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La legge 903/1977: tra innovazioni ed inefficienze pratiche

Nel documento UNIVERSITA DEGLI STUDI DI BARI ALDO MORO (pagine 32-0)

La l. 903/1977, è pioniere in materia processualistica; l’impianto legislativo è di ampio respiro perché mira a tutelare le lavoratrici non

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solo dalle discriminazioni che possono essere loro perpetrate durante lo svolgimento della prestazione di lavoro, ma anche, come si può leggere nella relazione al disegno di legge19, a garantire alla donna l’accesso al lavoro, alla formazione professionale, al trattamento economico ed allo sviluppo di carriera.

La legge, proprio per questo, si apre con un art. 1 che vieta ogni discriminazione, che non sia giustificata da situazioni oggettive: “E' vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l'accesso al lavoro, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale. La discriminazione di cui al comma precedente e' vietata anche se attuata:

1) attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza;

2) in modo indiretto, attraverso meccanismi di preselezione

ovvero a mezzo stampa o con qualsiasi altra forma pubblicitaria che indichi come requisito professionale l'appartenenza all'uno o

19 Relazione della XIII commissione permanente (Lavoro – assistenza e previdenza sociale – cooperazione), relatore: Buro Maria Luigia, sul disegno di lege presentato dal ministro del lavoro e della previdenza sociale, (Anselmi Tina), di concerto col ministro del tesoro (Stammati), seduta del 21 gennaio 1977, Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro.

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all'altro sesso.”

La legge inoltre, proibisce la discriminazione tanto nell’accesso al lavoro quanto alla formazione professionale, sia facendo direttamente riferimento allo stato matrimoniale, alla gravidanza o alla maternità, quanto in via indiretta, in fase di selezione, (art. 1, co. 2).

Segue a questo articolo un catalogo di divieti di discriminazioni (in materia salariale (art. 2); nell’attribuzione di mansioni, qualifiche e progressioni nella carriera (art. 3), e di diritti di cui la donna può avvalersi (a titolo esemplificativo l’art. 6 permette che la lavoratrice si avvalga dell’astensione obbligatoria dal lavoro in caso di adozione o affidamento preadottivo).

La conseguenza di tali violazioni, nonché argomento più interessante, si trova nell’art. 15 della medesima legge, che peraltro concorre con due norme fondamentali della legge 20 maggio 1970, n. 300, che sono gli articoli 15 e 16. Mentre l’art. 15, co. 2, St. lav. sancisce la nullità di ogni atto o patto che abbia fini discriminatori su base politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali, (così modificato dall’art. 13 della l. 903/1977), l’art. 16 stabilisce che il giudice (in passato il pretore) può condannare il datore di lavoro “al

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pagamento, a favore del fondo adeguamento pensioni, di una somma pari all'importo dei trattamenti economici di maggior favore illegittimamente corrisposti nel periodo massimo di un anno”. Dal tenore della norma appaiono chiari una serie di problemi: innanzitutto la scarsa utilità per la lavoratrice, che in realtà non ottiene nessun ristoro effettivo dall’azione ex art. 16 dello Statuto; un’utilità che non può essere compensata nemmeno dalla restituzione in ripristino prevista dall’art. 18 della medesima legge, che entra in gioco solo nel momento in cui si richieda al giudice una declaratoria di nullità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, e dunque inutilizzabile nel caso di specie, dove ci si trova di fronte ad un trattamento discriminatorio diverso dal licenziamento. L’unica strada percorribile, per lavoratrici ed aspiranti tali, è quella della declaratoria di nullità o del risarcimento, che peraltro era la via maestra seguita prima dell’introduzione della legge 903/1977; e proprio per questo motivo l’articolo 15 di tale legge introduce un rimedio effettivo per la lavoratrice discriminata, una soluzione che permette un reale ristoro, disponendo che: “qualora vengano posti in essere comportamenti diretti a violare le disposizioni di cui agli articoli 1 e 5 della presente legge, su ricorso del lavoratore o per sua delega delle organizzazioni

