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Nel quadro dell’Unione europea, per “matrimonio fittizio” si intende il matrimonio di un cittadino di uno Stato membro, o di un cittadino di un paese terzo che soggiorna regolarmente in uno Stato membro, con un cittadino di un paese terzo unicamente allo scopo di eludere le norme relative all’ingresso e al soggiorno dei cittadini dei paesi terzi e di ottenere per il cittadino del paese terzo un permesso di soggiorno o un titolo di soggiorno in uno Stato membro.

Nonostante il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia sia riconosciuto dall’art. 12 della CEDU, nonché dall’art. 16 della dichiarazione universale sui diritti dell’uomo, e sebbene l’art. 8 CEDU riconosca il diritto al rispetto della vita familiare, l’Unione europea è intervenuta al fine di incoraggiare gli Stati membri ad adottare delle misure per lottare contro il fenomeno dei matrimoni fittizi317. L’intento perseguito a livello europeo non era di certo quello di introdurre controlli sistematici per tutti i matrimoni con cittadini dei paesi terzi, bensì di prevedere accertamenti qualora esistano sospetti fondati per ritenere che un matrimonio venga contratto al solo scopo di ottenere un titolo di soggiorno in uno Stato membro. In tal senso, secondo le indicazioni dell’Unione europea, i fattori che consentono di presumere che un matrimonio sia fittizio sono in particolare: il mancato mantenimento del rapporto di convivenza; l’assenza di un contributo adeguato alle responsabilità che derivano dal matrimonio; il fatto che i coniugi non si siano mai incontrati prima del matrimonio o che commettano errori sui loro rispettivi dati personali, sulle circostanze in cui si sono conosciuti o su altre informazioni importanti di carattere personale che li riguardano; il fatto che i coniugi non parlino una lingua comprensibile per entrambi o che venga corrisposta una somma di denaro affinché il matrimonio sia celebrato; il fatto che dai precedenti di uno o dei due coniugi risultino indicazioni di precedenti matrimoni fittizi o irregolarità in materia di soggiorno.

Tali informazioni possono risultare da dichiarazioni degli interessati o di terzi, da documenti scritti o da informazioni ottenute nel corso di un’indagine. Qualora esistano fattori

317 Risoluzione del Consiglio del 4 dicembre 1997 sulle misure da adottare in materia di lotta contro i matrimoni fittizi, in GUUE C 382, del 16 dicembre 1997.

a sostegno del sospetto che si tratti di un matrimonio fittizio, gli Stati membri rilasciano al cittadino di un paese terzo il permesso di soggiorno o un titolo di soggiorno in virtù del matrimonio, soltanto previa verifica da parte delle competenti autorità nazionali che il matrimonio non è fittizio e che sono soddisfatte le altre condizioni relative all’ingresso e al soggiorno, accertamento che può anche implicare un colloquio separato con ciascuno dei due coniugi.

Allorché le autorità competenti stabiliscono che il matrimonio è fittizio, tale permesso di soggiorno viene di regola ritirato, revocato o non rinnovato. Il cittadino del paese terzo ha la possibilità di contestare o di fare riesaminare, conformemente al diritto nazionale, una decisione di rifiuto, di ritiro, di revoca o di non rinnovo del permesso di soggiorno ovvero del titolo di soggiorno, sia dinanzi ad un organo giurisdizionale che dinanzi all’autorità amministrativa competente.

Allo stato attuale, nessun testo più vincolante è stato emanato a livello europeo, probabilmente perché tale condotta rientra già nel campo d’applicazione della direttiva e della decisione-quadro del 28 novembre 2002 sul favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Sarebbe comunque auspicabile che l’Unione europea procedesse a un ravvicinamento delle legislazioni in materia, specie in ragione della rilevanza che assumono il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il diritto al matrimonio.

II PARTE. ORIENTAMENTI E NORME NAZIONALI IN MATERIA DI IMMIGRAZIONE IRREGOLARE

Il controllo dei flussi migratori e la disciplina dell’ingresso e della permanenza degli stranieri nel territorio nazionale costituisce una delle principali prerogative connesse alla sovranità statale, che si estrinseca nella piena libertà di ogni Stato di ammettere o meno gli stranieri nel proprio territorio e di espellere coloro che si trovano in posizione irregolare. Si tratta di un grave problema sociale, umanitario ed economico che implica valutazioni di politica legislativa non riconducibili a mere esigenze generali di ordine e sicurezza pubblica, né sovrapponibili o assimilabili a problematiche diverse, legate alla pericolosità di alcuni soggetti o di alcuni comportamenti che nulla hanno a che fare con il fenomeno dell’immigrazione.

