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Le sei tragedie erano state abbozzate, alcune già ultimate e Pasolini era pronto per debuttare al Teatro Stabile di Torino con la regia di Orgia.

Dopo la scrittura unitaria e viscerale del corpus, dopo il pastiche, dopo l’ulcera e la convalescenza, arrivò anche il momento della riflessione teorica a cui Pier Paolo non sapeva e non voleva rinunciare.

Il Manifesto per un nuovo teatro viene pubblicato su «Nuovi Argomenti»,

all’inizio del 1968, suscitando subito scandalo e attirando le solite critiche in grado però di stimolare i dibattiti dell’ambiente teatrale e culturale italiano come solo le opere pasoliniane hanno saputo fare. Prima di analizzare i quarantatrè commi presentati nel Manifesto, è necessaria una premessa: troppo spesso il

corpus delle sei tragedie è stato letto e interpretato attraverso l’analisi capillare del

testo teorico, come se questo potesse semplificare l’interpretazione di drammi che invece racchiudono, al loro interno e nella loro struttura, una serie di richiami, di echi europei, di denunce sociali e politiche che non possono essere riassunte e teorizzare nel Manifesto.1 Il mio approccio a questo testo mira soprattutto a collocare ancora di più il teatro pasoliniano all’interno di una vasta riflessione umanistica e sociale dell’autore rispetto al panorama letterario e culturale italiano, europeo e statunitense. Anche la necessità di scrivere e pubblicare un manifesto con tanto di commi per spiegare la propria opera drammaturgica non è certo una novità negli anni Sessanta. Se volessimo tornare indietro negli anni, potremmo ricordare i manifesti teatrali per eccellenza, cioè quelli del teatro futurista2 in cui Filippo Tommaso Marinetti dichiarava la volontà di prendere decise distanze da ogni forma teatrale del passato, per portare in scena un teatro che riuscisse a

1 A conferma di questa interpretazione del documento anche Walter Siti e Silvia De Laude nell’antologia teatrale pasoliniana, hanno deciso di non pubblicare all’interno del volume il

Manifesto «per non dare l’impressione di una necessaria dipendenza dei testi dalla teoria ; semmai

è la teoria che è derivata dai testi, caricandoli di desiderio politico ma anche irrigidendoli». Cfr. P. P. Pasolini, Teatro, cit., p. CXIV. Il Manifesto è ora riportato nel volume Saggi sulla letteratura e

sull’arte, vol.1, cit., pp. 2481-2500.

2 Il primo manifesto del teatro futurista fu pubblicato nel gennaio del 1911, intitolato Manifesto dei

Drammaturghi futuristi, in cui venivano riassunte le critiche al teatro presente e passato e le novità

portate dal nuovo. Poi nel 1915 Filippo Tommaso Marinetti pubblicò presso l’Istituto Editoriale Italiano di Milano i due volumi dal titolo Teatro futurista sintetico che raccoglievano circa settanta testi firmati da una serie di autori tra cui Umberto Boccioni, Corrado Govoni, Luciano Folgore e ovviamente Marinetti.

smuovere l’Italia, indirizzandola verso un’ideologia bellica. Secondo l’analisi di Marinetti, la drammaturgia del passato si caratterizzava per la costruzione di uno spettacolo diluito in un numero esagerato di atti, nei quali si smarriva il senso dell’azione (la critica esplicita era rivolta ad autori come Ibsen, Andrejeff, Shaw per aver portato in scena spettacoli prolissi, indigesti e statici senza mai tentare la via della sintesi). Il teatro futurista invece si differenziava per la sua idea di rappresentazione sintetica, che consisteva nel condensare in pochi minuti, in poche parole e in poche scene, innumerevoli situazioni.

Gli anni 30 sono invece gli anni dei due manifesti firmati da un autore caro a Pasolini: Antonin Artaud che pubblica tra il 1932 e 1933 due manifesti per sintetizzare le teorie che lo portarono all’elaborazione del cosiddetto ‘Teatro della Crudeltà’ e alla sua innovativa idea di teatro, opposta sia a quella di Stanislavskij sia a quella brechtiana, teorizzando uno spettacolo in cui fossero impiegati e considerati, sullo stesso livello, tutti i mezzi d’azione (gesto, movimento, luce e parola) atti a scuotere e sconvolgere lo spettatore, ottenendone la partecipazione incondizionata.