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sindacali, il pretore del luogo ove è avvenuto il comportamento denunciato, in funzione di giudice del lavoro, nei due giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, se ritenga sussistente la violazione di cui al ricorso, ordina all’autore del comportamento denunziato, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti […]. Contro il decreto è ammessa, entro quindici giorni dalla comunicazione alle parti, opposizione davanti al pretore che decide con sentenza immediatamente esecutiva. Si osservano le disposizioni degli art. 413 e ss. del codice di procedura civile ”. Si può notare la struttura bifasica del procedimento, caratterizzata da una prima fase sommaria ed una seconda fase che è disciplinata secondo le norme del procedimento del lavoro ordinario, a cognizione piena ed esauriente. La fase a cognizione piena ed esauriente è solo eventuale;

si attua, cioè, solo se il decreto adottato dal giudice dovesse essere impugnato nei termini stabiliti, potendo il datore di lavoro decidere di conformarsi all’ordine del giudice. In tal modo, nelle intenzioni del legislatore, è attuata finalmente quella tutela che lo Statuto dei lavoratori non riesce a garantire; a tal proposito infatti, si mette in evidenza come la lettura del combinato disposto tra l’art. 15, l.

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903/1977 e l’art. 18 dello Statuto, sia peraltro piuttosto difficoltosa: se ad una parte degli interpreti dell’epoca in cui la legge fu promulgata, pareva che l’art.15 si applicasse solo alle ipotesi diverse da quelle contemplate nell’art. 18 dello Statuto, altra parte della dottrina20 sosteneva che l’articolo 18 dovesse adeguarsi alle nuove disposizioni dell’art. 15 della legge 903/1977.

Un altro problema di applicazione e coordinamento riguarda la possibilità di esperimento - in concorso tra di loro - dell’azione per la repressione della condotta antisindacale ex art. 28 e l’azione individuale ex art. 15 dello Statuto; questa ipotesi si prospetta in conseguenza della collocazione degli artt. 15 e 16 della l. 300/1970 nel Titolo II, dedicato alla libertà sindacale. La connessione con la legge 903/1977 si nota immediatamente nel momento in cui si rilevi che il comportamento discriminatorio del datore può intaccare la libera attività del sindacato, e si badi, senza alcuna distinzione tra donne e uomini operanti nell’organizzazione sindacale dell’azienda, sì da giustificare un intervento – tanto coatto quanto volontario – sia su istanza di parte che per ordine del giudice – da parte del sindacato nel procedimento avviato dal lavoratore, benché i termini piuttosto

20 V. Andrioli, C.M. Barone, G. Pezzano, A. Proto-Pisani, Le controversie in materia di lavoro, Bologna – Roma, 1987, p. 1083.

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brevi per la presentazione dell’intervento lo rendessero difficilmente praticabile21.

Le due azioni, in concorso tra di loro, sono comunque escludenti:

l’accoglimento dell’una fa venir meno l’altra: se, per esempio, dovesse essere accettata la domanda presentata a norma dell’art. 28 St.

lav., verrebbe automaticamente meno l’interesse del lavoratore ad impugnare a norma dell’art. 15 della stessa legge, ma se il ricorso dovesse essere rigettato, la presentazione della domanda ex art.15 non è preclusa, conformemente al principio di cosa giudicata sostanziale, enunciato nell’art. 2909 c.c., per cui la sentenza, anche di mero rito, fa stato fra le parti, i loro eredi ed i loro aventi causa.

Peraltro, la legge 903/1977 ha anche parzialmente modificato, ancora una volta in modo insoddisfacente per i lavoratori, il contenuto degli artt. 15 e 28 St. lav., estendendo ad essi le tutele previste dagli artt. 1 e 5 della legge suddetta, prevedendo che il divieto sancito inizialmente per le discriminazioni per motivi sindacali, politici e religiosi, fosse applicato anche alle discriminazioni di genere; successivamente l’art.

4 co. 1, d. lgs. 9 luglio 2003, n. 216 interverrà ulteriormente per

21 Pret. Milano, 23 gennaio 1979, Foro it., Rep. 1979, voce Lavoro e previdenza (controversie) n.

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rendere ancora più generale la portata dei due articoli22; ma è chiara l’inutilità di una siffatta disposizione: laddove il lavoratore abbia già ottenuto una soddisfazione, per esempio per via di una dichiarazione di nullità, senza che ci sia bisogno nemmeno di un ordine di cessazione del comportamento discriminatorio; in ultima analisi, non avrebbe più senso utilizzare la tutela offerta dall’art. 15, l. 903/1977.

Questa nuova legge tuttavia, nonostante le problematiche fin qui esposte, fu foriera di diverse pronunce di illegittimità costituzionale nella normativa allora vigente23, segno della sua portata innovativa per l’epoca.

