PRESENTAZIONE
Dopo gli interessanti esiti scaturiti dal laboratorio La città in mostra: patrimonio culturale e modalità di display organizzato da Sandra Costa per gli studenti di Museologia e Collezionismo durante l’anno accademico 2018-2019, si è ritenuto di dare corso alla medesima attività didattica anche per l’annualità 2019-2020, al fine di garantire una continuità a questa riflessione.
La tipologia della ricerca si presta, infatti, ad una mappatura delle scelte di display che storicamente hanno caratterizzato la valorizzazione del patrimonio storico artistico di ambito bolognese, strumentale alla realizzazione di un archivio i cui agili saggi possano proporsi come occasioni di stimolo a studi e ricerche più approfonditi.
Ho avuto il piacere di accompagnare nel percorso di lavoro quattro gruppi di studenti che hanno rivolto la loro attenzione ad ambiti sia storicamente che tipologicamente diversi, proposti anche in questa edizione rispettando un ordine di carattere cronologico.
Il Museo civico d’arte industriale Davia Bargellini è stato analizzato da un punto di vista piuttosto insolito, ovvero
considerando gli effetti che i provvedimenti richiesti dalle più recenti normative in tema di sicurezza hanno prodotto sul display della collezione. L’intenzione è stata quella di dare conto di una molteplicità di problematiche che coinvolge curatori e responsabili di un museo, obbligati a confrontarsi con la soluzione di esigenze di ordine meramente pratico o relative alla sicurezza assicurandosi che non impattino sulle ragioni della conservazione e della fruizione del patrimonio.
Lo studio delle vicende che hanno accompagnato la valorizzazione degli scavi di Sala Borsa ha invece messo in evidenza le questioni e gli effetti di una fruizione di tipo meramente accidentale. Nonostante l’importanza, per la sedimentazione dei valori identitari, del display offerto ai bolognesi in seguito all’attività di recupero degli scavi, è innegabile che le molteplici funzioni e servizi organizzati all’interno di questo centralissimo spazio cittadino tendano a relegare ad un piano di interesse secondario un patrimonio archeologico che costituisce, in realtà, il fulcro culturale non solo di questo ambiente ma dell’intera narrazione della memoria storica delle radici della città. Il Museo per la memoria di Ustica si presenta come uno spazio di recente apertura che tuttavia è già stato oggetto di modifiche rispetto alla comunicazione delle sue stesse ragioni storiche. Per questo consente una importante riflessione sulla complessità della mediazione ai pubblici, mettendo in evidenza che in un museo la narrazione proposta dal display delle opere d’arte trova di norma la sua più completa espressione solo se adeguatamente armonizzata con i contenuti di natura più strettamente informativa. La forte empatia generata dall’opera di Christian Boltanski necessità di essere supportata dalla
complessa conoscenza dei fatti che stanno all’origine dell’iniziativa per poter essere apprezzata dagli utenti, provenienti da molteplici background culturali.
Infine, la mostra temporanea organizzata dalla Fondazione del Monte presso la propria sede in occasione della “ricostruzione” dell’opera di Ubaldo Gandolfi la pala de La visione di San Camillo de Lellis, oggetto di molte vicende tra le quali lo smembramento e dispersione delle sue parti, è lo spunto per approfondire il tema del mutare della sensibilità del pubblico, nei diversi periodi storici, di fronte alla fruizione delle opere d’arte. L’accuratezza degli studi filologici più recenti di cui sono oggetto i beni storico artistici potrebbe indurre alla considerazione che sia sempre stato così. Il saggio, invece, mette molto bene in evidenza come, nelle diverse epoche, le ragioni di apprezzamento di un dipinto siano state le più svariate e che, di conseguenza, il display sia stato posto al servizio, di volta in volta, di esigenze di culto, di interessi puramente collezionistici o, ancora, della contingenza di eventi esterni, come ad esempio quelli collegati a vicende ereditarie. Ancora una volta abbiamo ritenuto, visti gli esiti del lavoro svolto, che l’impegno degli studenti meritasse di non andare disperso, ma dovesse restarne testimonianza oltre la presentazione proposta da ogni gruppo ai colleghi del corso che non avevano preso parte all’attività. È sembrato naturale, quindi, accogliere i brevi saggi nella sezione collegArti Dossier, appositamente predisposta, a partire dalla scorsa edizione, per offrire un supporto alle iniziative di didattica laboratoriale.
PERIOD ROOMS E MODERNITÀ:
il Museo Davia Bargellini tra tradizione e innovazione A cura di Valentina Pieraccini e Rosarianna Romano
Il Davia Bargellini, museo civico di arte industriale della città di Bologna, è allestito secondo le modalità tardo ottocentesche della period room, così come volle Francesco Malaguzzi Valeri, Soprintendente alle Gallerie di Bologna e della Romagna negli anni dal 1914 al 1923, il quale lo considerava luogo di ispirazione per la produzione degli artigiani bolognesi.
