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“Marmo bianchissimo [ ] marmo nerissimo” Il Crocifisso dell’Escorial (Firenze 1562)

Cellini ritorna sulle vicende del Crocifisso,619 oggi in Spagna, in più sezioni della Vita,

ciascuna in riferimento ad una specifica circostanza della sua esistenza. L’opera fu realizzata Firenze, tra il 1556 e il 1562, ma ebbe una gestazione lunga e travagliata. Ne sentiamo parlare per la prima volta in riferimento a un episodio che lo coinvolse mentre si trovava nel carcere di Castel Sant’Angelo.620 Lo scultore rimase in prigione dall’ottobre

1538 alla fine del ’39.621 Secondo il resoconto della Vita, fu arrestato con l’accusa di avere

“rubato”, durante il Sacco del ’27, alcune “gioie” appartenute a Clemente VII, per un valore di “ottanta mila scudi”.622 Si direbbe che l’accusa fosse infondata. I “libri” e i

“conti” della Camera Apostolica furono rivisti con “grandissima diligenza”, e tutto risultò in ordine.623 Nonostante ciò, Cellini fu lasciato in prigione per “omicidii” e per altre sue

“diavolerie”624 (cioè senza una ragione meglio precisata).625 Sembra che inizialmente

619 B. Cellini, Crocifisso, 1562, marmo, la figura: 184 x 149 cm; la croce: 274 x 169 cm, San Lorenzo de

El Escorial. Per un’anali dell’opera si vedano A. Venturi, Storia dell’arte italiana, X. II (La scultura del

Cinquecento), Milano 1936, pp. 461-489: 468; C. Brandi, Cellini scultore, in Benvenuto Cellini artista e scrittore, atti del convegno (Roma-Firenze 1971), Roma 1972, pp. 9-16:15; Pope Hennessy, Cellini, cit.,

pp. 253-257, e J. López Gajate, El Cristo blanco de Cellini, San Lorenzo de El Escorial (Madrid) 1995.

620 Cellini, Vita, cit., I. CI-CXXVIII, pp. 336-408, in part. pp. 387-390.

621 Ivi, I. CI, p. 338; I. CXXIV, p. 392-393. I documenti a nostra disposizione permettono di precisare

meglio la data del suo arresto. Dall’atto della deposizione di Cellini difronte ai giudici di Castel Sant’Angelo sappiamo che l’esame avvenne il 24 ottobre 1538 (cfr. A. Bertolotti, Benvenuto Cellini a Roma

e gli orefici che lavorarono pei papi nella prima metà del secolo XVI, in “Archivio Storico Lombardo:

Giornale della società storica lombarda”, prima serie, I, 1-2 (1875), pp. 31-43; 78-113, in part. pp. 90-94). Siccome Cellini, Vita, cit., I. CII, p. 339, ricorda di essere stato interrogato dopo otto giorni carcere, si ipotizza che fu arrestato circa a il 16 ottobre 1538. Per quanto riguarda invece la data del suo rilascio, disponiamo dell’ordine di scarcerazione, datato 24 novembre 1538, in cui il Governatore di Roma, Benendetto Conversini, sotto la responsabilità del Cardinale Alessandro Farnese, ingiunse al Castellano di Sant’Angelo, di rilasciare in libertà Benvenuto su espresso ordine di Paolo III, cfr. E. Casanova, La

liberazione di Benvenuto Cellini dalle carceri di Castel Sant’Angelo (1902), in I. Del Badia (a cura di), Miscellanea fiorentina di erudizione e storia, 2 voll., rist. anast., Roma 1978, II, pp. 22-23.