3. LA LEGGE 125/1991: UGUAGLIANZA, TUELA DIFFERENZIATA E AZIONI POSITIVE

La legge 125/1991 segna un netto cambio di rotta nella tutela della donna, ancora più profondo rispetto alla legge 903/1977; questo

22 Cfr. E. Ghera, A. Garilli, D. Garofalo, Diritto del lavoro, Torino, Giappichelli editore, 2020, p.

231.

23 Per esempio vd: C. Cost., sent. 2 giugno 1986, n. 137, con cui si dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 11, l. 15 luglio 1966, n. 604 (Gazz. Uff. I^ s.s. n. 30 del 25 giugno 1986);

C. Cost., sent. 9 luglio 1986, n. 121, con cui dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, co 1 della l. 26 aprile 1934, n. 653, rubricato “lavoro notturno”, limitatamente alle parole “per le donne di qualunque età e…” (Gazz. Uff. I^ s.s. [edizione straordinaria] n. 38 del 1° agosto 1986).

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nuovo testo normativo pone delle tutele tanto sostanziali – di cui si è già discorso nel paragrafo precedente – quanto processuali.

L’art. 4, co. 1, prima di presentare l’azione giudiziaria, si preoccupa innanzitutto di delineare il campo di applicazione della protezione processuale, circoscrivendo le discriminazioni a:

“[…] qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando anche in via indiretta i lavoratori in ragione del sesso”

Precisando, al co. 2 che:

“Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori dell'uno o dell'altro sesso e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa”.

L’unica eccezione a questo divieto – come si legge - è costituita dall’ipotesi in cui i criteri pregiudizievoli siano dei requisiti essenziale per l’attività lavorativa, con l’onere per il datore di lavoro di dimostrare tale essenzialità.

Non è difficile rinvenire un primo elemento di rilevante novità - rispetto alle discipline previgenti - nell’estensione della definizione di

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discriminazione non solo agli atti ma anche ai comportamenti ed ai trattamenti che possano avere un risultato discriminatorio. Sebbene la

definizione, prima facie, possa sembrare eccessivamente astratta e generale, proprio a causa della ricomprensione dei trattamenti e dei comportamenti discriminatori - insieme agli atti - in realtà offre una delimitazione della fattispecie di discriminazione, che non è un elemento di poco momento in quanto permette di stabilire quando effettivamente ci si trovi di fronte ad un comportamento discriminatorio e dunque, quando poter effettivamente esperire l’azione prevista dall’art. 4, co. 4 e ss. Proprio per questo motivo, lo stesso articolo prevede, al comma 5, che si fornisca una prova della discriminazione in termini precisi e concordanti, desumibile da elementi di fatto “anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti”. La tecnica normativa usata è quindi, ad avviso di chi scrive, utile alla tutela contro un fenomeno che si può manifestare in molteplici ed atipiche forme, in ragione dei differenti fattori che caratterizzano, soprattutto in un mondo del lavoro variegato come quello odierno, la singola prestazione, sempre che si decida di

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utilizzare quest’azione, giacché la stessa legge prevede che possano essere usati anche altri rimedi: la conciliazione prevista dai contratti collettivi e quella dell’art. 410 c.p.c. Al di fuori di tali ipotesi, invece, il consigliere di parità, previo parere non vincolante della commissione regionale per l’impiego di cui fa parte, può promuovere l’azione prevista con un ricorso presso il giudice competente.

Particolarmente interessante è la conseguenza dell’accertata discriminazione che la legge 125/1991 prevede; l’art 4 co. 7, infatti, prescrive che la sentenza ordini al datore di lavoro, di concerto con il consigliere regionale di parità competente per territorio e “le rappresentanze sindacali aziendali ovvero, in loro mancanza, le organizzazioni sindacali locali aderenti alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale”, un “piano di rimozioni delle discriminazioni accertate”, prevedendo ulteriormente, per gli imprenditori destinatari di benefici pubblici o di appalti per l’esecuzione di opere pubbliche, servizi e forniture, la revoca dei suddetti benefici e, nei casi più gravi, anche l’esclusione per un periodo di due anni dalle agevolazioni o dagli appalti.

Gli elementi innovativi sono molti; uno di essi è stato già illustrato, ed è l’ampia definizione di discriminazione; ad esso si aggiungono: la

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partecipazione attiva e sinergica tra associazioni di categoria, datori di lavoro, sindacati, Ministero e organi di controllo, che nelle intenzioni del legislatore dovrebbe favorire una maggiore integrazione della donna nel mondo del lavoro; la legittimazione dei consiglieri di parità, che si affianca a quella della lavoratrice, rafforzandone la tutela24; la previsione di un piano di eliminazione delle discriminazioni, da stipularsi su ordine del giudice, sanzionata con l’applicazione dell’art.

