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Il montaggio nella scena di seduzione

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. Introduzione

Alcuni film hanno contribuito più di altri a formare una certa idea di se- duzione canonica, secondo la quale, attraverso la messa in atto di precisi schemi, si giunge a un esito generalmente positivo. Se questo è vero, qui cercheremo di capire come — e se è possibile che — gli strumenti e gli espedienti propri del linguaggio cinematografico vengono assoggettati al- le esigenze narrative (il racconto di seduzione), e quindi usati in maniera di volta in volta differente a seconda della piega che desidera prendere il racconto. E lo faremo attraverso l’analisi comparativa di due casi, che qui funzionano reciprocamente come microuniverso di riferimento

. In Love Story(Hiller, ), una seduzione riuscita conduce alla più classica delle storie d’amore; in Ecce Bombo (Moretti, ), una seduzione fallimentare ostacola l’avvio della relazione sentimentale tra Michele e Flaminia. In altri termini, cercheremo di capire come le strutture espressive della narrazione cinematografica vanno a intrecciarsi e sovrapporsi a ciò che viene narra- to, a sostegno o a impedimento dell’azione. Di conseguenza, ritornando alla premessa iniziale, diremo non più che alcuni film hanno contribuito a formare il cliché della scena di seduzione, bensì che un certo modo di concertare il materiale narrativo è stato funzionale al raggiungimento del- l’obiettivo narrativo e che ciò ha contribuito indirettamente, in alcuni casi, alla formazione di uno stereotipo della scena di seduzione. Si profilerebbe così l’ipotesi di una corrispondenza tra concatenazione espressiva del film e procedere del racconto di seduzione sul piano contenuto.

Se entrambi i film sembrano dunque interrogare la materia filmica strumentalmente a quello che intendono narrare giungendo però, come vedremo nel dettaglio, a due conclusioni, sia in termini di soluzioni espres- sive sia in termini di esiti narrativi e seduttivi, differenti, infine si vedrà

Università degli Studi di Torino.

. Questo articolo trae spunto da due capitoli della tesi di dottorato La scena di seduzione al cinema. Strategie autoriali e rappresentazioni stereotipeche ho scritto sotto la direzione del professor Ugo Volli, e che ho discusso presso l’Università di Torino nel . In quella sede analizzavo le scene di seduzione di cinque film, ognuno dei quali rappresentava un modo diverso di rapportarsi al tema.

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come la dialettica tra cliché e sua messa in discussione possa racchiudere in sé il germe della dinamica oppositiva tra rappresentazione codificata e reinterpretazione in chiave autoriale del medesimo tema

. Se la scena di seduzione è il topic, il modo di risolverla ne rappresenterà il relativo focus

. Ci si sposta gradualmente verso questioni di poetica cinematografica, dall’intento intrinsecamente barthesiano ():

Credo che prima bisognerebbe lavorare sulla sola immagine e prendere i casi più grossolani di significazione, cioè gli stereotipi. Si potrebbero prendere certi film commerciali e rivelarvi i “connotatori”, questi segni simbolico–culturali; si potrebbe redigerne degli inventari, e dopo forse ci si vedrebbe più chiaro. Allora si potrebbe stabilire una sorta di retorica del film; retorica nel senso quasi peggiorativo, cioè quell’enfasi stereotipata dei messaggi, e solo in un secondo tempo si potrebbero abbordare i film devianti rispetto a questo codice retorico. Ho visto uno dietro l’altro L’uomo di Rio e Il silenzio di Bergman; è evidente che è molto più difficile analizzare sul piano retorico Il silenzio di Bergman che non l’altro film. In Berg- man infatti la retorica, intesa come insieme di segni stereotipati, è continuamente combattuta, sviata, distrutta, spesso del resto a vantaggio di un’altra retorica, molto più individuale e sottile. Si può quindi pensare sin d’ora che l’analisi semiologica sboccherà un giorno in un’estetica (p. ).

Ne emergerebbe quindi un’estetica della seduzione cinematografica, dove la fluidità espressiva finisce per saldarsi a una fluidità sul piano del contenuto e viceversa, e dove le seduzione tra i personaggi e quella nei confronti dello spettatore si scambiano di posto in un continuo gioco di rispecchiamenti reciproci.

