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3. La malattia professionale: vittimizzazione e denuncia

3.1 Mobbing come risorsa dialettica

Riferendosi al termine «rischio», Mary Douglas lo definisce una «risorsa dialettica», sottolineandone in questo modo non solo il carattere socialmente costruito, quanto il ruolo e

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l’utilità che svolge all’interno del dibattito pubblico, contribuendo a costruire «un vocabolario comune per discutere (e) con il quale attribuire la responsabilità alle persone» (Douglas 1985:198). Ascoltando le narrazioni di Piero, Cosimo e Giovanni mi era resa conto che il concetto di «mobbing» vi svolgeva un ruolo simile, era un modo comune per parlare, riassumendoli, della gestione del lavoro e dei rapporti di forza all’interno dell’Ilva, diventando così un mezzo per ricalcare la percezione della propria posizione in fabbrica. Ugualmente, mi sarei accorta che parlare di mobbing a Taranto significava rifarsi ad un ulteriore piano di richiami, legato al contesto storico e sociale, che portava a citare prima o poi la «palazzina Laf»: una vicenda fissata nella memoria come un evento fondamentale. Sia Piero, sia Cosimo che Giovanni avevano parlato della vicenda, senza che io vi avessi fatto alcun cenno e senza un riferimento diretto a quegli anni. Consapevole del risalto notevole che aveva avuto la questione a livello mediatico e del peso fondamentale che ricopre nella giurisprudenza in merito, erano stati non tanto quei riferimenti a sorprendermi, quanto le sfumature differenti che questi assumevano nei loro discorsi.

Il caso era scoppiato nel 1999, quando la dottoressa Lieti aveva denunciato sulle pagine di un quotidiano locale ciò che le era stato raccontato da diversi operai durante dei consulti psichiatrici. Per un anno, fra il 1997 e il 1998, circa settanta operai ritenuti “scomodi” da parte della dirigenza dell’Ilva erano stati segregati senza far nulla per tutta la durata del turno lavorativo dentro la palazzina Laminatoi a Freddo, abbandonata e priva di servizi igienici; erano sorvegliati da guardie che li scortavano in mensa, dove mangiavano separatamente dai colleghi. Benché al

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termine del processo i dirigenti fossero stati condannati ed obbligati a reintegrare i lavoratori nei loro compiti, dopo pochi mesi gli operai furono costretti alle dimissioni. Come dimostrato nel processo, i sindacati erano a conoscenza di quanto accadeva, ma erano rimasti in silenzio per poter portare avanti una trattativa parallela per l’assunzione di 150 giovani operai impiegati in una ditta d’appalto (Colucci, Alemanno, 2011: 20).

Proprio parlando della mancata tutela da parte dei sindacati Cosimo aveva fatto cenno alla vicenda della palazzina Laf, inserendola in una serie di riferimenti a fatti, tutti con un importante risvolto legale, in cui quella assenza era stata pesantissima per il mutamento della condizione degli operai:

Come ho detto già prima che tutti i sindacati sono giusti tutti i tipi di sindacati sono giusti per difendere i diritti e la salute dei lavoratori, ma questo significa purtroppo nelle varie persone che li rappresentava non nel modo giusto, come nell’Ilva di Taranto vedi la palazzina Laf, come il passaggio della nuova siet, come il passaggio delle varie ditte di appalto dell’interno, hanno fatto perdere a tutti questi operai una dignità un decoro della loro persona e il loro sacrosanto diritto.39

Come mostrerò parlando delle forme di resistenza che Cosimo aveva deciso di intraprendere una volta uscito dalla fabbrica, era costante nel suo discorso la distinzione fra le istituzioni, il cui valore e la cui giustizia fondamentale ci teneva a ribadire, e le storture cui erano sottoposte quando erano incarnate dai singoli rappresentanti. Se i tre fatti cui si era riferito si differenziavano leggermente nelle forme, rientrando comunque tutti nel piano di ristrutturazione aziendale portato avanti dalla nuova gestione, per Cosimo essi avevano le stesse implicazioni sulla