622 Cellini, Vita, cit., I. CI, pp. 337-338. 623 Ivi, I. CIII, p. 344.

624 Ivi, I. CIV, p. 344.

625 I documenti non aiutano a chiarire la ragione per la quale Cellini fu arrestato. Il documento del 24 ottobre

1538, relativo alla deposizione dell’orafo, risulta poco leggibile e in tutti atti reperiti presso l’Archivio di Stato di Roma manca la qualifica del reato per il quale lo scultore si trovava in carcere. Sappiamo però che Cellini dovette produrre la documentazione relativa l’omicidio dell’orafo Pompeo de’ Capitaneis (settembre 1534), dal quale era stato già assolto con un Motu proprio di Paolo III, risalente all’agosto 1535. Su tutti questi aspetti cfr. Bertolotti, Benvenuto Cellini a Roma e gli orefici che lavorarono pei papi nella

avesse il permesso di muoversi all’interno del Castello e di “lavoracchiare” su qualche cosa (vuoi a certe opere “d’oro e d’argento” vuoi ad alcune “figurette” di “cera” che lo alleggerivano dal “fastidio” della prigione).626 Ma non passarono molti mesi che quel

“diavolo ingegnoso” fu fatto “rinchiudere con cento chiave”.627 Il Re Francesco I aveva

inviato a Roma più di una richiesta affinché fosse liberato.628 Questo, probabilmente, sortì

l’effetto contrario, arrecandogli “grandissima noia e danno” poiché Paolo III

era venuto in tanto furore per la gelosia che gli aveva che io non andassi a dire quella iscellerata ribalderia usatami, che e’ pensava tutti e’ modi che poteva con suo onore di farmi morire.629

Presentendo il peggio, lo scultore architettò la fuga e, nell’aprile del ’39, la mise in atto:630

In questo mezzo s’era levato un romore grandissimo in Roma: che di già s’era vedute le fascie attaccate al gran torrione del mastio di Castello, e tutta Roma correva a vedere questa inistimabil cosa.631

Suo malgrado, l’impresa giovò poco o nulla. Fu difatti riconsegnato dal Cardinal Cornaro nelle mani del Papa (“venduto” in cambio di un “vescovado”)632 e poi trasferito nel

carcere di Tor di Nona:

Istetti un pezzo di quella notte col pensiero a tribularmi qual fussi la causa che a Dio piaceva darmi cotal penitenzia; e perché io non la ritrovavo, forte mi dibattevo.633

626 Cellini, Vita, cit., I. CIV-CV, pp. 335-349, in part. pp. 335, 348. 627 Ivi, I. CVII, pp. 352-354: 354.

628 Ivi, I. CIV, pp. 344-345; I. CVI, p. 350 e I. CXXVI, p. 397. Le richieste da parte di Francesco I erano

giunte alla corte papale già pochi mesi dopo il suo arresto. Il suo resoconto offerto da Cellini trova conferma attraverso due missive del nunzio Ferrerio al Cardinale Alessandro Farnese (Melun, 3 febbraio e 18 marzo 1539), cfr. J. Lestocquoy (éd. par), Correspondance des nonces en France Capodiferro, Dandino et

Guidiccione, 1541-1546, Roma 1963, pp. 441 e 450. Dal primo documento si apprende che il Re aveva

intenzione di affidare a Cellini la realizzazione di “certe statue d’argento per apporle in una galleria acciò servissero di luminari” (si tratta dei dodici candelieri d’argento che saranno commissionati allo scultore al suo arrivo a Parigi e di cui realizzerà soltanto il Giove). Nonostante Francesco I “altre volte haveva scripto per la liberation sua”, la richiesta fu ulteriormente rinnovata “con queste condittioni però che sendo per debiti, i debiti si satisfaccino, et quando per altri conti, che si gli faccia la gratia, ma con una qualche reservatione che sia obligato a ricorr’a S.M. acciò possa più al sicuro servirsi di lui”.

629 Cellini, Vita, cit., I. CIV, pp. 344-335.

630 Ivi, I. CVI, pp. 349-350; I. CVIII-CX, pp. 354-361.

631 Ivi, I. CXI, p. 363. L’intero episodio, come ha scritto Maier, Umanità e stile di Benvenuto Cellini scrittore, cit., pp. 65-66, acquisisce un tono di “prodigiosa grandiosità e d’inaudita meraviglia”, Benvenuto

rivela in sé “qualcosa di formidabile e, insieme, di miracoloso e diabolico: una specie di forza scatenata dalla natura, ch’è vano cercar di trattenere”.

