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A Venezia, la situazione femminile risultava essere sottoposta a minori vincoli e restrizioni di quanto non fosse in altre città italiane: il sistema giuridico veneziano, infatti, permetteva di svolgere compiti ed esercitare diritti che altrove spesso erano loro preclusi. Una donna veneziana aveva la facoltà di disporre dei beni mobili ed immobili ad essa spettanti, di ricevere l'incarico di fidecommissaria per l'esecuzione dei testamenti, di operare su altrui mandato, di rendere testimonianza e di designare i tutori dei propri figli, con un atto che conferiva alla madre una sorta di patria potestà. Poteva anche autonomamente stipulare compravendite, locazioni, contratti commerciali, compiere donazioni, fornire ed ottenere prestiti, rilasciare quietanze e fare testamento. In particolare, i diritti delle testatrici erano protetti da una legge del 1474, che proibiva al marito di essere presente alla registrazione delle ultime volontà della moglie, tutelandola quindi dalla sua influenza e potere.

Le ragioni di questa situazione sono riconducibili in primo luogo al particolare sistema economico, quello della società mercantile a base familiare, ed in secondo luogo ad un sistema politico in cui tutto era messo in opera per preservare equilibrio e reciprocità degli

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scambi economici e matrimoniali tra famiglie patrizie22. La stabilità del sistema veneziano dipendeva infatti da una buona gestione delle nozze, che venivano concluse escludendo completamente i sentimenti personali dei singoli individui, privilegiando gli interessi e cementandoli attraverso le preziose amicizie politiche, sociali ed economiche. Le complesse strategie familiari venivano utilizzate anche per neutralizzare la dispersione del patrimonio, attraverso l'imposizione del celibato o della monacazione, nonché nell'utilizzo dell'istituto del fidecommesso23: la saggia ed oculata gestione e conservazione dei beni erano indispensabili per la sopravvivenza dei casati, per svolgere e sviluppare l'attività mercantile e creditizia, nonché come fondamento e garanzia dell'importanza sociale e politica. Sicuramente il declino che conobbe il commercio nel XVII secolo, insieme allo sviluppo degli investimenti in Terraferma, determinarono la necessità di salvaguardare la proprietà terriera con la conseguente espansione dell'istituto del fedecommesso, con il quale non solo si istituiva – solitamente per via testamentaria – un vincolo di inalienabilità sui beni familiari, che dovevano quindi rimanere in perpetuo al casato del testatore, ma anche una protezione dalle richieste dei creditori, che non potevano rifarsi su tali beni per il loro soddisfacimento.

Le famiglie patrizie costruivano quindi la loro rispettabilità sull'adozione di questa pratica e, pur di mantenere il proprio status, erano disposte a sacrificare i propri figli obbligandoli al celibato, alla monacazione o a sposare donne non nobili, ma appartenenti a famiglie di ricchi mercanti o di nobili di Terraferma disposti a concedere doti consistenti pur di fare entrare una figlia nel patriziato. La redazione del contratto di matrimonio costituiva l'atto finale di una trattativa, il frutto di un accordo ben preciso su una serie di variabili quali l'importo, la composizione, i tempi di corresponsione della dote ed i corrispettivi obblighi del marito: il ricorso al notaio rappresentava una cautela indispensabile al fine di evitare eventuali conflitti, soprattutto per i ceti elevati. L'istituto dotale rappresentava uno dei fondamenti della struttura economica e sociale della famiglia ed occupava un posto di assoluto rilievo, sul piano legislativo e giurisdizionale, anche nell'ambito della prassi

22

A. BELLAVITIS, "La dote a Venezia tra medioevo e prima età moderna", in A. Bellavitis, N. M. Filippini e T. Plebani (a cura di), Spazi, poteri, diritti delle donne a Venezia in età moderna, QuiEDit, Verona - Bolzano 2012, pag. 5; T. PLEBANI, op.cit., pag. 59

23 Sull'argomento si vedano: E. GARINO, "Insidie familiari. Il retroscena della successione testamentaria a

Venezia alla fine del XVIII secolo", in G. Cozzi (a cura di), Stato, società e giustizia nella Repubblica

veneta, (sec. XV-XVIII), Jouvence, Roma 1981, pp. 301-378; G. ROSSI, "I fidecommessi nella dottrina e

nella prassi giuridica di ius commune tra XVI e XVII secolo", in S. Cavaciocchi (a cura di), La famiglia

nell'economia europea: secc. XIII-XVIII. Atti della Quarantesima settimana di studi, 6-10 aprile 2008,

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notarile. Il termine dote individuava, nel diritto romano, il complesso di beni che dalla moglie, dal padre o da altri per lei, veniva portato al marito per contribuire alle esigenze di vita della nuova famiglia; con il codice Giustinianeo del VI secolo, essa divenne obbligatoria e si mantenne costante nei secoli sopravvivendo in Italia fino al 1975, quando venne abolita con la riforma del diritto di famiglia24. La sua importanza rispecchiava il ruolo delle donne nella famiglia e nella società: non erano solo strumenti per la realizzazione di strategie patriarcali, ma soprattutto individui che avevano dei diritti e delle libertà nel riceverla, gestirla e trasmetterla in eredità.