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vita dei lavoratori di cui ledevano non solo il «sacrosanto diritto» al lavoro ma, in un legame evidente, la loro «dignità» ed il «decoro» in quanto persone. In questo processo di svilimento della persona attraverso la gestione dei rapporti di lavoro, la palazzina Laf rappresentava per lui un caso paradigmatico:

C: la cosa vergognosa che c’è stata con la palazzina Laf è che venivano inseriti in quella palazzina persone che non si piegavano alle richieste ingiuste … ricordiamo un ingegnere che è stato aggravato nelle responsabilità di lavoro maggiori delle sue portate fisiche che addirittura si è ucciso perché non trovava altra alternativa per mantenere sé e la sua famiglia

M: ma quando gli altri operai venivano a conoscenza di queste situazioni …

C: c’era una paura generale perché con queste settanta persone che sono state messe in questa palazzina senza far niente quando andavano a casa i propri figli dicevano papà che cosa hai fatto? Niente ho passeggiato … due persone hanno tentato il suicidio all’interno … che sono state immobilizzate è stata tolta un diritto che nessuno doveva togliere, classificandoli parassiti che venivano pagati senza fare niente …40

Per prima cosa, Cosimo tentava di rendere merito alle persone che erano state coinvolte nella vicenda cercando di non presentarle esclusivamente come delle vittime. Se, come aveva detto poco prima, i sindacati non erano stati in grado di tutelare gli operai, a quelle persone andava riconosciuto il coraggio e la forza di non essersi piegate a richieste ritenute ingiuste. Tuttavia, subito dopo egli sottolineava un dislivello di potere tale per cui, attraverso la segregazione, l’azienda aveva avuto la possibilità di «immobilizzare» la loro protesta, ledendo un diritto inalienabile. Soprattutto, Cosimo attribuiva all’azienda una capacità maggiore: «classificare» le loro esistenze, definire le loro identità, dando o togliendo loro la possibilità di svolgere il compito per cui erano retribuiti, incidendo così sulla vita famigliare ed affettiva al punto da

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mettere le persone coinvolte nelle condizioni di pensare che forse quelle vite non valessero la pena di essere vissute. Nel mettere in luce tale condizione di subordinazione, le cui implicazioni sforavano con violenza i confini della fabbrica, il tono delle parole di Cosimo cambiava, facendosi non solo più duro ma quasi solenne. Così, all’improvviso il soggetto diveniva plurale («ricordiamo»): dalla narrazione del proprio vissuto, Cosimo slittava alla testimonianza di una vicenda la cui memoria apparteneva anche a chi non ne era stato protagonista. Paradossalmente, era stato proprio durante il racconto di un fatto a cui non aveva partecipato, che l’affettività si insinuava con maggiore forza nella narrazione. Così ad esempio, alla mia domanda sulla reazione degli operai rispetto alla vicenda, aveva risposto con l’immaginaria domanda che uno dei figli delle vittime avrebbe potuto rivolgere al padre una volta a casa. I suoi figli e la propria vita famigliare, invece, Cosimo li aveva sempre tenuti ben distinti dagli spazi delle nostre conversazioni quando il microfono era acceso. L’uso di quel registro narrativo contribuiva a creare, attraverso il richiamo anche retorico di determinati aspetti, una vicinanza sentimentale ed una condivisione emotiva rispetto a quei lavoratori che diventavano il simbolo della subordinazione ai rapporti di potere in fabbrica. Esso dava anche la possibilità di inserire all’interno della propria rappresentazione pubblica quegli aspetti dell’affettività che Cosimo preferiva altrimenti non esporre.