632 Cellini, Vita, cit., I. CXIV, 369-370. 633 Ivi, I. CXV, pp. 373-374.

La pena capitale non fu tuttavia eseguita, secondo il resoconto della Vita, grazie all’intervento in extremis di Girolama Orsini, “maravigliosa e ardita donna” che si espose in sua difesa. Fu quindi rimesso sotto la custodia del Castellano che questa volta gli inflisse una prigione ben più dura della prima:

Io fui portato sotto un giardino in una stanza oscurissima, dove era dell’acqua assai, piena di tarantole e di molti vermi velenosi. Fummi gittato un materassuccio di capecchio in terra, e per la sera non mi fu dato da cena, e fui serrato a quattro porte [...], mi fu portato un mio libro di Bibbia vulgare, e un certo altro libro dove eran le Cronache di Giovan Villani. [...]. Avevo un’ora e mezzo del dì di un poco di riflesso di lume il quale m’entrava in quella infelice caverna per una piccolissima buca; e solo di quel poco del tempo leggevo, e ’l resto del giorno e della notte sempre stavo al buio pazientemente, non mai fuor de’ pensieri de Dio e di questa nostra fragilità umana; e mi pareva esser certo in brevi giorni di aver a finir quivi e in quel modo la mia sventurata vita [...]: ma, come e’ mi mancava el lume, subito mi saltava addosso tutti i miei dispiaceri e davanmi tanto travaglio, che più volte io m’ero resoluto in qualche modo di spegnermi da me medesimo.634

La pagina ci restituisce un Cellini altrimenti sconosciuto, immerso in una umanità sofferta e tormentata. Questa situazione, protrattasi per mesi, trova esito nella descrizione di un “miracoloso soccorso” che sta all’origine della realizzazione del Crocifisso. Tuttavia, è necessario soffermarsi un poco sulle pagine che precedono. Cellini descrive l’esperienza di uno stato di estrema prostrazione che al contempo tocca e risveglia la sua capacità di reagire. Basta procedere nella lettura per trovarla splendidamente restituita:

Di tutte le cose io avevo in questa prigione dispiacevoli, tutte mi erano diventate amiche e compagne, e nulla mi disturbava [...] a tutte queste cose io m’ero tanto addimesticato, che di nulla io non avevo più paura e nulla più mi moveva; solo questo desiderio, che il sognare di vedere la spera del sole.635

L’insorgere di una scintilla, il “desiderio” di “vedere” l’astro del sole, trasforma uno stato emotivo doloroso nell’animarsi di una forza che nulla può spegnere. A partire da questo momento si configura progressivamente, nelle pagine della Vita, l’esperienza di un contatto effettivo (l’“essere insieme visibilmente”) con una forza “invisibile” che rinvigorisce il suo animo e lo riconduce all’amore per la vita. Questa si manifesta per la prima volta intervenendo attivamente così da impedirgli il suicidio:

634 Ivi, I. CXVII-CVIII, pp. 377-379. 635 Ivi, I. CXXI, p. 386-387: 386.

io fui preso da cosa invisibile e gittato quattro braccia lontano da quel luogo, e tanto ispaventato, che io restai tramortito: [...] ricordatomi che cosa poteva essere stata quella che m’avessi stòlto da quella cotale inpresa, pensai che fussi stato cosa divina e mia difensitrice.636

Di seguito, gli si rivela con l’aspetto di “una maravigliosa criatura in forma d’un bellissimo giovane”.637 Questa presenza diventa costante, intima, familiare:

sempre mi pareva essere insieme visibilmente con quello che invisibile avevo sentito e sentivo bene ispesso, a il quale io non domandavo altra grazia se none lo pregavo, e strettamente, che mi menassi dove io potessi vedere il sole.638

Agli occhi di Cellini l’intervento della “cosa invisibile”, poi trasformatasi in una “maravigliosa criatura”, costituiva il segno che Dio era accorso in suo aiuto. Da qui l’intensificarsi delle pratiche di devozione e preghiera, che trovano un apice nella richiesta di poter rivedere il “sole”:

se tu mi facessi degno che io lo vedessi con questi mia occhi mortali, io ti prometto di venirti a visitare al tuo santo Sepulcro ritrovare,639

e, nel contempo, di sapere “per qual mio peccato io facevo così gran penitenzia”.640 A

questo punto ha inizio il racconto di un’esperienza prodigiosa:

