• Non ci sono risultati.

Noi, generazione senza infanzia: memorie di due fratelli

V. I capitoli

3.2 Noi, generazione senza infanzia: memorie di due fratelli

Issa187, è stato il primo interlocutore incontrato e quello privilegiato. Mi ha presentato alla famiglia del fratello Nicola, a quella di Maryam e alla “famiglia” acquisita della chiesa. Un uomo non eccessivamente alto, ma dalla corporatura importante, dalle mani grandi e dalle dita robuste, forgiate dal lavoro svolto fin dall’infanzia. La sua pelle olivastra e i tratti somatici piuttosto mediterranei non colpiscono quanto la profondità dello sguardo penetrante, specialmente nei momenti di sdegno e collera188, ma il carattere determinato e autoritario non nascondono l’immensa generosità e benevolenza, spesso espresse attraverso uno spiccato senso dell’umorismo che ha reso piacevole il lavoro svolto con lui e con la famiglia. Le memorie discusse apparterranno alle interviste individuali ed in alcune occasioni verranno integrate con quelle della moglie, fondamentali per fornire un quadro più completo delle vicende e dei punti di vista analizzati189. Spicca in Issa una forte capacità auto-narrativa, simile alla capacità oratoria dei politici e predicatori: soprattutto nel caso della prima intervista tesse e compone ricordi - accompagnati sempre da proprie considerazioni190 - creando un discorso lineare e perfettamente cronologico.

I ricordi analizzati appartengono all’età infantile, preadolescenziale e adolescenziale: tenere a mente ciò serve a cogliere aspetti della realtà a cui i minorenni erano esposti senza filtri e censure. Infatti, credo che il filo rosso che leghi la vita di Issa (specialmente quella

187 Sarà concesso uno spazio ampio alle memorie di Issa per due ordini di motivi: è stato intervistato più volte

rispetto agli altri (la convivenza ha reso più pratico sfruttare il tempo libero dell’interlocutore, grazie soprattutto alla sua enorme disponibilità) e per la sua predisposizione naturale al racconto.

188 È ben impresso nella mia mente quando, al quinto giorno di convivenza, dopo aver insistito ad aiutare nelle

faccende di casa o quant’altro, fissandomi negli occhi, abbia annunciato in maniera ammutolente e paralizzante che non avrei dovuto fare niente e che il discorso fosse chiuso per sempre.

189Non ho ritenuto opportuno e necessario ai fini del discorso di questa tesi - anche per scarsità di spazio –

analizzare le memorie di Julie separatamente da quelle di Issa, ma piuttosto ho trovato più utile fonderle.

190Per esempio, all’inizio della prima intervista individuale, subito dopo aver detto il luogo di nascita aggiunge

che il nome Issa - che significa Gesù -, è in Palestina il nome solitamente assegnato ai nascituri del mese di agosto (come nel suo caso) o del periodo di Natale, ossia in quei mesi dedicati alla venerazione della Madonna.

118 vissuta in Palestina) sia rappresentato dalla frase «io non ho mai avuto un’infanzia![…] Non ho ricordi di quando giocavo!» [Issa, intervista del 27/8/2016]191 o da quella che soleva sentire da piccolo «non sei piccolo, sei un uomo! Non puoi fare questo, sei un uomo!» [Issa, intervista del 27/8/2016] portando Issa a fare salti argomentativi, pur di sottolineare questo aspetto:

Issa: se fai qualcosa di sbagliato, vieni preso a schiaffi, non ti è permesso essere un bambino, non puoi fare errori… in quel periodo non potevo scherzare con mio padre, era sempre serio, lavorando, andava a lavoro dalle 4 del mattino fino alle 9 di sera, ora capisco perché era così, era stanco, veniva a casa per avere pace […] mio fratello più grande non lo guardava mai negli occhi per rispetto [Issa, intervista del 28/7/2016]192.