. Love Story: l’amore riassunto

Provando a immaginare una scena di seduzione classica in ambito cine- matografico, con molta probabilità riusciremmo a figurarci due soggetti che basano la loro interazione su un perfetto equilibrio tra implicito ed esplicito, dove la complicità reciproca non è mai completamente dichiarata, quanto piuttosto lasciata intendere. Penseremmo a due corpi posizionati a una distanza (virtuale o fisica) ben calibrata, entrambi disponibili (aperti alla seduzione), che pronunciano le frasi giuste, mentre è chiaro a tutti e due che qualcosa sta avvenendo (o nascendo), e che parallelamente ciò avrà delle ripercussioni sul proseguimento della narrazione. A questo proposito Carotenuto () sostiene che:

. Sulla dialettica banalità/originalità si veda B, . . Sul rapporto topic/fucus nei film, si veda F, S, .

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Il fascino della seduzione è sempre obliquo, misterioso, fatto di accenni più che di messaggi espliciti, di sapiente movimenti evasivi rispetto ai desideri dell’altro più che di evidenti strategie di approccio. Siamo alle prese con un’abilità affine a un’arte, con un’ambivalenza affascinante che può sfiorare la perfezione o somigliare a certe forme di ascesi (p. ).

Alla luce di ciò, vediamo dunque cosa succede nel primo film preso in esame.

Un ragazzo va a cercare un libro nella biblioteca dove lavora una ragazza:

Lui: Avete mica L’autunno del medioevo?

Lei: E voi non ce l’avete alla vostra biblioteca, preppy? Lui: Ti dispiace rispondere alla mia domanda? Lei: E perché non rispondi alla mia prima?

Lui: Guarda che noi siamo autorizzati ad usare la vostra biblioteca.

Lei: Io non ne faccio una questione di legalità, preppy, ma solo di etica. Dopotutto la Harvard ha cinque milioni di libri, la Redcliff ne ha poche luride migliaia. Lui: Io ne voglio uno solo e, scusa tanto, potrei sapere il perché di questo “preppy”? Lei: Perché avrai fatto la Prepp School, quella dei figli di papà.

Lui: Perché sei così sicura che venga da un Prepp School? Lei: Perché hai l’aria stupida e ricca.

Lui: E invece sono intelligente e povero. Lei: No, no. Io sono intelligente e povera. Lui: E perché ti credi intelligente?

Lei: Perché non verrei mai a prendere un caffè con te. Lui: Guarda che io non te l’ho offerto!

Lei: Lo vedi? Te l’ho detto che sei stupido.

Stacco. Nella scena successiva sono al bar. Una volta fuori, passeggiando lui le dice che è stato ammesso a sostenere l’esame di Scienze Sociali.

Lei: Senti preppy, l’ho capito che un po’ di cervello ce l’ hai. Lui: Su serio?

Lei: Certo. Hai preso una cotta per me, no?

Adottando un atteggiamento provocatorio che mira a sollecitare le corde dell’interesse di lui, la ragazza dà avvio a una strategia di seduzione che corrisponde a una richiesta di corteggiamento. Ne viene accontentata perché nel giro di poco il ragazzo la inviterà a rivedersi. È l’incipit di Love Story.

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Nella seduzione canonica, al termine della scena, ci si attende che l’uomo chieda un nuovo appuntamento alla donna, ottenendolo. Mentre viene mes- sa in atto questa intrigante guerriglia è già tutto chiaro, sia allo spettatore, sia ai personaggi. Il dialogo, impeccabile, è sorretto da battute che non lasciano trapelare esitazione (come dire che non conoscono esprit d’escalier) dando il ritmo allo stesso montaggio. Le frasi sortiscono reciprocamente l’effetto giusto, quello sperato (dalla sceneggiatura, dai personaggi, e dagli spettatori) e si incastrano procedendo fluidamente a sostegno di una narrazione che a sua volta scorre senza impedimenti espressivi, propedeuticamente allo svi- luppo della storia d’amore che sarebbe iniziata di lì a poco. Conformemente ai presupposti, infatti, la loro relazione prende avvio; quindi prosegue a gonfie vele. A testimonianza di ciò, qualche scena più tardi parte un rac- conto marcatamente ellittico, dalla forte impronta didascalica, che mostra immagini “riassuntive” del loro amore, emblematiche di un tempo vissuto felicemente: fanno l’amore, corrono sulla neve, si abbracciano teneramente. L’accompagnamento musicale gioca il suo ruolo decisivo nell’amalgamare le scene tra di loro. La cronistoria del loro amore si sviluppa così attraverso e nei (grazie a) numerosi tagli di montaggio, funzionali anche a dare la misura dei mesi che trascorrono in armonia. Dal punto di vista della comprensione spettatoriale, naturalmente la cosa non desta stupore perché, come ricorda Morin ():

Il cinema [. . . ] espurga e frammenta la cronologia; esso accorda e raccorda i fram- menti temporali secondo un ritmo particolare che è, non quello dell’azione, ma quello delle immagini dell’azione. Il montaggio unisce e ordina in una continuità la successione discontinua e eterogenea delle inquadrature. È questo ritmo che, partendo da serie temporali minutamente frazionate, ricostruirà un tempo nuovo, fluido (, p. ).