Ma tornando al decennio in cui Pasolini pubblica il suo Manifesto, il 1968 è anche l’anno in cui il mostro sacro del teatro italiano, Giorgio Strehler, scrive e rende noto il documento dal titolo Esplosione Manifesto Strehler. Pubblicato a settembre su «Dramma» (rivista considerata di area di centro-destra e antagonista di «Sipario»), quindi circa due mesi prima di quello pasoliniano, il documento avvalora la posizione polemica dal drammaturgo nei confronti di quello spirito rivoluzionario, innovativo, avanguardistico che dilagava nei palcoscenici improvvisati degli anni Sessanta in Italia: «combatterò sempre la forma della rivoluzione per la fama, cioè gli slogan rivoluzionari (parole e fatti, autogestioni, cogestioni, democratizzazione, finte discussioni dialettiche) per poi continuare tutto come sempre, con l’alibi che si è discusso, che si sono cercati gli strumenti». Torna ridondante la parola ‘rivoluzione’ usata però con connotazione negativa, proprio a determinare il carattere prettamente ideologico e politico di questo manifesto, in cui non c’è spazio per riflessioni strettamente teoriche sul teatro e sulle novità che stanno investendo questo universo. Siamo negli anni della gloriosa alba delle avanguardie, in cui il tradizionale teatro strehleriano comincia

ad entrare in crisi, gradito certo ancora al pubblico più tradizionale e tradizionalista del Piccolo teatro di Milano, ma minato dalle nuove esigenze creative. L’ Esplosione Manifesto Strehler sigla probabilmente l’inizio di un declino della parabola artistica di Strehler, o meglio, la dichiarata volontà di continuare a rappresentare il suo teatro comprendente i classici e l’amato Brecht.

Nella stessa Milano del ‘maestro’ Strehler, si agita anche un’altra anima teatrale, completamente estranea al pubblico tradizionale e impegnato del Piccolo: stiamo parlando di Giovanni Testori, anche lui autore di un manifesto dal titolo Il

ventre del teatro, pubblicato sulla rivista «Paragone», diretta da Roberto Longhi,

nel giugno dello stesso vivace 1968. Testori si presenta al pubblico come artista eclettico, in grado di spaziare tra la pittura, la narrativa, la drammaturgia e la poesia e con un debole per le borgate milanesi che lo lega ideologicamente a Pasolini. Ci dedicheremo più avanti alle specifiche coincidenze tematiche, stilistiche e artistiche tra i due, in questa sede è invece di fondamentale importanza sottolineare l’esigenza testoriana di riassumere in un manifesto i principi di ordine teorico del suo teatro, manifesto che nonostante contenga l’idea di teatro, le riflessioni sulla lingua e sulla parola e sulla concezione di spettacolo, sembra però rispondere maggiormente alla volontà di marcare lo stato di isolamento artistico e intellettuale del suo autore, all’interno del panorama milanese e nazionale.

Citiamo infine un ultimo ma importantissimo documento che molto probabilmente fu quello che più di tutti suscitò interesse in Pasolini al momento della sua pubblicazione: stiamo parlando di un altro manifesto dal titolo Per un

nuovo teatro, pubblicato nel novembre del 1966 su «Sipario», la più prestigiosa

rivista teatrale dell’epoca, presentato poi a Ivrea nel 1967, in un memorabile convegno e firmato dai nomi più illustri della nuova e dirompente cultura italiana, comprendente critici, attori, musicisti, scenografi e registi.3 Grazie a questo testo «venne alla luce una bollente, appassionante, magmatica, situazione in cui si affollarono tutte le pulsioni, i desideri, le velleità, le speranze, le voglie di rissa le

3 I firmatari furono: Corrado Augias, Giuseppe Bertolucci, Marco Bellocchio, Carmelo Bene, Cathy Berberian, Sylvano Bussotti, Antonio Calenda, Virginio Gazzolo, Ettore Capriolo, Liliana Cavani, Leo De Berardinis, Massimo De Vita, Nuccio Ambrosino, Edoardo Fadini, Roberto Guicciardini, Roberto Lerici, Sergio Liberovici, Emanuele Luzzati, Franco Nonnis, Franco Quadri, Carlo Quartucci e il Teatrogruppo, Luca Ronconi, Giuliano Scabia, Aldo Trionfo.

proteste gli attacchi al potere o meglio a tutti i poteri, istituzionali, compresi i Teatri Stabili accusati di essere la faccia addomesticata del teatro colto o d’arte»4: tra i bersagli principali c’era anche il già citato Giorgio Strehler.

