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Mimar Sinan e la costruzione del paesaggio urbano

interpretativa della città

11 BOZDOGAN 1997, 146 12 Cfr FRAMPTON,

1.2.2 Mimar Sinan e la costruzione del paesaggio urbano

Lavorare su Istanbul significa inevitabilmente confrontarsi con il lavoro di un altro grande Ma- estro dell’architettura, cioè Mimar Sinan (1489-1588). Eldem scrive poco su Sinan, forse per rivendicare un’urgenza legata all’emancipazione dell’architettura minore dal carattere stilistico e religioso delle moschee; Cansever invece è molto affascinato dalla sua opera, tanto da dedicargli addirittura un’intera monografia, pubblicata nel 2005.1

Sinan dedica gli ultimi cinquant’anni della sua vita centenaria – gli unici dedicati completamente all’architettura – alla sperimentazione di una nuova spazialità, basata sull’equilibrio senza peso della volta, ma soprattutto su un organismo centrale, concatenato ad elementi più piccoli. Il si- stema di questi elementi rappresenta “una sintesi architettonica in sé compiuta, un’isola archi- tettonica ordinata nel caotico tessuto della città ottomana, che è come un arcipelago di isole architettoniche.”2

La moschea, pur essendo l’unico elemento di rilevanza nel paesaggio urbano della città ottomana, non ne rappresenta il centro. Il senso del luogo è rievocato da Sinan tramite l’aggregazione di edifici più piccoli attorno al punto focale, rappresentato dalla moschea. Egli accetta la tradizione turco-ottomana delle sequenze narrative, contrapposte alla composizione simmetrica caratteristi- ca della città occidentale, e ne fa il suo principale dispositivo progettuale.

Sinan “inventa” il tipo della moschea, o almeno lo porta ad una codificazione definitiva. Dopo di lui, non ci saranno altri contribuiti così determinanti. L’architettura della moschea, già esistente nel suo vocabolario di parti e di elementi architettonici, si evolve, grazie a Sinan, nella sintassi: il monumento non è più concepito come un oggetto isolato e finito nella sua perfezione, ma acquista senso dalle relazioni con gli altri edifici del külliye. L’architettura di Sinan è sintesi, dunque, di un valore urbano, profondamente legato agli spazi aperti della città, i meydan, che rappresentano non lo spazio su cui s’imposta il singolo monumento, ma quello attorno al quale si dispongono gli edifici.

Sinan, in qualità di architetto capo del sultano, fu incaricato del restauro, che Semerani definisce

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Vista sul Corno d’Oro e sul Bosforo, dalla madrasa del complesso di Solimano, realizzato da Sinan. FdA (2014)

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Copertina del libro di T. Cansever, Mimar Sinan, Al- baraka Türk, Istanbul, 2005

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“creativo”3, della basilica di Santa Sofia. In quell’occasione, egli ne studia a fondo i dispositivi

spaziali, comprendendone allo stesso tempo i limiti imposti da un utilizzo spropositato di contraf- forti, che appesantivano la struttura, condizionando l’ingresso della luce e l’apparato decorativo. Le soluzioni a cui perviene nei successivi progetti per le moschee sono legate a logiche molto distanti dalla composizione architettonica occidentale.

“Nell’idea rinascimentale della relazione del tutto con le parti, le parti obbediscono comunque al principium individuationis; esse ci dicono che cosa sono e che ruolo hanno nel tutto. Gli elementi verticali, siano essi colonne, lesene, pilastri, e gli elementi orizzontali come le trabeazioni, le fa- sce, i cornicioni, rafforzano la comprensione figurativa e statica dell’organismo.

Tutto obbedisce a un ordine gerarchico dove le parti sono o dominanti o subordinate, dentro alla macchina costruttiva. Gradazione e concatenazione sono i precetti compositivi. Ma la gradazione è l’antagonista naturale dell’integrazione, ed è naturale che la gradazione di solito prevalga. […] In Sinan invece, in generale, l’integrazione prevale sulla gradazione. Le parti hanno una sfumata autonomia rispetto al tutto, oppure sono autonome e contrastanti.”4

La moschea è, infatti, pensata in relazione allo spazio della città ottomana, che non è uniformato dal senso prospettico della città occidentale. Non a caso la facciata principale della moschea è occultata da un portico a cupole, diverso per scala e misura sia dagli altri portici della corte di accesso, sia dal corpo cupolato centrale. Non sussistono relazioni d’ordine tra i vari spazi, ogni parte è al contempo inglobata e rivelata, mentre le forze statiche sono celate all’interno del muro. La percezione spaziale è uniforme e non gerarchica; per questo, nei progetti di Sinan, la luce è più diffusa possibile. Lo spazio, sia esso interno o esterno, non è frammentato da ombre portate, poiché appunto gli elementi di disturbo, come i contrafforti, sono ridotti al minimo, lasciando che la luce del sole “caschi” sulle calotte esterne e si diffonda nello spazio attraverso le finestrature omogenee.