Il montaggio ci ha abituato cioè a recepire la discretizzazione da esso operata in un senso fluido, anche se va a coprire, come in questo caso, un lasso di tempo piuttosto ampio, perché «ciascuna scena in un buon film deve essere organizzata nella sceneggiatura in modo che tutto quanto è necessario, e soltanto quanto è necessario, abbia luogo nel più breve tempo possibile» (Arnheim, , p.). Come nella prima scena abbiamo compre- so, grazie alle «sceneggiature intertestuali» (Eco, ), che fosse iniziata la seduzione reciproca tra i due, così grazie alle stesse conoscenze, sappiamo ora che il riassunto del tempo passato va nella direzione di un consolida- mento del sentimento. L’ellissi si pone come espediente cinematografico che autorizza lo spettatore a giungere al significato per inferenza: quello che si eluso è ciò che poteva facilmente a immaginare: altra felicità. Le scene selezionate appaiono depositate in quell’immaginario collettivo che, allo stesso modo dello stereotipo, tende alla “semplificazione” (come sostiene

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Wunenburger, : «Stereotipo o cliché è un’immagine che equivale a una rappresentazione impoverita, standardizzata del suo contenuto», p. ), dunque all’immediatamente intellegibile: correrei felici equivale ad amarsi. Nel corso delle scene che si collegano tra di loro sembra esserci quello che Barthes () definirebbe un brusio di sottofondo, «l’evaporazione stessa del rumore»:

Il brusio viene dunque dalle macchine felici. Quando la macchina erotica, imma- ginata e descritta mille volte da Sade, agglomerato “pensato” di corpi i cui luoghi d’amore accuratamente accordati gli uni agli altri, si mette in moto, per i movimenti convulsi dei partecipanti, palpita ed emette un leggero brusio: insomma, funziona, e funziona bene. Altrove, quando i giapponesi di oggi si dedicano in massa, in grandi sale alle slot machines [. . . ], gli ambienti in questione sono pieni di dell’enorme brusio delle palline, e tale brusio significa che qualcosa, collettivamente funziona: il piacere (per altri versi enigmatico) di giocare, di muovere il corpo con precisione (p. ).

Il racconto arriva a noi come un marchingegno che funziona bene, da cui non fuoriescono défaillances: ci si seduce nella prima scena, ci si innamora e infine ci si ama nello “spezzettamento” del continuum espressivo, in una contrazione narrativa (Volli, ). Personaggi e testo sono interscambia- bili dando luogo alle medesime dinamiche. Come “nel” film la seduzione perfetta procede attraverso l’alternarsi calibrato tra mostrare/nascondere (Carotenuto), così sul piano del linguaggio “del” film ci viene mostrato “poco e bene”. Come Volli (, ) ha sostenuto: «Spesso la strategia della seduzione ottiene questa presenza mentale per via dell’assenza fisica, di un non essere, di un’indisponibilità. È Albertine fuggitiva, è lo sguardo che spunta dietro il ventaglio o la gelosia. È l’assenza stessa della star ci- nematografica». Tagliare vuol dire togliere, e cioè mostrare di meno. La “difficoltà” del corpo si perde nei tagli di montaggio, ne viene risucchiata a favore di un seduzione perfetta, ma evanescente. Ancora Volli (ivi. p. ) afferma che: «L’Elena di Goethe è illlusoria ed efficace almeno quanto quella di Euripide. Quando Faust prova ad abbracciarla, le sue mani stringono il vuoto» (corsivo mio). È solo in questo modo che — sottraendosi in primo luogo allo spettatore — la “love story” può cavalcare senza impedimenti verso la conclusione, ancorché drammatica

.

