ipotizzate e non dimostrate. Ultimo capitolo, non meno importante, è il contributo profondo che l’NGS può for- nire in termini di screening di “predisposing-AML genes”, tema quanto mai cogente in ambito pediatrico con importanti riflessi etici di grande ricaduta nella pra- tica clinica. Se per le leucemia acute linfoblastiche si può parlare di una vera rivoluzione legata all’NGS, come quella avvenuta negli ultimi 10 anni, per le LAM è opportuno essere più cauti, per ora, ma è certo che questa metodica stia cambiando in maniera non banale gli sce- nari e le prospettive con cui stiamo osservando la biolo- gia di questa malattia oggi.
NEOPLASIE TIROIDEE
M. Muraca
Unità di Epidemiologia e Biostatistica, Istituto Giannina Gaslini, Genova, Italia
I lungosopravissuti da tumore in età pediatrica (CCS) hanno un rischio aumentato di sviluppare un tumore secondario (SMN). La radioterapia è uno dei maggiori fattori di rischio e i tumori tiroidei secondari (STC) hanno una maggior probabilità di svilupparsi tra i CCS irradiati. Anche gli agenti alchilanti, utilizzati nel tratta- mento dei tumori pediatrici, sono associati al rischio di differenti effetti a lungo termine. A tutt’oggi linee guida per la prevenzione e trattamento delle complicanze di tali terapie sono spesso mancanti o discordanti. Presso l’Istituto Giannina Gaslini di Genova è attivo un ambula- torio che ha lo scopo di riconoscere e trattare precoce- mente la comparsa di effetti collaterali. Grande attenzio- ne viene posta al fine dell’identificazione e del trattamen- to dei tumori secondari della tiroide. I sopravvissuti trat- tati tra il 1975 e il 2013 presso l’Istituto con almeno due anni di follow up dalla fine elettiva delle cure sono stati valutati presso l’ambulatorio. Per ogni paziente è stata valutata la dose e le sedi di radioterapia e la dose di tera- pia alchilante espressa come dose equivalente di ciclofo- sfamide (CED). Alla visita di follow up tutti i pazienti sono stati sottoposti a un esame obiettivo comprensivo della palpazione della tiroide mentre i soggetti trattati con radioterapia nei campi potenzialmente coinvolgenti la tiroide sono stati sottoposti annualmente all’esecuzione di ecografia della tiroide. L’agobiopsia è stata eseguita nel caso di riscontro di noduli di diametro maggiore di 10 mm. Il rischio cumulativo di tumore tiroideo secondario è stato calcolato con il metodo di Kaplan-Meir. 632 indi- vidui, trattati presso il Nostro Istituto per tumore pedia- trico (312 maschi; 49.4%) e con un follow up mediano dalla diagnosi di 10,1 anni (range 2.5-38.9), sono stati valutati. Di questi 147 (23.3%) sono stati trattati con radioterapia ai campi coinvolgenti la tiroide e 453 (71.7%) hanno ricevuto una terapia con agenti alchilanti. 19 (3%) pazienti hanno sviluppato un STC tra i 5.1 e i 31.7 anni dopo la diagnosi del primo tumore. In tutti i casi la diagnosi istologica è stata di carcinoma papillare. Di questi 12 (3.8%) sono stati diagnosticati a soggetti di sesso maschile. I tumori tiroidei secondari si sono svilup- pati soprattutto tra i 147 CCS trattati con radioterapia ai campi coinvolgenti la tiroide (n=15; 7,7%) piuttosto che
tra i soggetti non irradiati o irradiati in altri campi (n=4; 0,8%) P<0.0001. Dei 4 pazienti con STC non irradiati alla tiroide una era una ragazza con Sindrome di Proteus; il secondo caso una sindrome MEN2B; mentre il terzo e quarto caso erano sarcomi di Ewing senza predisposizio- ni genetiche. Il rischio cumulativo complessivo di svilup- pare un SCT è stato del 7.9% (95% CI 4.7-13.2). Dopo stratificazione per l’esposizione alla radioterapia il rischio era 16.7% (95% CI 9-27.9) tra i sopravvissuti trattati con radioterapia alla tiroide e 3.3% (95% CI 1.1- 10) tra quelli non irradiati alla tiroide P<0.0001. Il tratta- mento con agenti alchilanti non è risultato associato al rischio di sviluppare STC. Un’attiva sorveglianza per le neoplasie tiroidee è raccomandata nei CCS trattati con radioterapia nei campi coinvolgenti la tiroide.