650 c.p. in caso di inottemperanza, (art. 4, co. 8), riprendendo una previsione già presente nell’art 15 della l. 903/1977; l’introduzione di un onere probatorio, per così dire alleggerito, derogando alla regola generale dell’art. 2697 c.c., venendo incontro ad un soggetto debole quale una lavoratrice; come si è già detto, infatti, l’art. 4 parla chiaro in proposito: l’onere probatorio della lavoratrice è coperto da una presunzione iuris tantum e la prova deve essere sostenuta da elementi di fatto – desumibili anche da dati statici riguardanti le assunzioni, le progressioni di carriera o anche i licenziamenti – che in modo preciso e concordante fondino la sussistenza del comportamento o dell’atto discriminatorio. Anche il contenuto della sentenza è un elemento di novità, in quanto introduce una sanzione peculiare nell’ambito del

24 Vedi più avanti, capitolo II.

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processo del lavoro, complessa e molto probabilmente scarsamente efficace quale la produzione del piano per l’eliminazione delle discriminazioni da concordare con le associazioni maggiormente rappresentative, il consigliere di parità ed il Comitato previsto dalla legge medesima.

La legge medesima introduce anche un ulteriore strumento per difendere la lavoratrice discriminata, che è l’azione collettiva ex art. 4, co. 6, che stabilisce che: “Qualora il datore di lavoro ponga in essere un atto o un comportamento discriminatorio di carattere collettivo, anche quando non siano individuabili in modo immediato e diretto i lavoratori lesi dalle discriminazioni, il ricorso può essere proposto dal consigliere di parità istituito a livello regionale, previo parere non vincolante del collegio istruttorio di cui all'articolo 7, da allegare al ricorso stesso, e sentita la commissione regionale per l'impiego. Decorso inutilmente il termine di trenta giorni dalla richiesta del parere al collegio istruttorio, il ricorso puo' essere

comunque proposto”.

In conclusione, se si può muovere qualche critica alla legge di cui si discute, essa potrebbe riguardare la non obbligatorietà dell’adozione delle azioni positive di cui discorre l’art. 1, rimettendo alla bontà, alla

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sensibilità ed anche alla convenienza del datore di lavoro la loro attuazione, (si ricordi che la loro adozione è foriera di diversi vantaggi per il datore di lavoro, grazie ai rimborsi per gli oneri finanziari sostenuti per l’attuazione dei programmi), perché la legge stessa non prevede una sanzione nel caso in cui tali azioni non siano promosse, operando solo con la tutela ex post in sede contenziosa, laddove si verificassero eventualmente dei comportamenti discriminatori, scaricando sulla lavoratrice il peso di un eventuale giudizio, se non potesse esperirsi una conciliazione prevista dall’art. 410 c.p.c. o dai contratti collettivi, o l’esito della stessa fosse negativo.

Un altro elemento che desta perplessità è la possibilità di utilizzare dati statistici sulle assunzioni, sulle progressioni di carriera o sulle assunzioni, dati che difficilmente sono nella disponibilità della lavoratrice.

In generale questo testo normativo presenta dei buoni spunti per il perseguimento della parità di genere, pur con le perplessità che fin qui si sono rilevate, infatti questo testo normativo, insieme alla legge 903/1977 sarà dapprima inglobato, con modifiche in realtà poco rilevanti dal d. lgs. 196/2000; per limitarci ai punti salienti delle modifiche bisogna ricordare che:

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• Il decreto ha esteso l’applicazione dell’art. 15, l. 903/1977, a tutti i casi di azione individuale, nella precedente normativa infatti, quest’azione era utilizzabile solo in sede di mancata assunzione non anche nello svolgimento del rapporto; tale modifica permetterà a chi sarà discriminato di ottenere non solo una dichiarazione della nullità del comportamento discriminatorio, ma anche la cessazione dello stesso e la rimozione dei suoi effetti;

• Per contro il nuovo intervento legislativo non modifica la natura speciale reintegratoria del procedimento individuale che miri ad ottenere il provvedimento immediatamente esecutivo di

“cessazione del comportamento illegittimo e di rimozione degli effetti”;

• Ha escluso l’applicazione delle norme del codice di procedura civile a questo tipo di procedimento.

