fingo, Gabriel Tarde avanzava l’ipotesi, per nulla finzionale ma molto funzionale, che «se [la filosofia] fosse stata fondata sul ver- bo Avere [invece che «sul verbo Essere, la cui definizione sem- brava la pietra filosofale da scoprire»], si sarebbero evitati molti dibattiti sterili e molte stagnazioni dell’intelligenza (c.m.)»2.
Apparentemente una boutade, l’ipotesi tardiana rappresenta invece un vero e proprio cambio di scena, se solo ci si provasse a riscrivere l’intera storia della filosofia nell’ottica neg-ontologica. Oscillante tra la sostanza e l’azione, tra la giunzione e la disgiun- zione, l’“Essere”, sedicente fondamento, ha finito – disperdendosi da un lato nella multivocità del dicibile ma irrigidendosi dall’al- tro nell’univocità di un sempre-uguale-intatto-significato – col ristagnare nel suo seno, diventando così, da pietra basilare dalle molte virtù, la pietra d’inciampo su cui battendo la testa è andata a cadere l’ostinata capacità del nostro intelligere di cogliere la vis entificante capace di esprimere le molteplici virtualità dell’Essere.
1 G. Tarde, L’opinione e la folla, tr. it. di R. Conforti, La città del sole,
Napoli 2005, p. 186.
2 G. Tarde, Monadologia e sociologia, in Id., Credenza e desiderio, a cura
e con Introduzione di S. Prinzi, tr. it. di S. Prinzi, F.C. Papparo, Cronopio, Napoli 2012, p. 150. Di Monadologia e sociologia esiste anche la tr. di F. Do- menicali, per Ombre Corte, Verona 2013. Su questo passaggio cruciale della riflessione di Tarde, è d’obbligo rinviare alle pagine di G. Deleuze, La piega.
Che cosa intendesse mettere in evidenza Tarde proponendo la sostituzione di Avere al posto di Essere, o meglio ancora, ripor- tando l’Essere all’Avere, non era tanto, o solo in prima battuta, la ‘spiegazione’ di-del Tutto attraverso le proprietà invece che con le entità, giacché su questa ‘abilità’, propria della scienza in oppo- sizione alla filosofia, egli vedeva già chiaramente, ne «l’uso» fatto dalla scienza «del rapporto proprietà-proprietario», «l’abuso» di interpretare «la vera proprietà di un proprietario» riducendola all’univocità astratta di un possesso assolutamente irrelato3.
Ciò che stava a cuore a Tarde nel proporre, al posto «del principio, io sono [...] il postulato “Io ho” come fatto fonda- mentale (c.m.)», è tutto racchiuso in un semplice ma decisivo ‘dato’. Quand’anche fosse possibile, dal principio: «io sono» si può dedurre solo la mia isolata esistenza e niente (di) altro; dal postulato: «io ho», discende invece l’inequivocabile compresenza, l’inseparabile ‘datità’ di un avuto e un avente, sicché, al posto di un’«opposizion[e] infecond[a]»: essere/non essere, io/non io, per via dell’Avere si schiude la dimensione dei «correlativi autentici»4,
una dimensione che coinvolge e riguarda l’intero Essere. Detto altrimenti: con l’Essere, quale sostanza immobile, me- dio non mediabile quantunque copulante, si può solo dare o ‘di- scesa’, per degradazione-separazione, dall’Uno ai Molti o ascesa, per purificazione-indiamento, dai Molti all’Uno; in effetti e a tut- ti gli effetti, solo una verticale erezione o un abissale sprofonda- mento, che taglia via – mano mano e costantemente che l’Uno, immobile, avanza, o viceversa, ma sempre immobile, si riprenda la propria ‘sostanza’ – la correlante orizzontalità, l’“autentica” dimensione dell’esistenza: essere una coesistenza, in una parola: la società dei molteplici-uno ritmicamente correlati.
Niente altro che questo, vuole e a niente altro che a questo, mira la sociologia monadologica di Tarde, autodefinibile con i suoi stessi termini, e definiente al tempo stesso l’oggetto princip(i)ale della sua riflessione: la società, come «il possesso reciproco, sotto forme estremamente varie, di tutti mediante ognuno»5.
3 G. Tarde, Monadologia e sociologia, cit., p. 151. 4 Ivi, pp. 150-151.
Di conseguenza, Tarde non poteva fare e contemporanea- mente però che due ineludibili ‘mosse del cavallo’ rispetto a due pensatori che avevano entrambi pensato la questione cardina- le dell’essere-un-uno, dell’essere-individuo: Leibniz, da un lato e Rousseau, dall’altro.
