratta infatti di due zone che nelle mappe emiche32 (Miccichè, 2009) degli abitanti raramente ottengono una propria autonomia, a differenza del quartiere Tufello che, pur essendo confinante con tutte queste, ha dei confini facilmente riconosciuti.

32 Per Miccichè parlare di mappe emiche “significa

semplicemente puntare l’attenzione sulla strutturazione dello spazio per come viene percepita, pensata e descritta dagli attori sociali” (2009)

Fig. 3. Alcune delle mappe emiche raccolte durante la ricerca

Questa zona così ritagliata è compresa all’interno del III municipio di Roma, che al dicembre 2016 contava 205.019 abitanti. Per quanto riguarda la “nostra” Montesacro, è ovviamente impossibile riportare dei dati demografici precisi rispetto a una divisione non ufficiale. Per fornire delle cifre orientative, possiamo considerare al suo interno più di 110.000 abitanti, considerando i quasi 60.000 residenti in Montesacro, gli oltre 30.000 di Talenti e il resto divisi tra Casal Boccone e Bufalotta. Sempre a titolo orientativo, possiamo riportare la densità abitativa rilevata nella zona ufficiale di Montesacro, stimata per 14.239,69 abitanti per chilometro quadrato.33 Non si tratta di numeri

utili ad esprimere un quadro complessivo né tantomeno completo della situazione, ma credo adeguati per rendere la vastità del campo con cui mi sono confrontato e che ci torneranno utili quando andremo a osservare quante di queste persone discutono online del loro territorio.

Geograficamente questa zona, lambita dal fiume Aniene, si sviluppa soprattutto lungo l’asse di via Nomentana, inserendosi quindi -insieme all’attiguo quartiere di Conca d’Oro che viene invece attraversato da via Salaria- nei flussi che connettono la provincia di Roma al centro della capitale. Se il quartiere Montesacro propriamente detto è sostanzialmente la parte del municipio III più rivolta verso il centro della città, arrivando più o meno a lambire l’anello ferroviario che invece la separa dal quartiere Trieste e più in generale divide terzo e secondo municipio, il resto della zona qui considerata sotto questo nome, che comprende quindi anche parti delle zone Casal Boccone e Bufalotta, arriva fino al Grande Raccordo Anulare e si trova perciò a confinare con il settore nord-est della provincia romana (i comuni di Riano, Monterotondo, Mentana e Fonte Nuova). Il terzo municipio si trova quindi nel pieno della direttrice che conduce gli abitanti della provincia all’interno della capitale e rimane fortemente segnata da questa connessione; si tratta infatti di una zona che al tempo stesso è “confine” della città, ma anche “ponte” attraversato per raggiungere le zone più centrali della capitale.

Per fare poi dei brevissimi cenni storici a Montesacro, come i diversi libri dedicati alla zona amano ricordarci, “si vive nel cuore pulsante della Storia, fin dai suoi

primordi” (ibid., p.21). All’interno di queste retoriche volte a costruire l’immagine di Montesacro non semplicemente come quartiere residenziale della periferia di Roma ma come partecipe della grande Storia dell’Uomo, che saranno centrali in un capitolo successivo, non può infatti sfuggire la presenza di diversi reperti preistorici, da animali come antenati degli elefanti e uri, fino all’”uomo di Saccopastore”, un Neanderthal il cui cranio fu trovato nella cava omonima,

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