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Una navigatio perigliosa fra letture e disletture Alcune premesse

Elisabetta Selm

1. Una navigatio perigliosa fra letture e disletture Alcune premesse

C

ontagio e contaminazione rappresentano i lemmi di una sfera semantica e metaforica intorno a cui si coagulano, con una ritualità quasi ossessiva, le funzioni simboliche e drammaturgiche, il codice genetico e i conflitti tragici dei μύθοι lungo cui si snoda, nella trilogia eschilea dell’Orestea, il grumo tremendo delle vicende della stirpe maledetta dei Pelopidi. È un archetipico «contagio di sangue», antropologicamente interpretato come figura di una comprensione psico-fisiologica e materiale della realtà, di un sentire ‘pre- filosofico’ – e si conceda, per ora, l’arbitrio di un termine da assumere certo più cautamente – in cui si associano e si metabolizzano differenti stadi culturali e livelli di esperienza, che il razionalismo della presunta civiltà (sia pur esso quello antico retorico, normativo e astraente della Poetica e della critica aristoteliche, o quello moderno intellettualistico o metafisico della separazione di mente e corpo) avrebbe poi trasposto e sublimato in τύποι e modelli teatrali, ricorrendo a griglie cognitive e formalizzanti di altra natura e, perciò stesse, conflittuali: un paradigma ermeneutico che riscosse un’indubbia fortuna nel segno di una «transtoricità» di vernantiana memoria. Una lezione antropologica, quella del Vernant, senza dubbio, ricca di molte suggestioni illuminanti,3 ma anche di discutibili filiazioni e derive in «letture parziali e parzialissime» – per citare le parole di un fine classicista –,4 in cui mostrano di replicarsi ad libitum, nella logica di un voler fare sistema, i limiti di una sostanziale idea di fondo che filtra la complessità della tragedia antica e delle sue concettualizzazioni attraverso la lente esclusiva di una ricerca volta ad inseguire le tracce e le esemplarità di categorie e schemi culturali preesistenti, mitici, tribali, irradiati da una mentalità magico-folklorico-sacrale di una tale forza pervasiva da introiettarsi anche nella più smaliziata coscienza del lógos tragico e dell’agone dialettico inscenati dalla drammaturgia ellenica e attica del V secolo.

A monte, per quanto riaggiornata da sempre più sofisticate esegesi, si profila nuovamente la ‘nostalgia delle origini’, la caccia al fantasma, non priva di tensioni ideologiche, dell’αρχή, dei fondamenti mitici, sacrali o ‘sensibili’, da cui mappare la storia del pensiero e dell’espressione umani entro la dialettica fra natura e civiltà. Una sorta, insomma, di circolo vizioso che fatica ad affrancarsi da presunzioni teoriche a vocazione totalizzante come da categorie passepartout. E la memoria critica va inevitabilmente a quelle tesi, altamente seduttive, ma non sempre ben tarate sul focus dei contesti tragici di riferimento,

dove l’eccesso comparatistico di criteri antropologici generalizzanti oscura la filiera e la specificità dei testi trattati, perdendo di vista i meccanismi strutturali e teatrali del dramma antico:5 come nel caso della categoria dell’«ambiguità»,6 ritenuta endogena, dei livelli conoscitivi della tragedia greca, della molteplicità dei ‘sensi nascosti’ da rivelare, dipendente dallo stratificarsi di nuovi modelli politici e giuridici su una dimensione più arcaica – che potrebbe, forse, calzare al sostrato del teatro eschileo, ma molto meno a quello degli altri capolavori tragici –; nonché del procedimento ‘per parallelismo’ e ‘per similarità’, del tipo riscontrabile nelle illustri pagine di Vernant sulla ‘zoppia’ di Edipo e dei Labdacidi,7 o degli studi di Vidal-Naquet sul Filottete sofocleo, letto nei termini di una scena dell’iniziazione efebica,8 nel disinteresse, invece, per quel linguaggio della sofferenza ‘fisica’ e della malattia su cui si giocherebbe la sfida innovativa di Sofocle.9 Lo ribadiva con acribia metodologica, già nel suo Sofocle degli anni Ottanta,10 Vincenzo Di Benedetto, puntualizzando come «il nesso tra antropologia e tragedia greca», benché riconosciuto nella sua essenzialità, per non ridursi in una battaglia di retroguardia contro «una concezione idealizzata, da terzo umanesimo, del mondo antico» o in una refrattarietà filologica a ricondurre il testo nel suo legittimo contesto sociale e storico, fosse «qualcosa di più specifico; e dovesse essere verificato in ciò che la tragedia ha di proprio come forma letteraria».11

Quando ci si inoltra in terre di frontiera, l’approccio ‘empirico’ verso l’oggetto d’indagine e la natura e l’identità fisica della sua testualità costituiscono una salvaguardia imprescindibile e una bussola per orientarsi in un esercizio di esegesi che intenda cimentarsi con materiali disomogenei, senza ricorrere a convinzioni aprioristiche.

Si è ben consci che attraversare il campo di un’inchiesta su ‘contagio’ e ‘catarsi’ in declinazione teatrale, in parte già arato per interessi settoriali rivolti alle loro singole occorrenze, alla lessicalizzazione, più che al legame di reciprocità, a quella rete allargata di relazioni in cui si ricombinano e si espandono i loro usi e significati primari, può rivelarsi un’impresa fatigante alla quale si oppongono non pochi ostacoli e perplessità di metodo e di prudenza critica. La pluralità dei saperi, chiamati in causa per una ricognizione che ambisca a tracciare il quadro genetico e di sviluppo, il contesto motivazionale ed ideativo in cui venne configurandosi, nelle forme della rappresentazione tragica (delle sue dinamiche drammaturgiche ed espressive), l’intersezione fra i figuranti culturali, i traslati letterari e metaforici del ‘contagio’ e la fraseologia della ‘catarsi’, è un territorio accidentato che spazia fra linguaggi dell’antropologia, della sapienza giuridica, della retorica, del teatro, ciascuno di per sé dotato di predeterminate finalità e di rivendicati orizzonti epistemologici, rispetto a cui la ricerca di un dialogo costruttivo, senza ambigue istanze prevaricatorie, stenta a ritrovare il suo equilibrio e la sua ‘ragion d’essere’, soprattutto nella parabola degli interrogativi che dal ‘classico’ si proiettano nei modi della ricezione classicistica.

Del resto, esitazioni e diffidenze si generano e si addensano già a partire dal tentativo di demarcare i confini, la genealogia, gli ambiti di designazione e di operatività in cui mostra di muoversi una categoria come la catarsi, sulla cui identità si sono spesi, sin dalla retorica classica, fiumi di inchiostro.