Secondo gli Statuti veneziani del 1242, il padre aveva il dovere di fornire alla figlia una dote25, provvedendovi in vita, oppure lasciando delle disposizioni nel suo testamento. Il problema sorgeva nel momento in cui egli fosse morto senza aver definito le sue ultime volontà: se lasciava solo figlie, i beni paterni venivano tra loro egualmente divisi, sottraendo per quelle sposate l'ammontare della dote; in presenza invece di figli di entrambi i sessi, la regola generale di successione prevedeva che ai maschi venissero lasciati i beni immobili e che i beni mobili venissero divisi tra tutti i figli maschi e le sole figlie non sposate. Qualora quest'ultime avessero ritenuto tale attribuzione insufficiente, avevano la possibilità di ricorrere in giudizio, per ottenere una dote congrua; la stessa doveva essere infatti adeguata rispetto alla qualità della sposa ed alla quantità di beni, quindi il concetto era strettamente legato allo status sociale e familiare di entrambi gli sposi e non legato alla stima delle necessità materiali.

E' importante notare che la definizione di bene mobile era piuttosto incerta, infatti nei tribunali si discuteva spesso su quanto fosse compreso in questo termine, se "le possessioni di fuori, se gl'inviamenti et quali, se le biade grezze e separate, o se solo crediti e denari

24 S. D'ERRICO, "La dote nell'ordinamento Italiano", in L. Bongermino (a cura di), Donna: dalla dote alle

doti, Provincia di Taranto, Taranto 2009, pp.65-78

25

Sull'argomento si vedano: A. BELLAVITIS, "La famiglia cittadina veneziana nel XVI secolo: dote e successione. Le leggi e le fonti", in Studi veneziani, (30), 1995, pp. 55-68; A. BELLAVITIS, "Dot et richesse des femmes à Venise au XVIe siècle", in CLIO. Histoire, femmes et sociétés, (7), 1998, pp. 91-100; A. BELLAVITIS, "Patrimoni e matrimoni a Venezia nel Cinquecento", in G. Calvi e I. Chabot (a cura di), Le

ricchezze delle donne: diritti patrimoniali e poteri familiari in Italia (XIII-XIX secc), Rosenberg & Sellier,

Torino 1998, pp. 152-153; A. BELLAVITIS, "La dote a Venezia tra medioevo e prima età moderna", op. cit., pp. 5-20; P. LANARO, "La restituzione della dote. Il gioco ambiguo della stima tra beni mobili e beni immobili (Venezia tra Cinque e Settecento)", in Quaderni storici, Vol. 3, Il Mulino, Bologna 2010, pp. 753- 778; P. LANARO, G. M. VARANINI, "Funzioni economiche della dote nell'Italia centro-settentrionale (tardo medioevo/inizi età moderna)", in S. Cavaciocchi (a cura di), La famiglia nell'economia europea: secc.

XIII-XVIII. Atti della Quarantesima settimana di studi, 6-10 aprile 2008, Firenze University press, Firenze

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contadi, se i semoventi, se i livelli affrancabili e se i perpetui26". Con l'espressione

possessioni di fuori venivano considerate le case di campagna fuori città: per un paradosso

tutto veneziano, i beni mobili si trovavano dunque in Terraferma, mentre era considerato immobile solo quanto edificato all'interno della laguna. Alle donne non era preclusa quindi la possibilità di ereditare beni immobili – soprattutto provenienti dai beni materni – ma la tendenza era quella di mantenere nella linea maschile la casa da stazio, simbolo dell'unità familiare e del radicamento in città del casato.

Nel caso veneziano la dote appare contemporaneamente come anticipazione dell'eredità paterna e come porzione inferiore di quella spettante ai figli maschi; se questa non era stata fornita dal padre, anche le figlie dotate rientravano nella divisione del patrimonio in parti uguali, perché si presupponeva la bilateralità della successione. I beni materni, invece, venivano divisi in parti uguali tra maschi e femmine, e le figlie potevano disporne al momento del matrimonio o della monacazione.

La moglie non aveva alcun diritto ad ereditare dal marito ma poteva acquisire – solo se prometteva di non risposarsi e nel caso in cui egli non avesse fatto testamento – il diritto di restare a vivere nella dimora maritale; nel caso in cui il consorte l'avesse designata nel testamento come donna et madonna, poteva restare nella casa, ricevere gli alimenti e governare figli e domestici. Allo stesso modo il marito non aveva alcun diritto sull'eredità della moglie, la quale poteva decidere liberamente a chi lasciare i propri beni.

Una volta che era stato raggiunto l'accordo su tutti i termini del patto, il notaio redigeva l'imbreviatura, in cui si puntualizzavano in ordine consequenziale gli impegni assunti dagli sposi e dalle relative famiglie. Innanzitutto i nubendi promettevano il loro reciproco consenso alla celebrazione del matrimonio; in secondo luogo veniva indicata l'entità della dote ed il momento in cui sarebbe stata versata ed infine lo sposo si obbligava, una volta ricevuti i beni dotali, a fare una specifica confessione di dote ed a restituirli nei casi previsti dalla legge.