Il testo presentato ad Ivrea si apre così: «la lotta per il teatro è qualcosa di molto più importante di una questione estetica»; c’è quindi anche qui la volontà di interpretare il teatro in una dimensione più ampia che non si limiti alla sola rappresentazione scenica, ergendolo a strumento di lotta (parola abusata nel lessico politico degli anni Sessanta) e di contestazioni in grado di rompere le barriere imposte dal Potere. Questo manifesto diede voce ai diversi tentativi teatrali che nascevano come esigenze di denuncia politica e sociale nelle cantine, nei garage e in molti i palcoscenici improvvisati di tutta Italia.

Se analizziamo ora nel dettaglio il documento redatto da Pasolini, vedremo come sono facilmente rintracciabili alcuni punti in comune con il testo di Ivrea.5

Il primo comma del testo pasoliniano recita: «Il teatro che vi aspettate, anche come totale novità, non potrà mai essere il teatro che vi aspettate. Infatti, se vi aspettate un nuovo teatro, lo aspettate necessariamente nell'ambito delle idee che già avete; inoltre, una cosa che vi aspettate, in qualche modo c'è già». L’incipit segna subito il carattere di rottura totale rispetto a qualsiasi altra forma di teatro contemporanea e antecedente, calcando la mano sul carattere dichiaratamente polemico rispetto alle altre forme di drammaturgia esistenti. Sempre nel primo comma leggiamo il nome di Bertolt Brecht, autore conosciuto, letto, apprezzato da Pasolini e considerato come l’ultimo grande riformatore di un teatro che però ormai già appartiene ad un passato che non deve e non può più ritornare. Il riferimento ad un importante drammaturgo che effettivamente ha lasciato una traccia indelebile nel mondo del teatro mondiale non è ovviamente casuale. E’ vero che quando Pasolini scrive le tragedie e il Manifesto, le novità portare dalle geniali riflessioni di autori come Brecht o Beckett appartenessero in qualche modo ad un teatro inteso come superato (soprattutto nell’ambito di un contesto di rottura che caratterizza il nuovo teatro degli anni Sessanta) ma queste

4 I. Moscati, Pasolini teatro, nell’epoca dei manifesti e del brodo primordiale, in S. Casi, A. Felice, G. Guccini, Pasolini e il teatro, cit., p. 174.

5 Nello stesso numero di «Sipario» che comprende la pubblicazione del Manifesto presentato ad Ivrea, è presente anche l’intervista a Pasolini.

si vanno a sovrapporre alle nuove avanguardie del presente: è il caso dell’esperienza statunitense del Living Theatre (su cui ci soffermeremo più avanti) fondato da Julian Beck, che godette di un notevole successo durante la sua tournèe europea (comprensiva anche di una tappa romana a cui Pasolini partecipò) negli anni Sessanta. «Il Living portava con sé una promessa: Paradise now, paradiso ora, che arrivo nel bollore del brodo primordiale che premeva i coperchi delle pentole riformiste».6

In Italia invece accenniamo a quella che fu probabilmente l’esperienza più innovativa, vivace, provocatoria e anche l’unica (insieme alle commedie di De Filippo) apprezzata da Pasolini: il teatro di Carmelo Bene, autore-attore-regista, con una sua personale estetica, in grado si miscelare e reinterpretare autori intoccabili come Shakespeare, fino ad arrivare alla rappresentazione dei riti religiosi e delle mitologie ancestrali.

Come è possibile riscontrare da questa breve rassegna, il teatro del Novecento e, in particolare, il nuovo teatro degli anni Sessanta è costellato dalla pubblicazione di manifesti, che molto spesso nascono dall’esigenza dei propri autori di sottolineare scelte ideologiche, personali e politiche più che prettamente teoriche ma che comunque documentano il clima di fermento culturale in cui collocare la genesi del manifesto di Pasolini che, nonostante possa essere riconosciuto come una voce fuori dal coro, rimane storicamente una forma comunicativa propria delle avanguardie e, come queste, si rivolge agli intellettuali più irrequieti e animati da una forte passione civile.

Il documento di Pasolini ci consegna delle chiare indicazioni per decifrare e interpretare la sua idea di teatro e di come debba essere considerato lo spettacolo teatrale, soffermandosi subito su chi dovranno essere i prescelti spettatori:

I destinatari del nuovo teatro non saranno i borghesi che formano generalmente il pubblico teatrale: ma saranno invece i gruppi avanzati della

borghesia. […]Una signora che frequenta i teatri cittadini, e non manca mai

alle principali "prime" di Strehler, di Visconti o di Zeffirelli, è vivamente consigliata a non presentarsi alle rappresentazioni del nuovo teatro. […]Per gruppi avanzati della borghesia intendiamo le poche migliaia di

intellettuali di ogni città il cui interesse culturale sia magari ingenuo, provinciale, ma reale.