. È senz’altro vero che se intendiamo il film in senso procedurale, come suggerito da Ferraro (), si potrebbe obiettare che al film interessava raccontare la morte dell’amata, ed è per questo che ha sorvolato sul consolidarsi del rapporto sentimentale. Ciò non inficerebbe tuttavia la pertinenza della rappresentazione della seduzione, giustificata del resto dal titolo del film: tanto era grande la storia d’amore, quanto sarà grande il dolore.

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. Michele e Flaminia o dell’insistenza della singola scena

Se «il fascino della seduzione — stando a Carotenuto — è sempre obliquo, misterioso, fatto di accenni più che di messaggi espliciti», Moretti a tutto ciò contrappone l’immediata disponibilità, la cronaca fedele e dettagliata dei suoi sentimenti, e il testo ne risentirà nel suo significare complessivo; se in Love Story si lavorava per assenza, qui al contrario si ritrova un eccesso di presenza. Per conquistare (o forse no? lo vedremo in conclusione) la donna di cui è innamorato, Michele decide di “narrare” un desiderio preso “nel mentre” delle sue dinamiche altalenanti tra il mostrare e il nascondere («vorrei fare l’amore con te, mi imbarazza dirlo, però lo dico»). A differenza di Love Story dove la discretizzazione a carico del film decide di lasciar sparire nei tagli di montaggio ciò che non “conveniva” mostrare al fine di una seduzione vincente, qui il continuum espressivo, restituito dall’estenuante durata della scena, fa il paio con l’esternazione pedante dello stato d’animo del protagonista, nell’arco di tempo ininterrotto della sua messa in scena, che, non fornendo all’amata la possibilità di un fraintendimento (Volli, ), ne risulterà infine penalizzata.

Michele e Flaminia si trovano in quella che sembra la stanza di un appartamento. Flaminia è sul letto, Michele ai piedi di questo. Il ragazzo dà avvio alla sua confessione:

Lui: Ti devo dire una cosa. Lei: Dimmela.

Lui: Sì, ma mi imbarazza.

Lei: Prima mi dici che mi devi dire una cosa e poi non me la dici? Lui: È peggio.

Lei: Ma che vuol dire “è peggio”?

Lui: È peggio. Non sono contento di come sono fatto, avevo pensato a questa cosa e invece di lasciar perdere continuo. . .

Lei: Che cos’è questa cosa?

Lui: Niente, era che mi andava di fare l’amore con te. Lei: Hai visto? L’hai detto. Hai fatto tante storie. Lui: Non lo dicevo perché pensavo fosse impraticabile. Lei: Lo potevi dire subito.

Lui: Mi imbarazzava.

Lei: Adesso che l’hai detto, sei imbarazzato?

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Lei: Beh, penso di sì.

Lui: Beh penso di sì. No, non lo so.

Lei: Se l’avessi detto subito, potevamo benissimo farlo, ma adesso non capisco, hai fatto tutte queste storie, non capisco cosa c’è sotto.

Lui: Cosa c’è sotto?

Lei: Non lo so, lo domando a te se c’è un motivo. Lui: Il motivo è in se stesso, e poi con te sto bene.

Lei: Ma che stai bene? Ci siamo visti una volta e già dopo un’ora te ne saresti scappato. Già comunichiamo così poco, figuriamoci facendo l’amore.

Lui: Non so se c’entra sai? Vabè, ormai ne abbiamo parlato talmente tanto. Lei: Però non capisco il vero motivo.

Lui: E te l’ho detto.

Lei: Se c’è un motivo allora non vedo perché sì, se non c’è un motivo non vedo perché no.

Lui: Come sì e no, non ho capito.

Lei: Se c’è un motivo per cui tu mi hai chiesto di fare l’amore. Se c’è non lo facciamo, se non c’è non vedo perché non dovremmo.

La scena si chiude sullo sguardo perplesso di Michele, che non riesce a interpretare le parole di Flaminia. Il suo atteggiamento passivo e contrad- dittorio rimette nella mani della donna ogni possibilità di decisione e di eventuale azione; la sua confusione la obbliga ad assumere la controparte maieutica del discorso. Ciò ha però come risultato quello di inglobare anche lei nella singolarità della dichiarazione amorosa, tanto da giungere a un capovolgimento dei ruoli. Da impassibile psicoterapeuta quale era stata fino a un certo punto, Flaminia finisce per complicare ulteriormente il dialogo, rendendolo assimilabile a una pratica burocratica («è impraticabile»). Solo in quel momento Michele diventa parte giudicante tra i due, rilevando final- mente il vero problema della loro interazione: i due cadono vittime “di” tra eccesso e intellettualizzazione e psicologizzazione («non lo dicevo perché pensavo che. . . ») di ciò che, per funzionare, avrebbe dovuto essere, se non un “fatto” di ordine fisico, quanto meno aderente a un copione da calibrare parcamente, con le parole giuste, poche ma buone (come succede in Love Story): dire meno, togliere, tagliare, accennare, alludere. La prestazione del corpo agitato procura a se stessa qui un’autosanzione che lo dichiara inade- guato, da un lato perché decide di seguire una “via teorica” che non si confà alla situazione, dall’altro perché sceglie di esplicitare tutte le contraddizioni interne al “racconto” di un approccio di seduzione. Il corpo si dimostra così incapace di sedurre e di essere sedotto. In conclusione sarà Michele