Tale problematica non è stata di certo eliminata in seguito allo sviluppo di una politica comune europea, in quanto la competenza in materia di immigrazione è attribuita all’Unione in via concorrente rispetto a quella degli Stati membri. Si tratta, dunque, di una materia la cui titolarità spetta sia agli Stati sia all’Unione (art. 4 TFUE) e nella quale i primi possono legiferare liberamente fino a quando l’Unione non sia intervenuta; negli altri casi potranno agire soltanto nella misura in cui l’Unione non abbia esercitato la competenza o se l’Unione abbia deciso di cessare una competenza già avviata (art. 2, par. 2 TFUE). In questo quadro, l’art. 70 TFUE espressamente prevede che le disposizioni del nuovo Titolo V del TFUE non ostano all’esercizio delle responsabilità incombenti agli Stati membri per il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna, introducendo una sorta di riserva di competenza che autorizza gli Stati ad adottare atti anche laddove ci siano normative dell’Unione. A tal proposito, è da rilevare però che le nozioni di ordine pubblico e di sicurezza interna devono essere intese come nozioni di diritto dell’Unione europea e quindi interpretate secondo quanto la Corte di Giustizia ha avuto modo di affermare in materia di limiti alla circolazione delle persone e delle merci, dove vigono analoghi limiti all’applicazione delle libertà sancite dal Trattato.

Ricostruiti quindi i criteri di ripartizione delle competenze in materia di immigrazione tra Unione e Stati membri, si analizzeranno in particolare le politiche adottate in materia di contrasto dell’immigrazione irregolare da due diversi Stati membri dell’Unione - Francia e Italia - che, sebbene si affaccino entrambi nel bacino mediterraneo, sono diversamente esposte ai flussi migratori. Tale indagine sarà volta ad accertare la compatibilità delle legislazioni vigenti nei diversi ordinamenti giuridici agli standard delineati a livello europeo.

Capitolo I. La politica francese di contrasto dell’immigrazione irregolare L’analisi della legislazione francese in materia di contrasto dell’immigrazione irregolare permette di individuare tre diverse categorie di misure - atti di polizia amministrativa, sanzioni amministrative, sanzioni penali - che concernono tutti coloro che violano la disciplina relativa all’ingresso e al soggiorno degli stranieri in Francia e sono in quanto tali suscettibili di essere applicate tanto agli stranieri, quanto ai cittadini francesi e alle persone giuridiche che abbiano in qualche modo favorito tale violazione. Tale “trilogia di misure” che caratterizza oggi la legislazione francese non è però una costante storica del diritto degli stranieri, in quanto questo alle origini presentava piuttosto le caratteristiche di una vera e propria “polizia amministrativa” creata da e per l’amministrazione al fine di garantire l’ordine pubblico, come risulta dal fatto che dall’ordinanza del 2 novembre 1945 - che costituisce la prima codificazione del diritto degli stranieri adottata per via amministrativa - alla legge del 10 gennaio 1980 - preludio di diverse riforme fino all’ultima del 16 giugno 2011 - il legislatore non è stato coinvolto nell’elaborazione di tali regole318. Tale disinteresse si può spiegare considerando che, fino agli anni Ottanta, la lotta contro l’immigrazione irregolare non rivestiva per la Francia carattere prioritario, limitandosi le autorità amministrative ad adottare delle misure volte a proteggere il mercato del lavoro nazionale dall’offerta di manodopera straniera. Pur esistendo, già negli anni Trenta, un dispositivo che consentiva alle amministrazioni pubbliche di controllare i movimenti dei lavoratori stranieri, decidendo il rilascio dei contratti di lavoro e modulando la loro durata secondo le esigenze dei vari settori produttivi e delle regioni interessate, lo Stato non era infatti ancora in condizione di esercitare un controllo efficace sui flussi di ingresso degli stranieri nel territorio francese, potendosi tutt’al più limitare a negare il rinnovo dei permessi di soggiorno, comportando così la partenza spontanea dal territorio nazionale o l’impossibilità di accedere al mercato del lavoro.