Dette queste parole, da quello Invisibile, a modo che un vento io fui preso e portato via, e fui menato in una stanza dove quel mio Invisibile allora visibilmente mi si mostrava in forma umana, in modo d’un giovane di prima barba; con faccia maravigliosissima, bella, ma austera, non lasciva.641

Tratto in questo modo fuori dal carcere, fu condotto in “un luogo come in una strada istretta” dove riuscì a vedere il “desiderato” “chiarore del sole”.642 Tuttavia, “la forza de’

suoi razzi” gli fece istintivamente “chiudere gli occhi”. Quando li aprì, fu inondato da un bagno di luce. I “razzi” del sole si erano raccolti da una parte dell’astro, lasciando il disco

636 Ivi, I. CXVIII, p. 379-380. 637 Ivi, I. CXIX, p. 380.

638 Ivi, I. CXXI, p. 386-387: 386.

639 Ivi, pp. 386-387: “Questa resoluzione e queste mie maggior preci a Dio le feci a’ dì dua d’ottobre nel

mille cinquecento trentanove”. Si tratta del voto che del quale lo scultore si rammenterà poco dopo essersi trasferito in Francia nel 1540 (cfr. ivi, II. XI, pp. 433-436: 435).

640 Ivi, I. CXXI, p. 387.

641 Ivi, I. CXXII, pp. 387-390: 387. 642 Ivi, I. CXXII, pp. 387-390: 388.

luminoso a tal punto “netto” che gli fu possibile vederlo con “grandissimo piacere”.643 La

sostanza emotiva dell’esperienza implica il passaggio attraverso una condizione di afflizione che conduce al dilagare di uno stato di grazia, nutrito di un sentimento di stupore e meraviglia, che Cellini restituisce attingendo alle immagini della sua esperienza concreta di artefice:644

Mi pareva questo sole sanza i razzi sua, né più né manco un bagno di purissimo oro istrutto. In mentre che io consideravo questa gran cosa, viddi in mezzo a detto sole cominciare a gonfiare; e crescere questa forma di questo gonfio, e in un tratto si fece un Cristo in croce della medesima cosa che era il sole; ed era di tanta bella grazia in benignissimo aspetto, quale ingegno umano non potria inmaginare una millesima parte.645

Questo sole, che sembrava simile a “un bagno di purissimo oro istrutto”,646 subì

un’ulteriore trasformazione. Il Crocifisso si spostò sul lato dove precedentemente si erano radunati i raggi del sole mentre, al centro, la sfera “di nuovo gonfiava” così “come aveva fatto prima” e “subito si convertì” nella “forma” di una

bellissima Madonna, qual mostrava di essere a sedere in modo molto alto con il ditto figliuolo in braccio in atto piacevolissimo, quasi ridente; di qua e di là era messa in mezzo da duoi angeli bellissimi tanto quanto lo immaginare non arriva. 647

643 Ibid.

644 Come ha scritto A. Venturi, Storia dell’arte italiana, cit., p. 488: “l’orafo, il maestro delle arti figurative

trasporta immagini plastiche e pittoriche nella sua prosa” al punto che “pare che Cellini lavori il disco di purissimo oro di rovescio coi ceselli, e lo faccia gonfiare di bozza” e che “l’artefice non sogni, bensì formi, ceselli e smalti”. Senza dubbio “possiamo dire che l’arte dell’orefice diede sottigliezze, eleganze, raffinatezze nuove al dettato del maestro, disegno sicuro e netto, vivo e subito rilievo a frasi e parole”.