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che, iniziando a raccogliere i frutti della strategia sbagliata, ne suggellerà il fallimento («vabè, ormai ne abbiamo parlato talmente tanto»), tirando così in ballo nell’assunzione delle colpe anche la ragazza, che a sua volta, dopo essersi persa ella stessa nei labirinti delle parole, finisce per non cedere alle avancesdi Michele.

Cosa succede sul piano del linguaggio cinematografico? Come sostiene Montini (, p.): «Il cinema di Moretti è caratterizzato all’inizio da una ricercata semplicità: macchina fissa o quasi, narrazione segmentata e bre- vissima, quasi da comic stripes. Ciascun frammento è concluso in maniera spesso folgorante e imprevedibile». Se è così, vuol dire che i nodi al pettine di un montaggio poco conforme alle norme sintattiche, si fanno sentire. La sequenza presa in esame giunge infatti al termine di un concatenamento (montaggio) bizzarro di avvenimenti in cui le scene vengono accostate le une alle altre senza una ragione apparente, e si caratterizza anch’essa come ingiustificata dal punto di vista logico–consequenziale (propriamente, di sceneggiatura)

. Il film non fornisce, cioè, nessun appiglio alla creazione delle condizioni dell’incontro tra i due, che si ritrovano a parlare di argo- menti intimi dopo essersi conosciuti in appena due scene precedenti. A dimostrazione di ciò Flaminia chiosa con un «ci siamo visti una volta e già dopo un’ora te ne saresti scappato». A complicare il quadro, l’assenza di colonna sonora per la quale opta il film ha come effetto immediato quello di far emergere con più forza il silenzio

nel quale agiscono i personaggi che a sua volta non fa che sottolineare ulteriormente l’improvvisazione, l’irruenza quasi folle del gesto del protagonista. Se tagliare vuol dire togliere, le cose non tornano più. Gli stacchi di montaggio si rivelano per quello che sono: dei buchi, spazi inesistenti in cui nulla può davvero accadere, e la seduzione fallita ne è la conferma. In fin dei conti, proprio come avrebbe potuto essere in Love Story, se solo il film non avesse organizzato e restituito il suo mate- riale come un insieme armonico, girando il racconto a suo vantaggio (ai fini di ciò che intendeva narrare). Al contrario qui, come nota De Gaetano ():

La drammaturgia centripeta e frammentaria [. . . ] annulla e cancella ogni continuità e fluidità narrativa per concentrarsi sul corpo e sulle sue capacità di irradiare tensioni, nervosismi, isterismi, a discapito della fluidità del racconto, inteso in senso tradizionale (pp. –).

. Sulla narrazione a sketch dei primi film di Nanni Moretti, si veda tra gli altri, D B, Nanni Moretti, Castoro, ; Nanni Moretti, Paravia Garage, ; Nanni Moretti, (a cura di) G. Ranucci e S. Ughi, Dino Audino Editore, Roma .

. Un silenzio che «si fa strumento persuasivo fra gli altri, che cerca di fare “cose con le parole” o meglio con la loro assenza, che viene consapevolmente usato come uno strumento particolarmente potente nel gioco antagonistico del discorso», V, , p. .

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Fluidità dei racconto, qui diremmo nel doppio senso di “ciò che è rac- contato” e di “come lo si racconta”: in un primo momento un montaggio straniante introduce a una narrazione impossibile; in seguito, questa im- possibilità viene raccolta e confermata dal fallimento della scena successiva indagata nella sua insistenza. Laddove si sarebbe dovuto “tagliare”, si sceglie di “lasciar durare”. In questa direzione vanno anche Mazierska e Rascaroli () quando sostengono che la poetica di Moretti si caratterizza per un

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