Gli aneddoti inerenti a bravate infantili si concludono tutti con ceffoni - soprattutto – paterni. Un modello di comportamento non condiviso, ma inscritto nel corpo al punto di riproporlo con i propri figli «per me era difficile capire come fargli vivere la vita come un bambino […] “Micha non farlo! Quello lo fanno i bambini! Tu non sei un bambino!” dicevo la stessa cosa che dicevano a me! e Julie mi diceva che era solo un bambino, di farlo vivere come un bambino» [Issa, intervista del 28/7/2016]. L’invadenza del passato nel presente è proporzionale all’invadenza delle responsabilità di cui viene investito Issa durante – e a causa di - la crisi sociale del pre-Intifada in cui l’adultizzazione, necessaria affinché i figli lavorino fin da piccoli, rende i bambini uomini troppo presto.

Issa: Quando avevo 13 anni stavo già lavorando […] vendevo dell’acciaio, perché producevamo viti […]che le persone compravano per gettarle nei campi e farle arrugginire, perché la ruggine dell’acciaio è utile per la terra […] a fine mese davo i soldi a mia madre per mantenere la famiglia, ovviamente mio padre lavorava ma non potevamo gravare solo sulle sue spalle, soprattutto nei tempi più difficili […] tutti noi dovevamo lavorare: mia mamma era un’operaia alla macchina da cucire, mio padre stava nella fabbrica, noi andavamo in fabbrica, persino quando la scuola era aperta, andavamo e lavoravamo alle 3 di notte ogni giorno: svegliarsi, andare a lavoro, andare a casa, farti una doccia, andare a scuola, ritornare, fare i compiti e scendere giù a lavorare di nuovo, e se non c’è lavoro in fabbrica aiutavo mia nonno con i lavori della terra: piantavamo pomodori, zucchine, fasoulia193, avevamo mele, arance, alberi di limone, ne avevamo

191Questo aspetto vedremo che si ripresenterà anche con Maryam e Nicola. Associare i bambini e l’infanzia con

l’idea di innocenza e vulnerabilità (nei riguardi della propria infanzia e, come si vedrà successivamente, in quella dei figli) è un tratto culturale occidentale, appreso specialmente in Inghilterra. Questi temi sono infatti dominanti nel discorso umanitario contemporaneo: nel medioevo il bambino è il compagno naturale degli adulti, ma dalla rivoluzione industriale l’infanzia è considerata uno stato speciale da proteggere e da allontanare dal mondo degli adulti. Fuori dall’Occidente, (dall’Europa) il concetto di infanzia non esisteva come categoria sociale o culturale e le persone ritenute, oggi, bambini, erano classificate come adulti (Rosen 2005: 5-7).

192 V. INTERVISTA 1 ESTRATTO A 193Parola in arabo cha sta per “fagiolini”.

119

bisogno per risparmiare soldi, così non saremmo andati a comprare queste cose [Issa, intervista del 28/7/2016194].

Issa: ho cominciato a lavorare quando avevo 13 anni, andavo a casa, finivo i compiti e andavo a lavoro, lavoravo nella fabbrica con mio padre. Alle 4 di mattina mi sveglio e vado a lavoro prima di andare a scuola… da quando avevo 13 anni… alle 7, vado a casa, faccio una doccia e vado a scuola… e ricordo sempre di mercoledì bisticciavo con mio padre “babbo, oggi, c’è basket, per favore fammi andare! No! Devi lavorare figliolo, in cosa ti è utile il basket! Per favore babbo. Ho solo 12 anni” […] andavamo a giocare a basket per 4/5 minuti prima della scuola alle 6.30 del mattino, e poi vado e faccio la doccia, e poi a scuola, mio padre non mi faceva andare […] perché erano tempi difficili [Issa, intervista di gruppo del 18/7/2016195]