NUOVE INDICAZIONI PER IL TRAPIANTO NELLE PID
F. Porta, M. Maffeis
Unità Operativa di Oncoematologia Pediatrica e Trapianto di Midollo Osseo, Ospedale dei Bambini, Brescia
Il trapianto di cellule staminali (HSCT) è considerato a tutt’oggi il trattamento terapeutico principale per la mag- gior parte delle immunodeficienze primitive (PID). Dopo 50 anni dal primo trapianto di una PID, avvenuto nel 1968, molti sono i traguardi raggiunti in termini di sopravvivenza e perfezionamento delle tecniche. Una miglior selezione del donatore, una sempre più raffinata manipolazione delle cellule, una miglior gestione delle complicanze e una selezione più efficace del condiziona- mento, hanno permesso di raggiungere una sopravviven- za post trapianto pari a circa il 90% per la maggior parte delle PID. Inoltre, grazie all’avvento della next-genera- tion sequencing oggi è possibile diagnosticare nuove immunodeficienze la cui presentazione clinica può arric- chirsi di ulteriori sintomi, come fenomeni di autoimmu- nità e immunodisregolazione. Per quanto riguarda le SCID, le forme più gravi di PID, con una mortalità ele- vatissima entro i primi 12-18 mesi se non trattate, HSCT è l’unica valida opzione terapeutica, fatta eccezione per alcune SCID per cui è possibile la terapia enzimatica sostitutiva e la terapia genica (es. ADA SCID). è ormai dimostrato che in caso di SCID il trapianto deve essere effettuato il prima possibile, dato che la sopravvivenza in questi casi è fortemente condizionata dalle infezioni e dalle comorbidità preesistenti. Per tale motivo la possibi- lità di avviare anche in Italia un possibile screening neo- natale potrebbe ulteriormente migliorare l’outcome dei pazienti con SCID. Negli ultimi anni si è ulteriormente approfondito l’approccio al condizionamento delle SCID, cercando di ridurne la tossicità preferendo analo- ghi del busulfano, il treosulfano e dove è possibile regimi a minimi intensità tramite l’uso di anticorpi monoclonali. Nei difetti stromali di origine timica (Sindrome di Di George, sindrome CHARGE) e nei difetti di FOXN1 si sono ottenuti ottenuti ottimi risultati con i trapianti di timo. Nelle sindromi di Wiskott- Aldrich HSCT rappre- senta ancora oggi la miglior opzione terapeutica. Molte
altre PID sono state trattate con il trapianto di cellule sta- minali e se fino a pochi anni fa, l’indicazione esclusiva al trapianto era rivolta solo alle forme combinate (SCID), oggi la lista delle immunodeficienze per cui è indicata tale opzione terapeutica si sta allargando. Alcune forme di PID associate a difetti nella citotossicità (es. sindromi emofagocitiche familiari), difetto dei fagociti (CGD, LAD deficency, GATA2 deficiency), patologie autoim- muni comprese forme di immunodisregolazione, polien- docrinopatia, enteropatia (difetti dell’IL-10 STAT-3 gain of function, CTLA-4 deficiency) hanno ora indicazione al trapianto di cellule staminali. Un fratello HLA compa- tibile rimane la prima scelta per tutti i trapianti allogenici ma in caso di assenza di un donatore compatibile, è pos- sibile utilizzare un donatore aploidentico effettuando una selezione dei linfociti αβ+ (maggiori responsabili di GVHD) e selezionando i γδ+, utili per la difesa dai virus e la graft versus leukemia. Un’alternativa più economica è il trapianto aploidentico non manipolato successiva- mente seguito da due dosi di ciclofosfamide entro la prima settimana dal trapianto, approccio storicamente più utilizzato in campo oncologico. In conclusione anco- ra oggi HSCT, soprattutto alla luce degli ultimi progressi, rimane una valida opzione terapeutica non solo in caso di SCID ma anche in presenza di altre PID.