Verranno riportati di seguito i testi dei due contratti di matrimonio trovati all'interno del fascicolo, particolarmente significativi perché in essi vengono specificati gli impegni maritali e la composizione della dote in prime ed in seconde nozze – in quest'ultimo caso corredata da un inventario – ed altri atti ad essi strettamente connessi come la costituzione di controdote e la certificazione da parte dello sposo di avvenuta ricezione della dote.

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Tabella 1 - Caratteristiche dei contratti di dote

DOTI*

DATA MATRIMONIO AMMONTARE GENERI

Maggio 1642 Ducati 329, lire 3 soldi 19 Mobili e denari contanti

8 Gennaio 1639 Ducati 250 Denaro

- Ducati 406

Un paio di monili, un paio di orecchini, un fil de perosini d'oro, sei aghi e due anelli

uno con pietra bianca e l'altro con pietra verde per ducati 60

Mobili per ducati 120 Piata per ducati 126 Contanti per ducati 100

Febbraio 1649 Ducati 340

Mobilie per ducati 150 Contanti per ducati 20 Controdote ducati 170

Febbraio 1649 Ducati 400 Denaro, ori e mobili per ducati 259

Controdote ducati 141

- Ducati 380

Mobili e ori per ducati 320 Contanti per ducati 10

Controdote ducati 50

1629 Ducati 520 Contanti e mobili per ducati 280

Controdote ducati 240

18 Settembre 1648 Ducati 1.100

Beni mobili per ducati 600 Contanti per ducati 500 Offizio capo de appontadori affittato per 96 ducati all'anno Facoltà di prendere altro offizio

con rendita di 3 ducati al mese

- Ducati 500 Controdote

- Ducati 600 Contanti

- Ducati 1.650 Contanti

- Ducati 700 Contanti

15 Marzo 1636 Ducati 1.000 Contanti

9 Febbraio 1649 Ducati 19.100

Contanti per ducati 10.000 Affitto palazzetto per ducati 1.500 Deposito in zecca per ducati 2.000

Crediti per ducati 548 Ori, zogge e argenti per ducati 990

Mobili e corredo per ducati 4.062 * Sono escluse le procure a riscuotere doti perché prive di dati necessari alla costruzione del prospetto

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Figura 11 - Incidenza maschile e femminile nei contratti nuziali e dotali

La dote della sposa, al suo primo matrimonio, era costituita in larga misura da capitali liquidi, titoli di stato, ma anche da uffici che potevano essere commercializzati, così come poteva esserlo la parte relativa al corredo composto da gioielli, panni di seta e mobilia: in questo modo svolgeva una funzione essenziale per rendere più solido un patrimonio per altri versi pericolante. Le doti delle spose di ceto popolare erano spesso frutto del loro lavoro ed integrate da lasciti di beneficienza, ottenuti tramite le associazioni di mestiere o le istituzioni di assistenza.

"Die sabbati decima nona mensis februarii 1649: ad cancellum.

Costituito innanti a ma Nodaro, alla presentia degli infrascritti testimonii, l'Illustrissimo Signor Gerollemo Bragadin fo' dell'Illustrissimo Signor Vicenzo da una parte, et Domino Francesco Fabris dall'altra, et presentorno a me infrascritto Nodaro il presente contratto di Nozze del medemo Illustrissimo Signor Gerolemo Bragadin et dell'Illustrissima Signora Beatrice Bragadin sua consorte affirmando le sottoscrittioni nel detto contratto contenute esser di mano di quelli medemi, che si sono sottoscritti perché debba reggistrarlo nelli publici atti miei, et rillevarlo in forza di publico instrumento, per haverne una, et più estrationi auttentiche da valersene in ogni occasione, et causa in giuditio, et fuori il tenor, del qualle segue et infra

Testes: Dominus Ioannes Baptista Boldini quondam Ecc.mi Domini Pompei

et Ecc.mi Dominicus quondam Ecc.mo Victo De Vido de confinio Sancte Thomà

Laus deo 1636: adì 15 marzo in Venetia

A nome del Signor Iddio, et della Santissima Trinità Padre, Figliolo et Spirito Santo, si contraze vero, et leggittimo matrimonio, come comanda il Signor Iddio, et la Santa Romana Chiesa tra l'Illustrissimo Signor Pollo Bragadin quondam Illustrissimo Signor Zuanne, et la Illustrissima Signora Chiara, et Ellisabetta Bragadina quondam Illustrissimo Signor Zuanne, tutti come commissarii, e tuttrici, e governatrici dell'Illustrissima Signora Beatrice Bragadina quondam Illustrissimo Signor Lorenzo, loro nezza, appar testamento di detto Illustrissimo Signor Lorenzo et terminatione, all'Offitio Illustrissimo di Petition de dì 20: marzo 1630:, alla quale s'habbi rellatione da una, et l'Illustrissimo Signor Vincenzo

DOTI MATRIMONI