Ulteriori elementi di tale legge saranno analizzati nel prosieguo.

La legge 903/1977 e la legge 125/1991 saranno abrogate per passare il testimone ad una legge che, a 15 anni dalla sua promulgazione, rappresenta ancora una pietra miliare per la disciplina delle pari opportunità: il d. lgs. 198/2006.

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4. DEFINIZIONE E RICONOSCIMENTO DELLE DISRIMINAZIONI SESSUALI

La tutela antidiscriminatoria, come si ha avuto modo di osservare nel capitolo precedente, ha subito delle modifiche che sono il frutto di un progresso culturale, tanto sul piano sostanziale quanto su quello processuale; è proprio per questo motivo che la legislazione in materia ha subito una stratificazione, precedentemente illustrata, che ha creato non pochi problemi di coordinazione ed interpretazione delle norme di ciascun testo legislativo a volta a volta emanato. Per comprendere come opera la tutela processualistica bisogna partire dalla definizione di discriminazione sessuale, che nel tempo si è ampliata sempre di più, culminando nel Codice delle pari opportunità; come si è avuto modo di osservare, il testo ha rappresentato un’assoluta novità nella compiuta definizione delle diverse modalità di discriminazioni sessuali, pur tuttavia fallendo, ad avviso della generalità della dottrina, il suo compito di “individuazione di strumenti di prevenzione e rimozione di ogni forma di discriminazione” e, si noti, per ragioni anche diverse dal sesso, come sancisce la delega. Riprendendo quanto già si è detto nel capitolo precedente, il Codice delle pari opportunità

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offre una tutela che è paritaria e differenziata25 allo stesso tempo;

questo tipo di protezione è il risultato di una visione costituzionalmente orientata del diritto del lavoro, volta ad assicurare l’uguaglianza sostanziale tra uomo e donna sancita dapprima nel principio fondamentale dell’art. 3, e successivamente ribadito nell’art. 37 della Costituzione.

Anche diversi trattati internazionali hanno ribadito l’importanza del ruolo femminile nel mondo del lavoro e la sua pari dignità rispetto al lavoratore: si sono già citati precedentemente l’art. 157.1 TFUE, che impone l’applicazione del principio di parità di retribuzione “per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore”, sia che esso sia pagato a cottimo che a tempo.

L’art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea invece, partendo dal generale principio della parità tra uomo e donna , vi ricomprende anche la parità lavorativa e retributiva, riconoscendo la tutela differenziata in favore del sesso sottorappresentato.

Si deve altresì menzionare l’art. 33 della Carta dell’Unione Europea, che afferma la portata discriminatoria di un licenziamento intimato a causa di gravidanza o maternità, prevedendo un diritto al congedo di

25 Ghera, op. cit.

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maternità o paternità. Tali congedi sono una moderna conquista, sia perché hanno permesso una tutela maggiore della lavoratrice – madre, sia perché hanno permesso di valorizzare, all’interno della famiglia, la figura del padre; la figura del congedo di paternità, introdotta nell’ordinamento italiano con il Testo Unico sulla maternità e paternità (d. lgs. 26 marzo 2001, n. 151) sia “facoltativo” che

“obbligatorio”, mirante a riequilibrare i ruoli tra i genitori:

originariamente il congedo previsto nel primo intervento, risalente al 2012, era di un solo giorno, salendo a quattro giorni e poi a cinque giorni nel 2019. A questo congedo si è poi affiancato il congedo parentale, consistente nel diritto di entrambi i genitori si astenersi facoltativamente dal lavoro. Tale congedo ha una portata più ampia, poiché può essere usato nei primi dodici anni di vita del figlio,(prima del d. lgs. 80/2015 il periodo era fissato entro otto anni di vita); la sua durata è di sei mesi per ciascun genitore, elevata a dieci mesi nel caso di un solo genitore, e può essere fruito in modo frazionato o continuativo; può essere inoltre elevato a sette mesi nel caso del lavoratore – padre che utilizzi un congedo parentale di almeno tre mesi, per incentivare la “buona prassi”, prevedendo una contribuzione economica per tali congedi.

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Altri interessanti interventi in materia sono quelli che prevedono la possibilità per i genitori di assentarsi a causa delle malattie del figlio

Altri interessanti interventi in materia sono quelli che prevedono la possibilità per i genitori di assentarsi a causa delle malattie del figlio

Nel documento UNIVERSITA DEGLI STUDI DI BARI ALDO MORO (pagine 32-0)