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L’esempio migliore di questo carattere della filosofia politica si trova, a mio parere, nel saggio Political Philosophy Qui la filosofia è definita come un’impresa radicalmente

sovversiva, e l’impulso alla riflessione è paragonato all’ascesa di una torre. Il filosofo che

parte dall’esperienza politica, a differenza degli altri teorici, per i quali è sufficiente arrivare

a un punto da cui possono guardare dall’alto, tutto intero, il loro oggetto di indagine, è

preparato ad andare avanti ad libitum, ma se gli accade di interrompere la salita troppo in

a un adeguamento fra i sentimenti morali o di verità, da una parte, e i principi che consentono di renderne conto dall’altra (cfr. Boudon 1995, p.10, n.6), Cotellessa sostiene che l’argomento di Oakeshott fa leva proprio sull’impossibilità di pervenire a un simile adeguamento tra principi, teorie e giudizi (o sentimenti) morali e che questo potrebbe essere uno dei motivi per cui, non essendo di ausilio per la maggior parte delle teorie liberali, quella oakeshottiana sarebbe stata di fatto accantonata, come testimonia il fatto che in un importante handbook di teoria politica soltanto Parekh (1996, pp. 503-18) dà rilievo alle concezioni di Oakeshott. (cfr. Cotellessa 1999a, p. 8 e n.10).

57 Cfr. VLL, p. 15: «There is no such thing as “human nature”; there are only men, women and children responding gaily or reluctantly, reflectively or not so reflectively, to the ordeal of consciousness, who exist only in terms of their self-understanding».

58 Cfr. Orsi (2016, p. 100). D’altra parte, se si può concordare con Neill (2013, pp. 67-8) che, negli scritti pubblicati a partire dagli anni ’50, in particolare in saggi come The Masses in Representative Democracy (RP, pp. 363-83) e il terzo saggio di On Human Conduct, Oakeshott sembra abbandonare l’idea dell’irrilevanza pratica della filosofia e accettare un ruolo più attivo per il filosofo politico, consistente nell’indicare modelli ‘valoriali’ o addirittura un «system of government» (Neill 2013, p. 69), questo può dirsi coerente con la filosofia di Oakeshott solo nella misura in cui, come dice Orsi (2016, p. 34), «it admits that being an advocate of particular practical options means expressing a point of view based on circumstantial arguments and is, therefore, distinct from the activity of being a political philosopher. The solution to practical and political dilemma is grounded on moral judgments formed through a discourse which is based on certain specific, historical, and moral resources and not on the universal point of view pursued by philosophical activity». Infatti, come vedremo in HC, la scelta fra societas e universitas sembra essere una questione di «desirability» e non di riflessione filosofica normativa (HC, p. 321).

basso, allora la ‘spinta filosofica’ a vedere le cose come sono stabilmente è perduta, e la

riflessione viene messa ‘al servizio della politica’. Se l’ascesa si interrompe più in alto, ciò

che vede può essere utilizzato per ‘spiegare’ le dottrine politiche; in entrambi i casi, però,

la sua impresa filosofica è fallita. Ma, aggiunge Oakeshott, se

non rimanere ostacolati dalla nostra fedeltà a ciò che abbiamo visto per primo, o a ciò che era stato percepito a un livello più basso è il principale obiettivo della filosofia, c’è un secondo e non meno significativo scopo: esplorare e registrare il processo di mediazione attraverso il quale la scena di un livello diventa la scena di un altro e più alto livello. E un’impresa filosofica rimane legata all’esperienza da cui sorge, non per una limitante fedeltà a quello che si è lasciato alle spalle, ma sulla base di quello che può essere descritto come un viaggio continuo (Filosofia politica, 2013, trad. it. di Davide Orsi, p. 15).

In questo senso, le tante presenze, incarnate eppure fuggevoli, che si affacciano dalle

sue pagine potrebbero essere proprio il segno di una permanenza dell’‘impermanente’, con

cui fare i conti filosofici. Ciò significa che il filosofo può mettersi provvisoriamente

‘accanto’ ai soggetti e alle situazioni che prende in esame, proponendo delle diagnosi o

delle mappe della condizione umana, ma lascia a ciascuno la ricerca della cura o della meta

da raggiungere, sempre che si voglia tener conto delle sue osservazioni. E io credo che un

aspetto rivelatore del filosofare di Oakeshott sia proprio questo continuo ‘andirivieni’,

testimoniato anche dal ricorso agli esempi concreti e particolarissimi che punteggiano molti

dei suoi scritti

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. Sono ‘agenti’ che Oakeshott descrive in un modo che non riesce a essere

distaccato, come forse vorrebbe: amici, colleghi di lavoro, genitori e figli, fabbricanti di

sassofoni, immigrati, coppie di amanti, membri di partito o di una setta, suonatori di

violino, giocatori e arbitri, ragazzi che studiano il latino, scommettitori, naviganti, cuochi

e altri ancora. È come se la pluralità, la vividezza sfuggente di queste rappresentazioni

instabili, ma così pregnanti, di persone delle quali sembra quasi di sentire le voci, degli

ambienti in cui si muovono, degli oggetti di cui si servono, parti ‘inessenziali’ e tuttavia

costitutive di un tutto ineffabile, lo richiamassero senza sosta a un qui e ora, a una ‘cosalità’

emergente, a una mondanità assoluta che le categorie filosofiche tradizionali sembrano

59 Non solo macchiette o schizzi di figure senza nome, come il tizio che prende il traghetto per Calais, o il suonatore di flauto all’angolo di una strada (HC, p. 112), ma anche personaggi e immagini che ci raggiungono dal passato: Montaigne nel suo orto (HC, p. 73), Godolphin visto da Hobbes (HCA, p. 131), i Telemiti di Rabelais (HC, p. 78), Agostino e l’evanescenza del tempo (HC, p. 84), Machiavelli ‘scettico’ (Oakeshott 1996, p. 53), Pericle che spinge gli ateniesi alla guerra (RP, pp. 77-8), Marx, che «endowed everyting he touched» (HC, p. 309), Locke e il suo liberalismo «more conservative than conservatism itself» (Oakeshott 2007, p. 85). Anche se gli ‘individui mancati’ (HC, p. 275, sgg.), che costituiscono la base sociale dei governi come ‘associazioni d’impresa’ o della politica della ‘fede’ (Oakeshott, 1996), sono del tutto senza volto, pure si legge il percorso storico dal quale provengono, in una ricostruzione insieme immaginifica e disturbante, forse, ma non ‘aristocratica’ o indifferente come alcuni critici ritengono (cfr. Anderson 1991; Crick 1991; Parekh 1979, p. 502).

inadatte a comprendere e che, forse, solo l’arte è in grado di toccare e rendere, in qualche

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