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Modi di dire

Nel documento S EMANTICHE DELL ’I MPERO (pagine 116-124)

Cominciamo dalla strategia con cui sono inanellati i fatti, siano essi puntuali o inesatti o perfino omessi. Oltre a rilevare ciò che l’imperatore dice, con qualche sondaggio stilistico potremo cogliere anche cose che l’imperatore non fa trapelare, in modo deliberato e perfino inconsapevole.

Il racconto è alla terza persona, nel solco di un’antica tradizione, come per esempio il De Bello Gallico, un libro che Carlo V portò con sé nel ritiro di Yuste, quando ormai aveva abdicato a tutto e la sua vita era agli sgoccioli. Ma quel possibile modello classico non basta a

i-dentificare il genere letterario di queste Memorie. Rispetto alla lezione che veniva dal Medioevo e dall’Umanesimo, esse rappresentano una rottura del canone. Fino ad allora, oltre ai santi, i soli uomini ritenuti degni di fama erano coloro che si distinguevano con la spada. Tocca-va poi agli uomini di penna lasciare ai posteri la storia scritta delle ge-sta degli eroi. Chi, come il Marqués de Santillana o Jorge Manrique era abile sia nell’uso delle armi che delle lettere, non scriveva comun-que di sé. O, per lo meno, non direttamente. Da comun-questo punto di vista, le Memorie di Carlo V – che paiono essere state composte a metà del secolo XVI – rappresentano una novità che il sistema letterario coevo stava inglobando velocemente con diverse declinazioni di genere, quali il romanzo picaresco, l’epica coloniale e le autobiografie di sol-dati.

Tuttavia, il caso dell’imperatore Carlo V non rientra nemmeno nel nuovo spazio autobiografico che si sta formando. Quando scrive queste Memorie, esistono già su di lui molte opere storiche coeve, di varia provenienza e fattura2. Alcuni testi si dovevano a umanisti pre-stigiosi, scelti direttamente dall’interessato per svolgere il ruolo di cronista imperiale. Il primo a ricevere l’incarico fu Antonio de Gueva-ra, che in modo tanto diffuso ed elegante scrisse di Carlo V, senza mai giungere a comporre un libro che gli fosse specificamente intitolato3. Il secondo fu Juan Jinés de Sepúlveda, autore di De Rebus Gestis Ca-roli Quinti, il quale raccoglie in minima parte testimonianze oculari e racconta ciò che conviene al modello storiografico dei classici greci e latini4. Avere una buona cultura non giovava all’informazione storica quale si concepisce oggi. Valutare in modo affidabile la parabola di Carlo V è considerata un’impresa chimerica perfino dagli specialisti del secolo XX, a causa della debordante quantità di fonti e documenti sparsi per l’Europa. E, data la difficoltà di arrivare a una sintesi che agglomeri le molteplici dimensioni politiche di questo sovrano, anco-ra oggi si pubblicano lavori che dedicano capitoli sepaanco-rati a Carlo I di Spagna e a Carlo V imperatore5.

Resta il fatto che l’autore di queste Memorie fa tutto da solo: compie le res gestae e redige la historia rerum gestarum, nell’età in cui in pittura si sta affermando l’autoritratto e nelle lettere fa capolino