Data questa premessa, potremmo quindi estendere il concetto di tettonica, normalmente connesso a un edificio, alla scala urbana, per avvicinarci a comprendere cosa intende Cansever con questo

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Pianta di Santa Sofia (Ayasofya). Da MÜLLER- WIENER, 1977, 90

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I minareti di Santa Sofia, realizzati da Sinan nel 1570. Da CANSEVER, 2005, 348

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termine, che utilizza largamente nella descrizione dei propri progetti.5

Cansever studia a lungo l’opera di Sinan e si sofferma ad analizzare il suo approccio all’architet- tura, indissolubilmente legato alla sua epoca e alla sua storia personale. La tradizione è il primo concetto che sta dietro alla concezione del progetto secondo Sinan6: avendo avuto l’opportunità

di viaggiare, come giannizzero, attraverso tutto il mondo ottomano, ma anche mediterraneo, egli collezionò un insieme di figure e di forme che entrarono a far parte, in seguito, dei suoi progetti. L’appropriazione di un patrimonio antico è parte integrante della cultura turca, come ci ricorda Paola Gennaro: “Nella inarrestabile avanzata verso Occidente dal cuore dell’Asia, i turchi, isla- mizzandosi, assimilano l’architettura araba con le sue vitali radici romane e quando arrivano alle porte di Bisanzio con il suo tesoro di esperienze costruttive, hanno già sviluppato un apparato architettonico originale.”7

Sinan fu probabilmente influenzato dalla varietà di interpretazioni architettoniche presenti nel mondo islamico, seppur riconducibili alla stessa religione. Secondo Cansever, l’approccio com- positivo di Sinan, che lavorava per tettoniche distinte e contrapposte, affonda le sue radici in una cultura nomade, nella quale l’individuo, ribadendo il suo ruolo nel mondo, cerca di registrare i cambiamenti dell’ambiente in cui si muove.8

L’accorpamento delle individualità autonome, in termini architettonici e sociali, genera un nuo- vo concetto di “unità”, in cui la sublimazione dell’individualismo è tenuta insieme da un senso di responsabilità collettiva. Bisogna ricordare che nel sedicesimo secolo il misticismo islamico, cioè il sufismo, governava gran parte delle decisioni nell’impero ottomano, dunque l’architettura, in quanto arte sacra, divenne una manifestazione del concetto islamico di Tawhid, cioè di unità divina e unità dell’esistenza.

L’educazione mistica di Sinan, la cui condizione di giannizzero era paragonabile a quella di un monaco, si rispecchia certamente nelle sue opere. Ne è convinto soprattutto Cansever, per il quale l’architettura concerne l’etica e la religione: i comportamenti psicologici delle persone, infatti, si ritrovano nell’opera d’arte come “forme di espressione”. A questo proposito cita Louis Kahn, de- finendo l’architettura come il riflesso dell’atteggiamento dell’architetto durante il processo com-

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Pianta della Moschea di Solimano (Süleymaniye Ca-

mii), 1550-57. Da MÜLLER-WIENER, 1977, 465 In questa pagina

Foto di dettaglio della Moschea di Solimano, 1550- 57, che evidenzia la composizione per volumi aggre- gati. Da CANSEVER, 2005, 193

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positivo.9

Cansever sviluppa, in secondo luogo, una vera e propria analisi, in linea con la cosmologia islami- ca, delle moschee di Sinan10, ognuna delle quali incarna una diversa sperimentazione del progetto

rispetto ai luoghi della città: dalla moschea Mihrimah (1542), a quella Shehzade (1543), fino all’opera più grandiosa, la moschea di Solimano (1557), che sembra racchiudere una conoscenza completa dell’architettura, in relazione alle tecniche costruttive e ai fatti urbani.

Sinan è stato l’architetto di Costantinopoli. Eppure, con i suoi progetti, sembrava non voler mai alterare la forma della preesistente Bisanzio, né la sua topografia. Al contrario di molti urbanisti occidentali che lavorarono ad Istanbul nel ventesimo secolo, Sinan non pianificò la città, lasciò piuttosto che fosse la città a pianificare la sua opera.11 Il progetto urbano di Sinan si esplica nella

costruzione di un panorama, visibile e percepibile nella sua interezza soltanto da Bosforo, in cui le moschee organizzano e ordinano, con la loro presenza, la complessa forma della città bizantina. L’importanza di Sinan risiede nella sua modernità, nella capacità di andare oltre i dogmi, per per- venire, attraverso il progetto, a una reinterpretazione dei grandi monumenti del passato.

Scrive a questo proposito Luciano Semerani: “Può essere che un moderno sappia e voglia costru- ire meglio di un antico. […]

A partire da tutto questo dobbiamo ammettere che sulla città e sulle pietre del passato, non deve ma può anche depositarsi una visione del mondo futuro che noi oggi progettiamo.”12

In questo senso Cansever ritrova, forse, in Sinan le radici di una modernità da continuare, sulla base di un principio da lui molte volte ricordato, che esprime il compito dell’architetto nell’inten- zione di ricostruire un futuro migliore del passato.13

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Il portico della corte della moschea di Solimano, 1550-57. Da CANSEVER, 2005, 198

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Note

1 CANSEVER T., Mimar Sinan, Albaraka Türk, Istanbul, 2005 2 GENNARO, 1992, 11

3 SEMERANI Luciano, “Sinan. Il restauro creativo”, in Passaggio a Nord-Est. Itinerari attorno ai progetti di Luciano Semerani e Gigetta Tamaro, Electa, Milano, 1991

4 GENNARO, 1992, 12