Anche Piero mi parlava con un tono simile dell’episodio; vi si riferiva quando il proprio racconto toccava gli anni dell’isolamento nei magazzini dell’Area 3 e della difficoltà dei rapporti con i colleghi e con i rappresentanti sindacali. In genere il suo era un accenno fugace:

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Quando ripenso a quelle cose poi penso, penso che non ero solo io … a quante persone è successo … le persone che volevano suicidarsi … certe volte rivedo i volti di quelli della palazzina Laf … che se uno ci ripensa …41

Ero costretto ogni tanto … mi innervosivo spesso … ad andare all’infermeria nello stabilimento perché entravo in depressione morale … sono andato a finire al centro di igiene mentale dove ho avuto anche la fortuna di riprendermi perché quella depressione mi stava portando anche al suicidio … perché non vedevo nessuna uscita per pretendere i miei sacrosanti diritti che ritenevo ingiusto che mi venissero negati … infatti tutto questo mi ha portato a una situazione molto angosciosa anche in famiglia perché ero irascibile ero depresso ero … di tutto e di più Sebbene il riferimento di Piero fosse molto più piegato sulla propria esperienza personale, egli metteva chiaramente in luce il carattere di vicinanza e connessione rispetto a quella vissuta dai lavoratori coinvolti nella Laf che pure si intravedeva nel racconto di Cosimo. Ad entrambi parlare di quella vicenda dava l’opportunità di mettere in rilievo alcuni aspetti del proprio vissuto in fabbrica a cui avevano solo accennato nella loro narrazione. Forte per entrambi era stato così il riferimento ai tentativi di suicidio di chi era stato segregato nella palazzina. Se da una parte questo aspetto si inseriva all’interno di alcune pratiche, non solo narrative, che Piero e Cosimo condividevano e che si fondavano sull’importanza attribuita alla memoria e al lutto attraverso cui dare valore e rendere «degne» le vite stesse delle vittime (cfr. Butler 2013), di cui

parlerò nel secondo capitolo; dall’altra, entrambi in quella comunanza trovavano un modo per pensare e tentare di dare un senso al peso enorme che la dissoluzione del proprio microcosmo lavorativo aveva avuto in ogni campo della propria esperienza. Così Cosimo, in maniera simile a quanto qualche settimana dopo avrebbe fatto Piero, mi aveva detto:

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41 Diario di Campo, 20 luglio 2013.

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Come nel caso di Piero, la medicalizzazione attraverso la categoria di «depressione» era stato il modo in cui la biomedicina aveva interpretato quel profondo disagio. Tuttavia, il riferimento alla palazzina Laf ed al mobbing ricopriva un ulteriore ruolo e contribuiva con altre sfumature a definire lo spazio pubblico nelle narrazioni degli operai; me ne ero resa conto in particolare facendo attenzione al modo in cui Giovanni, che a differenza di Piero e Cosimo ancora lavorava all’interno dell’Ilva, ne aveva fatto cenno:

La loro vendetta è non darti il giorno di ferie la loro vendetta è, che ne so, renderti la vita difficile metterti in posti peggiori quello è renderti la vita difficile e spingerti al licenziamento … queste non sono parole mie, il mobbing nell’Ilva esiste, la palazzina Laf, è esistita, cioè a chiunque chiedi a un mio collega se non te lo dice è solo perché non ha il coraggio di parlare, funziona così è così ed è la normalità … la normalità …43

Non era la prima volta che un operaio dell’Ilva affermava la sostanziale impossibilità di esprimere la propria opinione in fabbrica. Se era un punto che tornava praticamente durante ogni riunione del comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti in cui parlasse un operaio (come approfondirò nel terzo capitolo) qualche settimana prima Piero aveva riassunto il concetto in maniera molto diretta: «Non puoi parlare che se parli sei fottuto …»44

43 Intervista Giovanni Faggiano, 12 agosto 2013. 44 Intervista a Piero Mottolese, 5 luglio 2013.

. Riferirsi ad una categorie costruita in ambito legale e biomedico, come quella di mobbing, e ad una vicenda su cui vi era stata una sentenza di Cassazione a stabilire i responsabili e le pene (come Giovanni aveva sottolineato dicendo «non sono parole mie»), come valeva anche per gli altri casi cui aveva precedentemente fatto riferimento Cosimo, dava la possibilità, anche solo evocando il fatto, di

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inserire e legittimare il proprio discorso all’interno di un universo di significati condivisi. In questo modo, accennare alla Palazzina Laf ed alla categoria di mobbing permetteva di esprimere pubblicamente, in maniera sintetica e diretta, quanto era invece fortemente sconsigliato all’interno della fabbrica.

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