2 V. De Cadenas y Vicent, Las supuestas “Memorias” del Emperador Carlos V, Hidalguía, Madrid 1989, pp. 59-62.

3 A. Morel Fatio, op. cit., pp. 21-41. 4 Ivi, pp. 42-72.

la scrittura dell’io. Inverte, pertanto, quella che per Lotman è il diritto alla biografia, cioè il diritto a trasformare le esperienze di un indivi-duo in una storia modellata dai codici culturali di una determinata e-poca6. L’imperatore – nonostante le molte versioni pubbliche della sua biografia – si attribuisce unilateralmente il diritto di riscrivere da sé la storia della propria vita, facendo confluire nella sua persona fun-zioni fino ad allora divise. La sua è infatti una scrittura mondana, ri-nascimentale nel senso che pone sé stesso al centro del proprio desti-no. Appare invece priva degli ornamenti umanistici in voga, che im-ponevano sempre l’ideale sul reale. Carlo V era stato uno studente svogliato che preferiva decisamente la vita attiva a quella contempla-tiva. Ignorando i precetti letterari, si prese ampie libertà nelle forme e nei contenuti delle sue Memorie, per esempio non ricorrendo alla mi-tologia greca e romana e quasi ignorando anche la provvidenza divi-na. Quest’ultima emerge per lo più dove proprio non poteva mancare, vale a dire nella parte in cui l’autore racconta le guerre di religione contro i protestanti. La sua straordinaria missione imperiale resta sot-tintesa come una linfa invisibile.

Fin dall’inizio del testo il narratore e protagonista si designa co-me l’“Archiduque Carlos”, “neto” dell’Imperatore. Di questi egli loda la “prudencia”, la virtù di chi governa, nonché l’“esforço costumado”, la virtù di chi fa la guerra7. Tali sono i caratteri della stirpe prescelta da Carlo per la propria presentazione. Si tratta di quella patrilineare. Poche righe più sotto, l’imperatore si riferisce a se stesso come a “Sua Mag[estade]”, adottando quindi il punto di vista del narratore adulto e non quello del protagonista adolescente della storia appena iniziata. Siamo già nel 1516 e Carlo (non ancora I né V) registra tre avveni-menti che lo riguardano. L’ordine in cui li elenca è una spia delle sue priorità politiche: la visita alla parte dei Paesi Bassi che ancora non aveva salutato in veste ufficiale; la sua prima convocazione, a Bruxel-les, del capitolo dell’Ordine del Toson de Oro, il cui titolo gli era stato conferito dal padre quando aveva appena un anno; l’acquisizione del regno di Castiglia e Aragona. Messa in coda alla lista, questa notizia è a dir poco laconica. Ma c’erano molti motivi per non dilungarsi trop-po sull’argomento.

6 J. Lotman, Il diritto alla biografia. Il rapporto tipologico fra il testo e la personalità

dell’autore, in La Semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, a cura

di Simonetta Salvestroni, Marsilio, Venezia 1985, p. 190. 7 A. Morel Fatio, op. cit., p. 186.

Recita testualmente il passo: “E foi o anno em que morreo El Rey Catholico, e dentão por diante o Archiduque tomou o titulo de Rey”8. Fregiarsi di questo titolo era come minimo una forzatura, mes-sa in atto dal mes-sagace Guillaume de Croy. Poiché aspirava alla carica elettiva di imperatore, Carlo aveva tutta la convenienza a presentarsi in veste di re piuttosto che di arciduca. Tuttavia, rispetto al nonno spagnolo che gli offriva da morto tale fortuna, il nipote non esplicita nemmeno il rapporto di parentela. Malgrado la sua faccia fosse ine-quivocabilmente asburgica, Carlo aveva nelle vene molto più sangue iberico che francese o tedesco9. Ma Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, i re cattolici che nel 1492 avevano espulso gli ebrei e conquistato l’ultima roccaforte araba, non sono nei pensieri di Carlo. Paradossalmente egli avrebbe finito per farsi spagnolo al di là di ogni aspettativa. Eppure tale metamorfosi, ancora incompleta nel momento in cui redige queste Memorie, non incide affatto nella retrospettiva dei suoi esordi politici. Pur essendo il difensore della stessa religione dei nonni spagnoli, l’interesse di Carlo si sarebbe spostato su altri nemici, vale a dire gli eretici luterani e i turchi infedeli. Qualunque sia la ra-gione, in questo punto del testo l’ascendenza matrilineare è omessa.