BIBLIOGRAFIA
Gennery A. Recent advances in treatment of severe primary immunodeficiencies F1000Research 2015, 4(F1000 Faculty Rev):1459 (doi: 10.12688/f1000research.7013.1).
Slatter M, Gennery A. Hematopoietic cell transplantation in pri- mary immunodeficiency - conventional and emerging indica- tions. Expert Rev Clin Immunol. 2018 Feb;14(2):103-114. (doi: 10.1080/1744666X.2018.1424627).
Tabella 1.
IL TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI EMATOPOIETICHE NELLE MALATTIE LISOSOMIALI E PEROSSISOMIALI
A. Rovelli
Centro Trapianto Midollo Osseo, Clinica Pediatrica
dell’Università di Milano-Bicocca, Fondazione MBBM, Monza
Le malattie lisosomiali e perossisomiali sono un gruppo di malattie rare estremamente eterogeneo dovute ad erro- ri congeniti del metabolismo a trasmissione autosomico recessiva o legati al cromosoma X, comprendenti i defi- cit di enzimi lisosomiali (es. mucopolisaccaridosi, MPS), anormalità nella funzione dei perossisomi (es. adrenoleu- codistrofia, X-ALD) e altri. Sono caratterizzate da pato- logia multiorgano progressivamente devastante e/o alte- razioni severe delle funzioni neurologiche e neurocogni- tive. Per quanto in molti casi vi sia una correlazione genotipo/fenotipo, in altrettanti la natura privata della mutazione non consente una predizione certa della storia naturale. Nelle malattie a fenotipo severo l’insorgenza delle manifestazioni è usualmente precoce, già nella prima infanzia o nei primi anni di vita, ma alcune posso- no esordire anche in età adulta. Nell’ultimo decennio numerose terapie si sono rese disponibili per molte di queste malattie, ma, per alcune di esse, solo il trapianto di cellule staminali ematopoietiche (TCSE) è efficace nel modificarne la storia naturale “shiftando” il fenotipo severo verso uno significativamente più attenuato. La decisione per il trapianto nello specifico caso è comples- sa, multidisciplinare e basata su un bilancio dei rischi e dei potenziali benefici della procedura prendendo in con- siderazione il tipo di malattia, l’età all’esordio, la curva di progressione, il fenotipo atteso, i valori e le aspettative della famiglia. Una diagnosi precoce ed il pronto riferi- mento ad un centro esperto sono fondamentali per otte- nere il miglior “outcome”: i pazienti trapiantati precoce- mente o in una fase pre-sintomatica hanno le migliori possibilità di correzione dei loro sintomi somatici e della curva di sviluppo neurocognitivo. Malattie molto rapida- mente progressive sono difficilmente trattabili col tra- pianto e per queste anzi il TCSE dovrebbe essere consi- derato controindicato. Oggi il TCSE per queste malattie è una procedura significativamente più sicura che in pas- sato e per questo si sta riconsiderando la possibilità di offrirlo a casi selezionati con forme un tempo considerate non beneficiare dal TCSE sulla scorta di conoscenze oggi obsolete o con fenotipo meno severo come alternativa alla terapia enzimatica sostitutiva a vita e in considera- zione delle numerose disabilità cui comunque andranno incontro. Il condizionamento è usualmente pienamente mieloablativo per favorire l’“engraftment” mieloide ed ottenere uno stabile e robusto attecchimento con la più alta chimera possibile (la chimera ed il livello enzimatico ottenuto correlano con le possibilità di correzione). Nell’ultimo decennio, in tutto il mondo, sono stati ese- guiti circa 2000 TCSE per queste malattie. La coopera- zione e la ricerca internazionale hanno consentito per la malattia tra queste numericamente più rappresentata nella coorte dei sottoposti a TCSE, la MPS tipo I-H, di definire robuste raccomandazioni e in modo esteso van- taggi e limiti (cioè il “burden” residuo di malattia) del TCSE; lo stesso purtoppo non è ancora stato realizzato per altre malattie. La terapia genica può consentire livelli sovranormali di enzima con risultati notevoli in malattie non responsive al TCSE (ad esempio leucodistrofia
metacromatica, realtà clinica, o MPS tipo III, sperimen- tale) o produrre “outcomes” sovrapponibili al TCSE con- venzionale (ad es. X-ALD) con minor tossicità trapianto- correlata. Lo scenario terapeutico è oggi dunque com- plesso richiedendo una continua ridefinizione della com- binazione dei trattamenti e del ruolo del TCSE conven- zionale. Inoltre, lo screening neonatale sta emergendo come un’opzione progressivamente più disponibile per alcune di queste malattie, favorendo la possibilità di un trattamento precoce in alcune, ma ponendo problemi etici in altre. I centri che trattano bambini con queste patologie devono lavorare sinergisticamente e nel conte- sto, quando possibile, di “trials” internazionali così che l’esperienza cumulativa possa portare a migliori racco- mandazioni e sviluppo di nuove strategie.