L’indicazione di un pubblico ristretto in grado di capire, di ascoltare e di apprezzare un teatro di parola, scritto in versi, in una lingua definita di poesia, diventa necessaria per tentare la rinascita del teatro e il superamento dello spettacolo teatrale provinciale e accademico. Questa nozione sembra escludere del tutto quella classe operaia e quella schiera di ‘ultimi’ tanto amati da Pasolini soprattutto nel suoi lavori degli anni Cinquanta, ma in realtà l’autore ci spiega in due commi (definiti come i due punti fondamentali dell’intero manifesto) come:

Il teatro di Parola - che, come abbiamo visto, scavalca ogni possibile rapporto con la borghesia, e si rivolge solo ai gruppi culturali avanzati7 - è il solo che possa raggiungere, non per partito preso o retorica, ma realisticamente, la classe operaia. Essa è infatti unita da un rapporto diretto

con gli intellettuali avanzati. È questa una nozione tradizionale e

ineliminabile dell'ideologia marxista e su cui sia gli eretici che gli ortodossi non possono non essere d'accordo, come su un fatto naturale.

16) Non fraintendete. Non è un operaismo dogmatico, stalinista, togliattiano, o comunque conformista, che viene qui rievocato. Viene rievocata piuttosto la grande illusione di Majakowsky, di Esenin, e degli altri commoventi e grandi giovani che hanno operato con loro in quel tempo. Ad essi è idealmente dedicato il nostro nuovo teatro.

E’ la borghesia il vero motore che muove Pasolini nella stesura del Manifesto, testo che va inteso sempre più non come una mera dichiarazione teorica ma come strumento attraverso cui l’autore può portare avanti la sua polemica contro la società borghese e stimolare la riflessione e il pensiero della collettività: per questo accennavamo prima all’impossibilità di leggere e interpretare le sei tragedie solo ed esclusivamente attraverso la lente di ingrandimento del

Manifesto. «Il Manifesto, al contrario delle tragedie, è pensato strumentalmente

non secondo una prospettiva rigorosa di teoria teatrale, ma secondo quell’impegno

7 Per gruppi avanzati della borghesia, Pasolini intende quella schiera di giovani rivoluzionari che tentavano attraverso nuovi esperimenti teatrali di mettere in scena il fermento politico e sociale che vivevano.

di analisi sociale e politica più ampia che si sta profilando in maniera sempre più netta e lucida nel lavoro di Pasolini».8

La polemica più esplicita e dichiarata del documento è quella nei confronti degli altri teatri egemoni negli anni Sessanta: quello definito “della Chiacchiera”9 e quello “del Gesto e dell’Urlo” che corrispondono rispettivamente al teatro borghese tradizionale e alle avanguardie emergenti.

Il nuovo teatro si definisce di "Parola" per opporsi quindi:

I) al teatro della Chiacchiera, che implica una ricostruzione ambientale e una struttura spettacolare naturalistiche

II) Per opporsi al teatro del Gesto o dell'Urlo, che contesta il primo radendone al suolo le strutture naturalistiche e sconsacrandone i testi: ma di cui non può abolire il dato fondamentale, cioè l'azione scenica (che esso porta, anzi, all'esaltazione). Da questa doppia opposizione deriva una delle caratteristiche fondamentali del "teatro di parola": ossia (come nel teatro ateniese) la mancanza quasi totale dell'azione scenica. La mancanza di azione scenica implica naturalmente la scomparsa quasi totale della

messinscena - luci, scenografia, costumi ecc.: tutto sarà ridotto

all'indispensabile.