Eppure della madre non può fare a meno di parlare e non proprio per ragioni sentimentali. Vi accenna poco più avanti, quando ricorda il suo viaggio in Spagna, con un seguito di borgognoni raffinati, sprez-zanti e avidi, di cui non fa parola. A diciassette anni, Carlo metteva piede per la prima volta in una terra di cui ignorava quasi tutto, non ultima la lingua. Non era questo il caso del fratello minore Ferdinan-do, che in Castiglia era nato e cresciuto e che buona parte della nobiltà locale avrebbe decisamente preferito come regnante. In una situazione dinastica tutt’altro che stabile, avviene l’incontro fra i due possibili contendenti, registrato da Carlo in questo modo: “indo á Mojados, a-chou ao Infante Dom Fernando seu irmão, ao qual recebeo com gran-de e fraternal amor”10. L’aspirante imperatore e ancora incerto re spa-gnolo tiene con sé il fratello fino al 1518, anno in cui lo fa andare nei Paesi Bassi, alla corte della zia Margherita, allontanandolo quindi da eventuali sostenitori autoctoni. La notizia è data in modo essenziale, senza che trapeli alcuna rivalità. Sapendo la piega che avrebbe preso la storia europea nel corso dei decenni successivi, e sapendo anche quanto temibile fosse Ferdinando nel momento in cui queste Memorie

8 Ivi, p. 188.

9 J. Pérez, Carlos V, Ediciones Temas de Hoy, Madrid 1999, pp. 13-15. 10 A. Morel Fatio, op. cit., p. 188.

venivano scritte, è difficile stabilire se questa scelta si debba soltanto alla logica del potere.

Le omissioni sono di varia natura. Per esempio, l’imperatore non nomina mai la sorella maggiore Leonor, che lo accompagna nel suo primo viaggio in Spagna: in quel momento la giovane non è un fami-liare politicamente rilevante. Né sono degni di nota gli abitanti delle regioni spagnole che non hanno peso nel suo futuro di sovrano. Ciò che successe quando approdò alla costa delle poverissime Asturie non gli strappa neanche una parola. Credendolo un invasore, gli abitanti si spaventarono tanto da fuggire armati sulle montagne. Ma Carlo si cu-ra solo di ciò che riguarda il suo ruolo non ancocu-ra legittimato in Spa-gna. La traversata, l’approdo e il viaggio all’interno della Castiglia vengono così sintetizzati: “embarcandose sua Mag. em Vlissinga, como ditto he, passou o mar do poente, e veo á Hespanha a primeira vez, onde esteve tee o anno de 20. E continuando seu caminho atee Tordesillas, foi beijar as mãos á Rainha sua mai […]”11.

Perché menziona qui la regina? Non aveva egli già ereditato il ti-tolo di re di Castiglia e di Aragona? Non del tutto o non così chiara-mente. Sua madre, che fino al 1555 regnò forse di diritto ma non certo di fatto, era stata soprannominata non a caso Giovanna la Pazza. La visita del figlio che vedeva quell’estranea per la prima volta da quan-do era piccolo durò una settimana. Tanto aveva impiegato il lungimi-rante Guillaume de Croy per assicurarsi che la regina non pretendesse di esercitare il suo potere. A Tordesillas, la madre di Carlo viveva in un isolamento che, dopo quella visita, diventò segregazione. E segre-gata rimase anche la sorella minore Catalina, l’unica figlia da cui la regina non voleva staccarsi. Era nata dopo che l’amatissimo marito era già morto e Carlo la vedeva per la prima volta, come il fratello Ferdinando. Ma nemmeno lei è un soggetto politico e non ha posto in queste Memorie.

Ogni tanto vi affiorerà invece la madre scomoda, un fantasma che morì solo tre anni prima di suo figlio imperatore, che fu obbligato a condividere con lei il titolo di re di Spagna fino al momento in cui decise di abdicare. Si capisce dunque perché non tralasci questo nodo giuridico, pur senza rivelarne i retroscena. Si trattava di una imposi-zione della nobiltà spagnola, per niente entusiasta della sua venuta. Annotando dunque di aver convocato le Cortes di Castiglia a

11 Ibidem.

lid, al fine di ottenerne ufficialmente l’investitura, egli scrisse: “foi ju-rado por Rey juntamente con a Rainha sua mai”12.