RADIOTERAPIA CON FOTONI
G. Scarzello, M.S. Buzzaccarini, V. Santoro, M. Nizzaro, A. Ghirelli, L. Corti
UOC di radioterapia, Istituto Oncologico Veneto IOV, IRCCS, Padova, Italia
In tutte le forme di neoplasia, sia nel campo pediatrico che dell’adulto, la moderna oncologia si evolve costante- mente nella ricerca di nuove terapie o nuove tecniche che migliorino il controllo di malattia e la sopravvivenza. Una volta raggiunto un risultato soddisfacente in questo obiettivo primario, la ricerca si volge ad indagare nuove possibilità di diminuire l’intensità della terapia, nella fat- tispecie di riduzione di dose e di volumi irradiati, in modo da minimizzare la tossicità a lungo termine senza compromettere i risultati raggiunti. Le nuove tecnologie, inserite in trials clinici condotti con rigore, hanno per- messo nel corso degli anni una sensibile riduzione dei volumi bersaglio e i nuovi farmaci un’altrettanto sensibi- le riduzione di dose. La continua evoluzione delle appa- recchiature permetterà di proseguire questo percorso in modo tanto più rapido e significativo quanto più miglio- reranno le nostre conoscenze nella biologia di questi tumori. L’imaging gioca un ruolo di estrema importanza in oncologia, nella diagnosi, nella stadiazione, nella valu- tazione della risposta e nel successivo follow-up ed è essenziale nell’elaborazione di un piano di trattamento radiante. Finora l’analisi dell’imaging clinico si è basata su una valutazione visiva di dati quantitativi relativamen-
te modesti, approccio indubbiamente efficacie in ambito diagnostico, ma assolutamente insufficiente nella caratte- rizzazione di malattia, nell’identificazione di parametri predittivi affidabili e nella quantificazione precoce della risposta al trattamento. La radiomica sta emergendo come strumento promettente per l’identificazione di bio- markers che definiscono la natura della neoplasia, può essere applicata a qualsiasi tipo di imaging standard come TAC, RMN o PET ed utilizzata in diagnosi, formu- lazione della prognosi e valutazione della risposta al trat- tamento. Quando associata ad appropriati strumenti stati- stici e bioinformatici, permette di formulare modelli potenzialmente in grado di predire con accuratezza l’out- come. Strettamente correlata è la radiogenomica che stu- dia le relazioni fra le caratteristiche radiomiche del tessu- to e la sua composizione molecolare, cercando di definire le basi biologiche della formazione di una determinata immagine. In ambito radioterapico tutto questo rappre- senta una potenziale possibilità di identificare la terapia ottimale per ogni paziente ed il successivo workflow individuale di follow-up. Attualmente è ormai chiaro il concetto del potenziale progresso che la radiomica potrà indurre nella “adaptive radiation therapy”, particolar- mente nei tumori con significativa risposta volumetrica in corso di trattamento o quelli con un elevato movimen- to intra ed interfrazione: una maggiore possibilità di “adattamento” del piano darà luogo ad un’accuratezza tale da poter ridurre ulteriormente i margini di set up, per- mettendo la riduzione degli effetti collaterali o l’escala- tion di dose a parità di tossicità.