«Il mandato strategico di questo testo era attivare la pratica d’un problematico ‘teatro di Parola’ che non esisteva ancora e che, una volta attuato, avrebbe aumentato la pluralità dei ‘teatri’, distinguendosi tanto dal teatro ufficiale, detto ‘della Chiacchiera’, che dal teatro delle avanguardie, detto ‘del Gesto e dell’Urlo’».10

La questione dell’azione scenica si delinea come un nodo della drammaturgia pasoliniana ancora da sciogliere. Le dichiarazioni estremiste dell’autore, il suo radicalismo che lo spinge a teorizzare un teatro in cui l’aspetto corporale rimanga marginale, non corrisponderà mai esattamente a ciò che avviene nella messa in scena reale, in cui vedremo come la parola e il corpo andranno a rivestire ruoli e funzioni complementari e paritarie, integrandosi e completandosi a vicenda: il teatro è il luogo dove la parola e il corpo si

8 S. Casi, Il teatro di Pasolini: teoria vs drammaturgia, in Pasolini e il teatro, cit., p. 187.

9 Pasolini qui riprende una definizione coniata da Moravia in un articolo pubblicato su «Sipario», nel numero di gennaio 1967, riflettendo sulla decadenza del teatro dovuta alla decadenza del testo e della parola, parla proprio di «teatro della chiacchiera simbolica in cui il dramma si svolge fuori dalle parole mentre le parole non debbono mai in alcun caso, essere drammatiche».

combattono. Analizzeremo più avanti come (per esempio nell’inizio e nel finale di

Orgia) a volte Pasolini si affidi alla potenza della corporeità e al significato che il

corpo può assumere nel silenzio assoluto che domina la scena. A confermare l’importanza che esso riveste nel teatro pasoliniano, ci soffermiamo sulle riflessioni dell’autore riguardo alla figura dell’attore inteso come uomo di cultura che intenda e capisca fino in fondo il testo in versi e non si limiti a recitarlo.

L’interprete, infatti: «non dovrà più, dunque, fondare la sua abilità sul fascino personale (teatro borghese) o su una specie di forza isterica e medianica (teatro antiborghese) sfruttando demagogicamente il desiderio di spettacolo dello spettatore (teatro borghese), o prevaricando lo spettatore attraverso l'imposizione implicita del farlo partecipare a un rito sacrale (teatro antiborghese)».11 Questo

però non esclude affatto la centralità dell’aspetto corporale, ma anzi sottolinea come l’interpretazione dell’attore debba essere completa e in grado di amplificare sia l’aspetto vocale che quello visivo. Parola e corpo convivono e, a volte, coincidono nelle sei tragedie anche se può suonare anomalo considerata la forza e l’impeto con cui Pasolini sottolinea la centralità della componente verbale dei suoi testi, ma la rilevanza che l’autore conferisce alla scelta delle parole non comporta un annullamento della fisicità: le parole devono essere intese, interpretate e comprese pienamente dall’attore e dal pubblico mentre il corpo è lì, sul palco, a testimoniare e denunciare scandali e disagi. Stefano Casi ha notato come in «ogni tragedia, con diversi gradi di intensità, ha al suo centro un corpo che soffre e che dà scandalo. Per esempio in Affabulazione il padre, malato, vuole vedere il figlio nudo, esibendo la propria nudità e arrivando a ucciderlo con un coltello in un contesto di morbosa allusività. In Porcile il ragazzo, malato, ha rapporti con i maiali. In Orgia un uomo, malato, sevizia e tortura la moglie…».12

Sono rintracciabili in alcuni saggi contenuti in Empirismo eretico le critiche pasoliniane sull’atteggiamento superficiale assunto dalla cultura italiana nei confronti dell’oralità. Attraverso il teatro (strumento sicuramente più delicato e complesso rispetto al cinema, perché comporta una scrittura differente e soprattutto una messa in scena) tenta di conferire alla parola un «doppio valore

11 P. P. Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., p. 2496.

[…] è lo strumento della razionalità borghese, e per questo il corpo deve ribellarsi a lei, ma la parola puà tornare a risuonare di quella vocalità originaria che condivide con linguaggio poetico».13

Si può constatare quindi che è attraverso il corpo (soprattutto se legato alla sfera sessuale) che la tragedia si compie. L’autore necessita delle parole e della poesia per far esprime i suoi personaggi, che molto spesso rivestono il ruolo di suoi personali alter ego, ma anche della centralità della componente fisica che completa il dramma.

Pasolini è incline ad assumere posizioni così radicali per evidenziare la sua distanza dal teatro contemporaneo; basti pensare alla spiegazione che dà del teatro come rito culturale:

Rivolgendosi a destinatari di "gruppi culturali avanzati della borghesia", e,

quindi, alla classe operaia più cosciente, attraverso testi fondati sulla parola

(magari poetica) e su temi che potrebbero essere tipici di una conferenza, di un comizio ideale o di un dibattito scientifico - il teatro di Parola nasce ed opera totalmente nell'ambito della cultura. Il suo rito non si può definire dunque altrimenti che RITO CULTURALE.14