La presa di coscienza che un controllo effettivo dell’immigrazione poteva essere raggiunto solo mediante un rafforzamento della dimensione penale del diritto degli stranieri ha portato nel corso degli anni ad affiancare al volet économique, che da sempre caratterizza la legislazione francese in materia di immigrazione, un volet policier che, inizialmente rispondente a considerazioni meramente nazionali, cominciò ben presto a inquadrarsi

318 Cfr. V.TCHEN, L’architecture des choix français en matière de lutte contre l’immigration irrégulière, in R.

SICURELLA, Il contrasto dell’immigrazione clandestina: esigenze di tutela, tentazioni simboliche, imperativi

pienamente nell’ambito di una politica europea volta a intensificare la lotta contro l’immigrazione clandestina, al fine di poter meglio soddisfare le esigenze di sicurezza dei cittadini.

Nella nuova dimensione perseguita ormai anche a livello europeo, la Francia ha dunque intrapreso un processus de pénalisation del diritto degli stranieri, che si è manifestato essenzialmente attraverso un ampliamento dell’ambito di applicazione personale delle disposizioni in materia di immigrazione, passando da una repressione amministrativa concernente esclusivamente lo straniero, principale destinatario delle regole di ingresso, circolazione e soggiorno alla base di ogni politica di immigrazione, a una repressione penale che dallo straniero si è estesa a tutti gli attori che favoriscono indirettamente la violazione delle regole primarie di tale politica. Il risultato che ne è derivato è un sistema basato sul ricorso tanto alla sanzione amministrativa quanto alla sanzione penale, in cui sono attribuite competenze diverse al giudice amministrativo e all’autorità giudiziaria. In particolare, la competenza del giudice amministrativo per garantire l’ordine pubblico si basa su un fondamento costituzionale, in quanto, come ha riconosciuto la stessa Corte Costituzionale nel 1989, conformemente alla concezione francese della separazione dei poteri, tra i principi fondamentali riconosciuti dalle leggi della Repubblica vi è quello secondo cui rientra nella competenza della giurisdizione amministrativa l’annullamento o la modifica delle decisioni prese, nell’esercizio delle prerogative di pubblico potere, dalle autorità che esercitano il potere esecutivo e dai loro agenti319. In quest’ottica, dunque, le decisioni adottate dall’autorità amministrativa sulla base del Code des étrangers, quali il rifiuto d’ingresso nel territorio, il rilascio di un permesso di soggiorno o di residenza, le misure di accompagnamento alla frontiera, di espulsione e da ultimo anche l’obbligo di abbandonare il territorio francese, costituiscono esercizio delle prerogative di pubblico potere e sono in quanto tali suscettibili di un ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo. La distinzione tra tali misure e quelle repressive, pur collocandosi nell’ambito della medesima prospettiva di lotta contro l’immigrazione irregolare, si basa sulla diversa finalità perseguita dalla pubblica autorità, a seconda che questa tenda a prevenire la comparsa di una minaccia all’ordine pubblico o a ristabilire tale ordine, piuttosto che a reprimere un comportamento.

Tali considerazioni preliminari rivestono una fondamentale importanza per una piena comprensione dell’evoluzione della politica francese in materia di immigrazione che, pur articolandosi in diverse fasi, è stata comunque caratterizzata da una prospettiva unitaria, volta

allo stesso tempo al rafforzamento dei controlli all’ingresso nel territorio e al miglioramento dell’efficacia delle procedure di allontanamento (sezione 1); passaggi, questi, che sono stati inesorabilmente accompagnati da un inasprimento delle risposte penali alle violazioni del diritto degli stranieri, nel quadro di una maggiore attenzione per la repressione dell’immigrazione irregolare (sezione 2).

Sezione 1. L’evoluzione della politica francese in materia di immigrazione

L’evoluzione della legislazione francese sugli stranieri ha dato luogo nel corso del tempo a due letture contrastanti, volte, l’una, a porre l’accento sui differenti approcci in materia di immigrazione, dovuti sia alle diverse congiunture economiche sia all’alternanza al potere di governi di diverso schieramento politico; l’altra, invece, a rilevare, aldilà dei mutamenti sociali, politici ed economici più evidenti, una linea di continuità nell’elaborazione di una politica di immigrazione i cui obiettivi sono rimasti a lungo invariati320. Una breve

disamina delle varie riforme sul diritto degli stranieri che si sono susseguite nel corso del tempo lascia, in effetti, propendere per quest’ultima tesi, mostrando come la prospettiva di una gestione controllata dei flussi migratori abbia comunque comportato, a prescindere dall’orientamento politico del governo in carica, un rafforzamento dei controlli per il rilascio dei titoli d’ingresso e di soggiorno e un inasprimento della dimensione repressiva della legislazione sugli straneri.