1) Accettando la monadologia, egli non può, però, e proprio in virtù di quel passaggio dall’Essere all’Avere, che disserrare le monadi, renderle completamente, ovvero ‘consapevolmente e in-consapevolmente’ (per via di credenza e desiderio connesse- a imitazione e invenzione), aperte-esposte, dotate quindi di por- te e finestre, perché avide non di semplicemente ‘stare’ ma, nella distanza singolarmente molteplice e molteplicemente singolare del proprio esistere, di non-poter-non co-esistere6.
2) Distanziandosi da Rousseau, quanto al ‘fatto’ della neces- sità di pensare, nell’e-ducare il singolo, una “coppia” generati- va, posta al limite del passaggio dal naturale al sociale, che nel proporsi «il più alto punto possibile di autonomia individuale, riteneva [tuttavia] necessario un regime di solitudine, peraltro incompleta, di solitudine a due, del Maestro e del Discepolo, interamente ipnotizzante [per il discepolo]»7.
Quel che ne esita, sia rispetto all’uno come all’altro autore, quanto a discrimine peculiare del proprio pensiero rispetto ad altre versioni, e monadologiche e relazionali, è un punto, anzi il punto chiave dell’intera riflessione socio-filosofica tardiana: la possibilità di pensare il ‘fatto’ società, la ‘natura’ del legame so- ciale fuori della antinomia Uno-molti, che, riflessa sull’“oggetto- società”, comporta, d’un lato, la disintegrazione-dissoluzione del «fatto elementare», vera e unica cellula germinale costituente l’oggetto stesso: «l’associazione a due», di ogni fatto e /o legame sociale e perciò stesso, dall’altro, l’impossibilità, una volta saltata questa fattualità costituente, della ‘com-prensione’ dell’oggetto- società, «giacché tutte le fasi successive sono solo la ripetizione»8
di quella ‘prima’ coppia. O, come dice in maniera ancora più chiara nel seguito del passo:
6 Si vedano, in sequenza in ivi, le pp. 110-111; 121; 159. 7 G. Tarde, L’opinione e la folla, cit., p. 187.
...a misura che l’associazione si accresce con l’aggiunta suc- cessiva di neofiti, questa distinzione [sc: quella, «più o meno palese o nascosta (in ogni coppia), tra il suggestionatore e il sug- gestionato, (una distinzione, precisa Tarde) di cui del resto si è tanto abusato], che non cessa di prodursi: questa pluralità (pluriel), in fondo, non è mai altro che un grande duel (duale/ duello), e, per numerosa che sia una corporazione o una folla, essa è sempre una sorta di coppia, in cui ora l’uno è sugge- stionato dall’insieme di tutti gli altri, suggestionatore collettivo che comprende l’agitatore (il trascinatore, le meneur) dominan- te, ora il gruppo intero viene suggestionato da quest’ultimo. In quest’ultimo caso, la suggestione è rimasta unilaterale; nel primo caso è divenuta, in gran parte reciproca; ma in sé stesso il fatto non è cambiato.9
2.
All’origine del ‘sociale’, – ma un’origine, si badi, che continuamente fattualizzan dosi in quella che è la ‘cel- lula’ «dell’iniziazione sociale, [la] famiglia]»10, perde in que stamaniera il carattere di astratto punto di scaturigine dall’immota ‘mobilità di un Uno-Identico che ‘butta fuori’ la molteplicità degli enti pur essendo posto fuori del processo iniziatore-ge- nerativo11 – all’origine c’è e va posto l’«elementare-elementale»
factum del duel (duale e duello, insieme), ovvero della compo- sizione attiva perché sorta dall’azione reciproca dell’uno sull’altro- uno, dell’uno dentro l’altro-uno, per rendere ra gione dell’intrec- cio ‘societario’, o meglio ancora: del «possesso reciproco, sotto forme estremamente varie, di tutti mediante ognuno»12, che è la
definizione tardiana per eccellenza di società.
Ma dentro questa versione del fatto sociale che afferma, ol- tre e contro una molteplicità slargata e anonima: l’istituzione, la coppia, il duale, – una coppia e un duale «necessariamente in origine» articolantesi come un rapporto unilaterale e irreversibile (e
9 Ibidem (tr. leggermente modificata).
10 G. Tarde, Che cos’è una società?, a cura di A. Cavalletti, Cronopio,
Napoli 2010, p. 41.
11 Si veda in Monadologia e sociologia, cit., la critica sferzante all’ipotesi
di «un’identità primordiale» dalla quale con una “prodigiosa improbabilità” e un “inesplicabile mistero” tutto discenderebbe, p. 137.
qui vale e funge da parametro la ‘visione’ familistica-patriarcale da Tarde sostenuta quale modello primigenio di «ogni società»13)
– quale ‘posto’ occupa, a partire dal tratto inaugurale dell’unilate- ralità, la ‘successiva’, e connotante in alto grado «la nostra civiltà contemporanea ed europea»14, disposizione reciprocante (prodro-
mica a ogni ‘discorso’ e ‘pratica’ egualitari) che copre la ben più robusta radice ‘imitativa’-‘subordinante’? E insieme, cosa ci porta a pensare l’«autonomia individuale», «questa grande illusione egocentrica»15, nascente dalla lusinga di pensarsi e «essere meno
creduli e meno docili», e nella presunzione di dirsi e darsi come degli Io autocostituentesi fuori e contro qualunque ‘momento’ e ‘movimento’ unilaterale e imitativo, esseri che si sono finalmente e definit(iv)amente risvegliati dal sonno dogmatico16, assumendo
la divisa kantiana di un ‘io’ moralmente responsabile e perciò stesso non eterodiretto?