Ottenere la stessa investitura dimezzata richiese mediazioni labo-riose anche nel regno di Aragona. Ancora più complesse furono le negoziazioni con la Catalogna. Ma proprio mentre si stava spostando dall’uno all’altro territorio, quello che era soltanto il re Carlo I “no caminho soube da morte do Emperador Maximiliano seu avo”13. Di nuovo la genealogia che gli sta cuore è messa bene in risalto, perché egli sa già cosa gli sarebbe successo. I conflitti e gli intrighi che prcedono ogni sua affermazione politica sono rimossi. Si veda, per e-sempio, il silenzio che avvolge la sua complicata elezione a imperato-re, così costosa sul piano diplomatico ed economico. Quando scrive questa prima parte delle Memorie, l’imperatore si attiene ai dati nudi, positivi, alla concatenazione degli effetti trionfali, senza alcun esame delle cause determinanti, né tanto meno degli scampati pericoli. Carlo V asserisce senza spiegare o provare. Concisamente ricorda che a Barcellona, nel 1519, mentre erano riunite le Cortes che gli dovevano dare l’investitura di re, “lhe vieram novas da sua eleição ao Imperio, a qual lhe foi mandada denunciar pelo Duque Federico Conde Palatino. De là se partio para se ir embarcar em a Corunha, e tomar a primeira coroa em Aquisgran”14.

In realtà egli partì quasi un anno dopo, dovendo preparare il vi-aggio con l’aiuto del suo regno di riferimento, la Castiglia, la terra più ricca della Spagna. Ai nobili locali, già poco felici di averlo come re, non interessava che diventasse anche imperatore, la cui politica so-vranazionale non li riguardava. Eppure è a La Coruña, dove aveva ri-unito le Cortes, che Carlo I, sul punto di diventare Carlo V, presenta il suo programma di difensore mondiale della fede cattolica. In realtà questa è la scusa per battere cassa, ma con il senno di poi le precarietà degli inizi dovettero sembrargli di nessuna importanza. E tace al ri-guardo, come pure tralascia altre questioni rilevanti di quel momento, prima fra tutte la dirompente rivolta dei comuneros.

La secchezza comunicativa non varia con l’avanzare del raccon-to. L’imperatore, per esempio, snocciola parecchi fatti rilevanti in po-che righe: la sua partenza da Vienna, salvata poco prima dall’assalto dei Turchi; l’epidemia di peste che colpisce l’esercito; l’ammutinamento di una guarnigione italiana, lasciata a difesa del territorio austriaco; il

12 Ibidem. 13 Ivi, p. 190. 14 Ibidem.

condo incontro poco fruttuoso con il papa Clemente VII, avvenuto a Bologna; il ricongiungimento con l’imperatrice a Barcellona, dopo quattro anni di assenza15. A Bologna Carlo V aveva incontrato anche Tiziano, della cui arte tanto si sarebbe compiaciuto poiché aveva la capacità di nobilitare artisticamente la sua immagine pubblica. Al 1533 risale, infatti, il magnifico ritratto Carlo V con un cane, che rein-terpreta un precedente ritratto ideato e dipinto da Jacob Seisenegger. Era stata così soddisfatta una richiesta dell’imperatore, che però non include tali vanità nelle sue Memorie.

Lo stile del testo rimane uniforme fino quasi alla fine, con l’eccezione delle guerre di Germania (1546-1547), che per Carlo V realizzano il sogno di unificazione religiosa dei territori dell’Impero. Solo a questo punto la diegesi delle sue Memorie si espande, cede a una narrazione più varia e moderatamente appassionata. Per esempio, si metta a confronto questa parte del testo dell’imperatore con il Co-mentario de la Guerra de Alemania hecha por Carlos V, máximo em-perador romano, rey de España, di Luis de Ávila y Zúñiga, un altro dei cronisti ufficiali che in questo caso aveva il privilegio di essere davvero un testimone oculare e che seguì l’imperatore anche a Yuste, nel tempo del declino. Limitatamente a queste guerre, fra la testimo-nianza di Luis de Ávila, subito pubblicata a Venezia nel 1548, e quel-la di Carlo V, che parrebbe composta due anni dopo, le differenze sal-tano all’occhio. Da un lato il cronista ossequia l’imperatore lodando in modo ricorrente e topico il suo operato virtuoso e straordinario, che paragona a quello di Cesare e Carlomagno. Dall’altro, lo riverisce con la non meno topica consegna del silenzio, un’autocensura che gli fa scartare dalle proprie pagine qualunque ombra che possa offuscare l’immagine del supremo esecutore dei disegni della provvidenza divi-na16. Così l’ideale del potere vaglia la verità e ne fornisce la versione più conveniente, secondo una pratica socialmente condivisa.