In quest’ottica volta a individuare in una prospettiva storica i momenti caratterizzanti “l’unité du droits des étrangers”, la protezione del lavoro nazionale riveste senz’altro un’importanza fondamentale, ponendosi come idea di fondo che struttura le politiche adottate in Francia dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri, nella costante preoccupazione di difendere tanto i cittadini francesi come gli immigrati regolari dal tasso crescente di disoccupazione. Agli inizi, anzi, tale dimensione era così importante che quasi tutte le iniziative in materia di controllo dei flussi migratori erano volte in via pressoché esclusiva a tutelare il lavoro nazionale, cominciando ad apparire solo successivamente istanze securitarie legate alla minaccia che lo straniero poteva in alcuni casi costituire per l’ordine pubblico.

In effetti, i primi testi volti alla “défense du travail National” risalgono alla fine della Monarchia di Luglio (1830-1848), allorché, in seguito anche al verificarsi di un periodo di

320 Cfr. D.LOCHAK, Prologue. Politique d’immigration: de la fermeture à la sélection, trente ans d’errements, in

C.RODIER -E.TERRAY (a cura di), Immigration: fantasmes et réalités. Pour une alternative à la fermeture des

forte crisi economica, si diffuse l’idea dell’appartenenza degli immigrati alla “classe

dangereuse” e della conseguente necessità di tutelare il lavoratore francese dalla concorrenza

straniera, assicurandogli la preferenza nel mercato interno321. Significativa, in tal senso, la circolare del 5 marzo 1848 con cui il Ministro dell’Interno, Ledru-Rollin, informati i prefetti dell’arrivo nella città di Parigi di un gran numero di operai stranieri, provenienti in particolare dal Belgio, li invitò a prendere le disposizioni consentite dalla legge al fine di evitare il loro ingresso nella capitale e di avvertirli che, una volta giunti in città, non avrebbero comunque potuto beneficiare dei lavori e delle retribuzioni riservati in via esclusiva agli operai francesi, bensì si sarebbero esposti all’allontanamento dalla città di Parigi e, se necessario, da tutto il territorio francese a titolo di una misura eccezionale di polizia motivata dalle circostanze del caso concreto322.

Dopo una breve parentesi di maggior apertura nei confronti degli stranieri323, che sembrava voler riconoscere il contributo da questi dato alla crescita del paese, il dibattito sulla protezione del lavoro nazionale tornò alla ribalta della scena politica con il decreto del 2 ottobre 1888, che impose per la prima volta agli stranieri residenti in Francia l’obbligo di rendere una dichiarazione al sindaco, e la legge del 9 agosto 1893 che, al fine di realizzare un efficace controllo territoriale della manodopera straniera, rafforzò tale “régime de

déclaration”, prescrivendo a tutti i lavoratori stranieri residenti in Francia di iscriversi nel

registro d’immatricolazione del comune del loro domicilio e prevedendo inoltre delle sanzioni sia nei confronti degli stranieri che non rispettavano tale formalità (ammenda da 50 F a 200 F), sia a carico degli imprenditori che assumevano consapevolmente stranieri privi di tale certificato (semplice misura di polizia)324.

Poco dopo, un punto di equilibrio tra gli interessi della grande industria, bisognosa di manodopera straniera da impiegare soprattutto nelle miniere e nel settore agricolo e metallurgico, e le esigenze di pace sociale, da realizzare mediante un controllo dell’occupazione, sembra essere raggiunto con i tre decreti Millerand del 10 agosto 1899, che introdussero il sistema delle quote di lavoratori stranieri - obbligatorie nei mercati pubblici e

321 Cfr. L.CHEVALIER, Classes laborieuses, classes dangereuses à Paris pendant la première moitié du XIX

siècle, LGF, coll. «Pluriel», 1978, p. 209.

322 Circolare del Ministro dell’Interno, Ledru-Rollin, Parigi, 14 e 18 marzo 1848.

323 Cfr., in tal senso, il decreto dell’8 aprile 1848 e le leggi sulla nazionalità del 3-11 dicembre 1849 e del 26 giugno 1889.