L’idea di un planning radioterapico fortemente condizio- nato dalle informazioni ricevute dall’imaging diagnosti- co e, in un prossimo futuro, dal regolare imaging della RT a guida di immagine, porterà al cosiddetto “radio- oncomics workflow” che migliorerà lo standard di tera- pia e darà impulso ad un trattamento radiante personaliz- zato per il quale saranno necessarie sensibili modifica- zioni del “decision making” e che dovrà essere supporta- to da studi clinici disegnati su base individuale, in base a queste nuove acquisizioni. A questo fine è necessaria una strettissima collaborazione fra fisici, informatici e radio oncologi in modo da introdurre stabilmente la radiomica nella pratica clinica quotidiana e da creare dei modelli adattabili a ciascun singolo paziente, in modo da arrivare ad una “pecision radiation therapy”.
CO001
IL PROGETTO “QUASI A CASA”: LE CURE OSPEDALIERE A CASA DEL BAMBINO
P. Ghilardi, B. Togni, E. Rota, R. Algeri
ASST Papa Giovanni XXIII, Bergamo
INTRODUZIONE: ci sono casi in cui il paziente pur non essendo ospedalizzato si trova nella condizione di aver bisogno ancora di prestazioni assistenziali più o meno complesse da parte degli operatori sanitari. Spesso quan- do si cerca di utilizzare le risorse del territorio per la domiciliazione (ADI) c’è molta diffidenza da parte della famiglia e difficoltà ad accogliere nuove figure, inoltre gli operatori del territorio hanno generalmente poca dimestichezza nella gestione del CVC e prelievi nei bam- bini. La novità del progetto consiste nel fatto che è la stessa equipe infermieristica del reparto a prendersi cari- co del paziente, come se si volesse portare l’ospedale a domicilio. La famiglia e il bambino hanno infatti già svi- luppato un rapporto di conoscenza e fiducia con l’equipe di cura. A sua volta l’incontro a domicilio può facilitare l’integrazione con le strutture del territorio. Il progetto è rivolto a pazienti affetti da patologie ematologiche ed oncologiche. Le prestazioni erogabili comprendono l’ educazione e sostegno alla famiglia e all’assistito; medi- cazione gestione, ed educazione all’autogestione del Catetere Venoso Centrale long- term; prelievi per esami ematochimici; terapia sintomatica ev/sc.
RIFERIMENTI: L.R. n. 23 del 2015 della Regione Lombardia. RISULTATI: quindici pazienti pediatrici hanno potuto usufruire di sessanta prestazioni a casa loro in un anno e mezzo di attività. Il ritorno da parte dei bambini e delle loro famiglie è stato molto positivo.
CONCLUSIONI: il progetto migliora la qualità di vita dei piccoli pazienti e delle loro famiglie attraverso un set- ting meno istituzionalizzato, cioè la propria casa, dove essi possono ricevere parte delle cure che in questo modo assumono una dimensione più umana e accettabile.
CO002
GESTIONE E CURA DELLE LESIONI PERINEALI: UN PROGETTO IN ONCOEMATOLOGIA PEDIATRICA
M. Gjergji, I. Ciaralli, G. Ciliento, S. Fondi
Università di Tor Vergata
INTRODUZIONE: Il progetto sulle lesioni perineali in oncoematologia pediatrica è iniziato a causa di elevata incidenza di queste lesioni conseguenti a dermatite asso- ciate ad incontinenza (AID) in sede perineale in tratta- mento post chemioterapico. Tale situazione è frequente- mente aggravata dalla presenza di microrganismi multi- resistenti (MDR) con il rischio di gravi infezioni sistemi- che. L’obiettivo di questo progetto è individuare i pazien- ti a rischio, standardizzare il trattamento di lesioni e ridurre il rischio infettivo.