645 Cellini, Vita, cit., I. CXXII, pp. 387-390: 388. Troviamo menzionato per la prima menzionato il “mio

bel Cristo” in un atto notarile, il Testamento dettato da Cellini il 10 agosto 1555, a conferma di una

Donazione post mortem (registrata dal notaio Pierfrancesco Bertoldi sotto la stessa data) con la quale

nominava suo erede universale il figlio Iacopo Giovanni (1553-1555), “Et cum onere etiam quod dictus Icobus Iohannes, casu quo ipse dominus Benvenutus manu sua non effecisset antequam obiret, teneatur expendere scutos quingentos auri in auro in faciendo ut vulgariter dicitur ritrare corpus Christi ab ipso domino Benvenuto et manu ipsius propria factum de cera alba et quod corpus representat Christum crucifixum et vocat[ur] ipse vulgariter ‘il mio bel Christo’, et voluit et ita iussit et mandavit et onerat ut fiat marmoreus, magnitudinis ad minus illius fabricati et facti ut dicitur per Phylippum ser Brunellechi.” ASF, Notarile antecosimiano, 2570, ex-B596 (Pierfrancesco Bertoldi), cc. 272r-274r. Estratti pubblicati in P. Calamandrei, Nascita e vicende del ‘Mio bel Cristo’ (1550), in Scritti e inediti Celliniani, a cura di C. Cordiè, Firenze 1971, pp. 59-98.

646 Ivi, I. CXXII, p. 389.

647 Ivi, I. CXXII, p. 389. Indiscutibile il legame, rintracciato da P. Calamandrei, Nascita e vicende del ‘mio bel Cristo’, cit., p. 74, tra le indicazioni contenute nel testamento di Cellini del 1555 e la descrizione della

Vita: “la descrizione del bassorilievo contenuta nella donazione e nel testamento del 1555 preannunzia e prepara, in nuce, le più diffuse pagine colle quali nella ‘Vita’, Benvenuto descrisse poi la visione miracolosa apparsagli nel 1539”.

Sulla destra, ricorda invece

una figura vestita a modo di sacerdote: questa mi volgeva le stiene e 'l viso teneva vòlto inverso quella Madonna e quel Cristo.648

Si trattava del “santo Pietro”. Questi “avocava” a sé la difesa di Benvenuto, “vergognandosi che innella casa sua si faccia ai cristiani così brutti torti”,649 con una nota

palese di biasimo nei confronti della condotta di Paolo III. Dopo quella visione (“tutte queste cose io vedevo vere, chiare e vive”)650 Cellini si riconobbe libero da ogni colpa:

La virtù de Dio m’ha fatto degno di mostrarmi tutta la gloria sua, quale non ha forse mai visto altro occhio mortale: onde per questo io mi cognosco di essere libero e felice e in grazia a Dio. 651

Cristo si era rivelato ai suoi occhi e questo garantiva della sua lindura morale. La visione costituiva la prova patente che il torto stava tutto dalla parte dei suoi aguzzini. A questo punto Cellini poteva formulare un giudizio inequivoco sulla situazione, forte com’era di un’assoluzione che proveniva direttamente da Dio. Anzitutto è il Papa ad essere colpito dai suoi strali:

dite al quel Signor che mi tien qui, che se lui mi dà o cera o carta, e modo che io gli possa sprimere questa gloria de Dio, che mi s’è mostra, certissimo io lo farò chiaro di quel che forse lui sta in dubbio,652

La frase interessa non soltanto perché accusa il Pontefice di miscredenza ma perché introduce un motivo per noi essenziale, vale a dire l’emergere dell’intenzione di riprodurre (“sprimere”), in forma figurativa, l’esperienza della visione (“questa gloria de Dio, che mi s’è mostra”) in modo tale da renderla pubblicamente, quale segno di grazia e favore. Dopo che fu provvisto di “cera e certi fuscelletti fatti per lavorar di cera”,653 si

mise all’opera e, nel giro di un mese (“il primo dì di novembre”),654 aveva già “disegnato

648 Cellini, Vita, cit., I. CXXII, p. 389. 649 Ivi, I. CXXII, p. 390.

650 Ivi, I. CXXII, p. 389. 651 Ivi, I. CXXII, p. 390. 652 Ibid.

653 Ivi, I. CXXIII, p. 390-391.

654 Ivi, I. CXXII, p. 392: “io sono certissimo, che il dì di tutti e Santi, quale fu quello che io venni al mondo

nel mille cinquecento a punto, il primo dì di novembre, la notte seguente a quattro ore, quel dì che verrà, voi sarete forzati a cavarmi di questo carcere tenebroso; e non potrete far di manco, perché io l’ho visto con gli occhi mia e in quel trono di Dio”.

e scolpito” quel “maraviglioso miracolo”.655 Si tratta del nucleo della visione, l’immagine

di

un Cristo in croce della medesima cosa che era il sole,

immediatamente fissato nella cera e poi concretizzato, dopo circa vent’anni, nella forma monumentale del “Crocifisso di marmo”.