Insomma: se l’intento tardiano, contra Durkeim, è, com’è noto, da un lato, la preminenza dell’individuale e dall’altro, ma simultaneamente, il riconoscimento di un ‘duale’ come tratto distintivo del sociale, qual è il posto e la posizione singolare della differenza individuale, stabilito che per Tarde l’individuale è sem- pre già sociale, l’uno è sempre già duale?
Per rispondere a tale questione, ovvero per meglio compren- dere la peculiarità dell’individuale tardiano (definito, lo vedremo a breve, con un’espressione molto icastica), vale la pena, stabilita la preferenza, diciamo così, tardiana per il pensiero monadolo- gico leibniziano – un pensiero retto da queste due proposizio- ni radicali: a) «...ciò che non è veramente un ente non è neppure veramente un ente»; b) «il plurale presuppone il singolare e là dove non c’è un ente, ancor meno ci saranno molteplici enti»17
–, chiedersi il ‘perché’ del rilievo, molto pungente, che ne L’opi-
13 G. Tarde, Che cos’è una società?, cit., p. 41. 14 Ivi, p. 40.
15 G. Tarde, L’opinione e la folla, cit., p. 185 16 Ivi, p. 49.
17 G.W. Leibniz, Carteggio con Arnauld, in Id., Scritti filosofici, 3 voll. a
cura di M. Mugnai e E. Pasini, Utet, Torino 2000. Le frasi della lettera (30 aprile 1687) citate si trovano nel 1° volume, alla p. 356 .
nione e la folla (ma anche altrove) Tarde muove a Rousseau, un pensatore che della questione dell’“individuale”, nella sua estre- ma singolarità, aveva fatto, indubbiamente, il suo assoluto, ma che, contemporaneamente, riteneva e riconosceva altrettanto essenziale la ‘tensione’ comunitaria dell’individuale.
Perché, insomma, Tarde esprimeva, in modo perentorio, un simile giudizio: «Rousseau voltava le spalle alla realtà [... e] il suo Emilio è la personificazione, e anche la confutazione, per assur- do, dell’individualismo proprio del suo tempo. Se la solitudine è feconda, anzi la sola condizione veramente feconda, ciò è dovu- to al fatto che essa si alterna a periodi di vita ricchi di relazioni, esperienze e letture, di cui è la meditazione»?18.
Occorre aggiungere che un simile giudizio non era nuovo. Tar- de aveva, infatti, già dedicato, in un testo giovanile, uno studio, sintetico ma accurato al pensiero roussoviano, uno studio volto a cogliere il chiaroscurale della figura e degli scritti del ginevrino, nell’intento di mettere in evidenza, partendo dalla ripresa di una frase di Goethe a Eckermann («Genio e fecondità sono due cose molto vicine in realtà»), che la ‘peculiare’ «superiorità intellettua- le» (il genio e la follia, insieme) di Rousseau, una superiorità posta da Tarde in relazione oppositiva a quella di Voltaire, sia stata in ef- fetti, dall’inizio alla fine della sua avventura intellettuale ed esisten- ziale, volutamente declinata da Rousseau, e di fatto minata infine, dall’aver consentito ad assegnare, «a una potenza dell’anima, la sensibilità» in contrasto con la ragione (la roussoviana “riflessione”), una centralità eccessiva, tale, scrive Tarde, che «l’intera sua vita è spiegabile con l’eccesso di uno stesso bisogno: l’imperiosa sete d’indipendenza e di solitudine» e che «la sua pratica più costante, come pure la sua massima più cara, furono quelle di vivere per lui stesso e in lui stesso, e il meno possibile in altri». In sintesi, di «vivere a margine della sua epoca e quasi isolato», facendo di questo criterio, insieme intellettuale e vissuto, «il centro costante e inalte- rato» della sua intera esistenza. In linea con questa «critica impar- ziale», e in disaccordo assoluto con il ‘genio infecondo’ di Rousseau, perché foriero, nella sua infecondità, un simile genio, solo di uno
‘splendido isolazionismo’ e di un talento a rendere “malheureuse” l’esistenza (la sua innanzitutto), Tarde concludeva il proprio stu- dio, già allora, con una chiosa ferale: «Son venin, oserais-je dire, agit encore, et sa chair ne nourrit plus (c.m.)».19