Malaguzzi Valeri - storico dell’arte ricordato anche per l’attenzione alla tutela del patrimonio storico artistico e per la curatela o la promozione editoriale di saggi e riviste come “Rassegna d’arte”, di cui fu codirettore nel 1901 - iniziò a lavorare all’allestimento del Davia Bargellini a partire dal 1917. Un’esperienza del 1903 presso la Pinacoteca di Brera fu fonte di ispirazione per l’allestimento del museo, sorto nel palazzo omonimo, proprio per volontà del Soprintendente che lo ritenne sede idonea per la posizione centrale e privilegiata. Il museo nacque dalle collezioni di due istituzioni distinte: la Galleria dell’Opera
Pia, creata dall’unione dei beni della famiglia Davia con quelli dei Bargellini e la raccolta comunale d’arte industriale, fortemente voluta da Francesco Malaguzzi Valeri, il quale la arricchì attingendo al patrimonio artistico, acquistando oggetti da antiquari e, da abile uomo politico, anche sfruttando la situazione post-bellica che gli garantì contributi da privati e dal Ministero della Pubblica Istruzione e dell’Industria.
Questa tipologia di allestimento museale si inserisce tra i primi esiti di un’attenzione, in quegli anni sempre crescente, nei confronti di oggetti appartenenti al patrimonio industriale: il progetto seguì un fine didattico, sostenuto dalla necessità di porre gli artigiani di fronte ad esempi di un “fare” di alta qualità. Le radici di questa sensibilità sono da ricercarsi nelle grandi Esposizioni Universali che, a partire da quella tenutasi nel 1851 a Londra, precisamente nel Crystal Palace, moderno edificio in vetro e ferro,
diffusero non solo in Europa l’intenzione di coinvolgere gli artigiani i quali, visitando la mostra, avrebbero potuto trarre ispirazioni per le loro produzioni: questo era anche l’intento che mosse Malaguzzi Valeri nell’allestimento del Museo Davia Bargellini.
Malaguzzi Valeri riteneva che le collezioni pubbliche dovessero essere in grado di rievocare i periodi passati in una sorta di “macchina del tempo” capace di trasportare il visitatore in un’altra epoca, in questo caso quella del Barocco bolognese, al fine di offrire, oltre ad un’ispirazione per gli artigiani, la possibilità di avvicinare i meno colti alla conoscenza della storia.
L’ideale museografico di Francesco Malaguzzi Valeri può essere riassunto dal verbo “ambientare”, nel senso di “formare ambienti”, creare “stanze nelle stanze” in grado di togliere al museo “la freddezza animandolo con l’illusione della casa abitata”1. Le stanze del Davia Bargellini sono
caratterizzate dai mobili e dalle suppellettili scelti da Malaguzzi Valeri per offrire all’intero complesso le sembianze di un palazzo sei-settecentesco e permettere al visitatore di respirare l’aria del tempo, mentre ammira le numerose opere qui conservate (da quelle di Vitale da Bologna alle tele di Lavinia Fontana).
Con il passare degli anni si è deciso di mantenere questo assetto in quanto eccellente testimonianza di allestimento storico, secondo il modello della period room molto apprezzato nell’Italia di fine XIX inizio XX secolo.
Il presente elaborato si pone l’obiettivo di analizzare le modifiche che il Davia Bargellini ha riportato in anni recentissimi, avvalendosi della verifica autoptica alle 1Ferretti, 1987, pp 9-25.
collezioni ed agli ambienti del museo; per raggiungere tale scopo è stato fondamentale il contributo offertoci dal suo curatore, Mark Gregory D’Apuzzo2.
I cambiamenti sono stati apportati seguendo due linee direttrici: la fruibilità e la sicurezza, entrambe accomunate dall’attenzione nei confronti dei visitatori del museo. Per migliorare la fruibilità gli interventi hanno riguardato in primo luogo l’illuminazione e la redazione di schede illustrative di ciascuna stanza, in italiano e in inglese, consultabili liberamente dai visitatori.
La terza sala, un piccolo vano di passaggio che ricorda una cappella gentilizia, esemplifica molto chiaramente la modalità delle misure adottate: qui, infatti, sono stati aggiunti alcuni faretti per garantire un’illuminazione più adeguata, ma senza eliminare totalmente la penombra diffusa che consente di sublimare il museo con un fascino da “casa abitata”, come nelle intenzioni di Malaguzzi Valeri. Si tratta di uno spazio piccolo e riccamente arredato: la straordinaria sontuosità di mobili e suppellettili di grande valore ha reso necessaria la presenza di un cordone che delimitasse quest’area. Se tale premura è opportuna per scongiurare il pericolo che i visitatori possano urtare o in qualche modo rovinare l’arredo della sala, tuttavia va sottolineato che impedisce una visione ravvicinata dei quadri esposti e la lettura delle targhette che ne indicano l’autore. (Figg.1-2).
È soprattutto per ovviare a questa problematica, particolarmente evidente nella cappellina, ma frequente 2 Abbiamo incontrato Mark Gregory D’Apuzzo per un’intervista