L’orafo fu liberato da Castel Sant’Angelo, grazie all’intervento del Cardinale di Ferrara,656 verosimilmente tra la fine del novembre e i primi di dicembre del ’39.657 Questi

si era assunto l’onere della mediazione al fine di condurre l’orafo al servizio di Francesco I. I due arrivarono a Parigi meno di un anno dopo, tra la fine di settembre e i primi di ottobre del 1540.658 Tuttavia, di seguito a un contrasto relativo all’entità del compenso

che gli veniva offerto (visto che “trecento ducati” gli sembravano pochi ma neppure poteva tollerare che il Cardinale lo volesse “mercatare, come se ei fusse una soma di legne”),659 lo scultore decise di lasciare una delle corti europee più ambite del

Cinquecento, “turbatissimo” ma sollecitato dall’esigenza di prestare fede al voto, che aveva formulato mentre si trovava in carcere, di recarsi in pellegrinaggio al Santo Sepolcro.660 L’incertezza sulla sua sorte, una volta lasciata la Francia, fu colmata dalla

ferma intenzione di non lavorare mai più ad altra opera eccetto che a

un Cristo grande di tre braccia, appressandomi più che potevo a quella infinita bellezza che dallui stesso m’era stata mostra.661

Lo scultore dovette accantonare questo progetto poiché un “mandato del Re” lo raggiunse con l’ordine di farlo tornare indietro o altrimenti di condurlo a Parigi “legato come prigione”: questa “parola della prigione” lo stornò dal suo proposito.662

655 Ivi, I. CXXIV, pp. 392. La visione può essere datata al precedente 3 ottobre, cfr., ivi, I. CXXI, p. 387: la

visione seguì le preghiere che lo scultore rivolse a Dio “a dì dua d’ottobre nel mille cinquecento trentanove” e precisamente “la mattina seguente, che fu a’ dì tre di ottobre detto”.

656 Ivi, cit., I. CXXVI-CXVII, pp. 397-398

657 I rapporti tra l’orafo e Ippolito d’Este si strinsero nel 1537, all’epoca del primo viaggio dell’orafo presso

la corte francese, cfr. Cellini, Vita, I. XCVIII, pp. 330-331; I. C, p. 335.

658 Sulla data dell’arrivo di Cellini in Francia, cfr. Jestaz, Benvenuto Cellini et la cour de France (1540- 1545), pp. 76-78.

659 Cellini, Vita, II. X, pp. 432-433.

660 Ivi, II. XI, pp. 433-436: 435. Il voto era stato formulato il 2 ottobre 1539 (cfr. ivi, I. CXXI, p. 387). 661 Ivi, II. XI, p. 435.

Dopo queste indicazioni, non sentiamo più parlare del Crocifisso fino al 1559. Nel lasso di tempo intercorso, Cellini si era tornato Firenze, rimanendovi, per realizzare il Perseo.663 Il lavoro richiese nove anni e fu portato a termine nel 1554. Nonostante la

riuscita del getto, lo scultore ne ricavò più “dispiacere” che altro e “dolendosi” disse la “verità delle sue ragioni”:664 il “Principe, mosso da avarizia”, aveva fatto in modo di

ricompensarlo “il meno che lui poteva”.665 Di conseguenza, i rapporti con lui si

inasprirono al punto da causare la progressiva estromissione dell’artista dalle commesse ducali. All’interno di queste vicende, il Crocifisso emerge configurandosi come il movente determinante delle azioni che Cellini intraprese presso i suoi committenti.

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