324 Legge del 9 agosto 1893 relativa al soggiorno degli stranieri e alla protezione del lavoro nazionale, in JO del 9 agosto 1893, p. 4173.

facoltative negli altri casi - individuate dall’amministrazione in base alla natura dei lavori e alla regione in cui dovevano essere eseguiti325.

La prima guerra mondiale cambiò bruscamente la politica francese in materia di immigrazione, in quanto, se da un lato indusse lo Stato a importare circa 223.000 lavoratori dalle colonie e dalla Cina al fine di soddisfare le esigenze di manodopera; dall’altro favorì il passaggio da un regime di “déclaration” a uno di “autorisation”, mediante l’istituzione, prevista da una circolare del giugno 1916 e ufficializzata poi dal decreto del 2 aprile 1917, della “carte d’identité d’étranger” che, creata allo scopo di realizzare un controllo sulla popolazione straniera residente nel territorio, era prevalentemente ispirata da considerazioni di polizia. Infatti, tale carta, di cui doveva essere in possesso ogni straniero che avesse compiuto 15 anni intenzionato a soggiornare più di 15 giorni in Francia, doveva essere rilasciata dal prefetto e convalidata a ogni cambiamento di residenza, al fine di controllare la presenza e lo spostamento degli stranieri sul territorio.

Nel primo dopoguerra, il governo, costretto tra due esigenze contrapposte, dettate dalla necessità di contenere la crescente disoccupazione causata anche dal rientro dei soldati e dall’urgenza di procedere alla ricostruzione del paese, decise innanzitutto di chiudere completamente le frontiere nel periodo che va dal novembre 1918 al gennaio dell’anno successivo, per riaprirle poi il 21 gennaio 1919 alle professioni di cui si avvertiva la mancanza, riservandosi la possibilità di controllarne il movimento.

La prospettiva di controllo della manodopera straniera fu poi ulteriormente accentuata dalla legge dell’11 agosto 1926 che, al fine di evitare il “débauchage” - vale a dire il rapido passaggio verso altri settori dell’economia - degli operai ammessi per lavorare nell’agricoltura e nelle miniere, prevedeva che ogni lavoratore straniero dovesse essere munito di una carta d’identità “portant la mention travailleur”, contenente l’indicazione del tipo e della durata del contratto di lavoro per cui era rilasciata, vietando inoltre di impiegare lo straniero in un’altra categoria professionale prima che fosse decorso un anno dal rilascio della carta stessa326. Com’è stato rilevato in dottrina, l’applicazione di tale disciplina fu caratterizzata da una certa flessibilità in funzione del contesto economico e politico di riferimento, alternandosi al rigore dei momenti di crisi la maggiore liberalità dei periodi di pieno impiego, ma mantenendo pur

325 Decreti cd. Millerand del 10 agosto 1899, dal nome di M. Alexander Millerand, Ministro del Commercio e dell’Industria nel Governo Waldeck-Rousseau (1899-1902), in JO dell’11 agosto 1899, p. 3597.

326 Legge dell’11 agosto 1926, in JO dell’11 agosto 1926, p. 9171, che modifica gli artt. 64, 98 e 172 del Libro II del Codice del Lavoro.

sempre un carattere rudimentale, che non consentiva ai poteri pubblici di svolgere alcun controllo sui flussi migratori327.

Nell’ambito della crisi del 1929, fu infatti adottata la legge del 10 agosto 1932, la quale, così come i decreti Millerand, prevedeva che, al fine di tener conto dei bisogni di ogni settore dell’economia, fossero fissate mediante decreto, a livello nazionale o regionale, le quote di lavoratori stranieri ammessi per professione, industria, commercio o categoria socio- professionale328. Nello stesso periodo, inoltre, al fine di proteggere la manodopera francese dalla concorrenza degli immigrati, si diffuse l’idea di una “compensation nationale”, alla base della circolare del 15 febbraio 1947, secondo la quale ogni domanda di permesso di soggiorno doveva essere oggetto di un tentativo di compensazione a favore del lavoratore francese, o in mancanza di un lavoratore straniero che si trovasse già in situazione regolare329.

In quegli stessi anni, l’istanza di protezione del lavoro nazionale cominciò ad accompagnarsi all’esigenza di instaurare un’intensa sorveglianza di polizia su ogni straniero,

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