A questo punto l’indagine comparativa finisce per andare a tutto vantaggio delle Memorie, il cui protagonista e narratore appare – per differenza – umanissimo. Oltre a descrivere accampamenti e trincee brulicanti di soldati, oltre a indugiare su battaglie e scaramucce fra le rive del Danubio e dell’Elba, Carlo V si vanta della sua lungimiranza strategica per smussare alcuni errori tattici; oppure ammette qualche

15 Ivi, p. 206.

16 L. de Ávila y Zúñiga, Comentario de la Guerra de Alemania hecha por Carlos V,

máximo emperador romano, rey de España, en el año de MDXLVI y MDXLVII.

umiliazione per sottolineare la condotta di alleati poco limpidi. In-somma non confonde la propria forza, di cui va molto fiero, con l’onnipotenza che gli attribuiscono i cronisti imperiali, benché ai po-steri sia chiaro che egli misurò per difetto le intenzioni sia degli av-versari che dei sostenitori. Per esempio, il cronista Luis de Ávila si guarda bene dal riferire che Paolo III decise di ritirare le truppe ponti-ficie di stanza a Ulm, all’inizio del 1547. Era un affronto che blandiva di fatto non solo il re di Francia, nemico di Carlo V, ma che benefi-ciava gli eretici protestanti. L’imperatore tenta inutilmente di evitare il danno. Alla fine lo subisce e ne scrive:

E por mais que o Emperador instou que tal não fizesse e que quisesse ter parte na honra da victoria, o não quis ouvir, e assi os d[ichos] Ita-lianos se foram. E achandose sua Mag. Confuso de ver de huma ban-da que mal podia dividir suas forças e ban-da outra que sua saude pedia cura, estava em duvida ao que devia accodir17.

Ammissioni del genere hanno rilevanza dal punto di vista di una scrittura autobiografica che si stava facendo strada fra convenzioni e istituzioni di tutt’altra natura. L’eredità letteraria del passato e l’intransigenza ideologica del presente stavano ingessando l’espressione di ogni contenuto fattuale entro griglie anacronistiche. Oggi gli storici, che sono i naturali specialisti di queste Memorie, badano fondamen-talmente ai contenuti, e con ragione dal punto di vista della loro disci-plina. Ma passaggi come questi rappresentano delle novità destinate a emergere in modo duraturo nell’ambito della rappresentazione biogra-fica e autobiograbiogra-fica. La concezione del discorso destinato a esprime-re la verità sta cambiando. È in corso un conflitto fra le esprime-regole del de-coro comunicativo e le spinte a raccontare l’esperienza senza sotter-fugi. Non si deve dimenticare che la partigianeria era la regola, non l’eccezione. Malgrado le rituali rivendicazioni di attendibilità da parte dei cronisti, legate alla loro presenza fisica sul luogo degli avvenimen-ti o almeno al giusto vaglio dei resoconavvenimen-ti dei tesavvenimen-timoni oculari, si fini-va per avere il panegirico o il vilipendio. Il fatto che il protagonista delle Memorie, pur consapevole del proprio ruolo, metta per iscritto certe sue debolezze politiche non era contemplato da alcun canone, mentre era ovvio che ciò rientrasse nelle prerogative degli oppositori. È dunque in gioco la nascita di un soggetto nuovo, imprevedibilmente sincero.

17 A. Morel Fatio, op. cit., pp. 313-314.

Nel documento S EMANTICHE DELL ’I MPERO (pagine 116-124)

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