Il duro lavoro e la quasi assenza di momenti ricreativi sono temi centrali. La scuola e rare volte il basket (unico momento veramente ludico) rappresentano un momento di riposo all’interno di un’infanzia principalmente occupata dal lavoro in famiglia. La fatica esperita da bambino è dimostrata dal ricordo esatto degli orari e la meccanica ciclicità degli invariabili atti quotidiani, evidenziati dall’uso dell’infinito e del tempo presente196 (in contrapposizione al passato) che veicolano un senso di staticità temporale nella forma di un evento destinato a ripetersi e configurarsi nella stessa dinamica per sempre. Ed in un certo senso è così perché il passato di Issa è embodied nella misura in cui si manifesta nel presente attraverso l’abitudine di addormentarsi verso le 10 e svegliarsi verso le 4/5 del mattino. Tramite l’osservazione del lavoro degli adulti, in questo primo periodo della vita, Issa impara ogni sorta di lavoro (agricolo, edilizio, meccanico) ma soprattutto per assecondare la volontà paterna con la quale si scontra spesso197: anche qui viene usato il tempo presente ma per «involve interlocutors in the story realm by dramatizing events as if they are taking place in the here-and-now» (Pillemer 1998:157). Essere costretto a lavorare lo porta alla sola età di 10 anni a porsi domande sul senso della sua vita che saranno amplificate con il sopraggiungere dell’Intifada.

Issa: a volte mi sedevo sugli scalini di casa quando avevo 9, 10 anni… ed è curioso come un bambino pensa.. pensavo: come viviamo? Come ci muoviamo? Come si muove il nostro spirito? Perché viviamo? […] in famiglia non ne parlavamo mai. Mio padre era sempre a lavoro, mia madre arrivava da lavoro, cucinava, puliva e arrivava il tempo di andare a dormire… e poi mi

194 V. INTERVISTA 1 ESTRATTO B 195 V. INTERVISTA 1 ESTRATTO CQ

196«svegliarsi, andare a lavoro, andare a casa, farti una doccia, andare a scuola, ritornare, fare i compiti e

scendere giù a lavorare di nuovo» (primo stralcio); «Alle 4 di mattina mi sveglio e vado a lavoro prima di andare a scuola… da quando avevo 13 anni… alle 7, vado a casa, faccio una doccia e vado a scuola […]e poi vado e faccio la doccia, e poi a scuola» (secondo stralcio).

120

spaventava fare queste domande, avrebbero pensato fossi stupido […] cominci a pensare quali sono le cose veramente importanti, poi ti guardi intorno… ed hai la Prima Intifada nel 1987 […] per me non aveva senso […] ero confuso […] perché questo sta capitando solo al nostro paese? Perché? Perché Israele vuole ucciderci? Che cosa gli abbiamo fatto? Era tutto così confuso! […] e perdi la speranza… e veramente pensi:qual è il mio futuro? Sai a 14 anni dovresti guardare al futuro: che cosa ne sarà? Quale sarà la nostra professione?... Perché il nostro obiettivo principale nella vita al tempo era come sopravvivere! Pensi semplicemente che vorresti essere qualcun altro! […] in quel periodo dovevo andare a lavorare, aiutare la famiglia [Issa, intervista del 28/7/2016198].

Issa: io personalmente pensavo che non avessimo speranza, pensavo qual è il senso? Non importa se morirai perché non abbiamo speranza, non abbiamo scelta, non vedi mai la fine della via, vivi in un tunnel privo di luce, non pensi ci sia più un futuro perché qualsiasi cosa tu faccia, c’è sempre qualcosa di difficile contro di te […] qual è il senso di vivere? A volte desideri che tu sia morto […] sei in una situazione di guerra e da bambino [pensi] “perchè io? perché viviamo così? perché noi?”, ti domandi ciò da bambino, desidero esser nato in una nazione diversa a causa della frustrazione della situazione […] perché quando cominci a leggere di ciò, tu sei quasi l’unica nazione al mondo che è sotto occupazione [Issa, intervista del 8/9/2016199]

Issa a 10 anni (primo stralcio) percepisce la condizione di pressione sociale in cui i

palestinesi vivono qualche anno prima dell’Intifada: i genitori lavorano entrambi200 e quando

ritornano a casa non si concedono a un’atmosfera di unione e condivisione familiare, forse perché troppo affaticati. Il piccolo Issa considera ridicoli i propri quesiti esistenziali perché tutto quello che non concerne la realtà circostante è di secondaria importanza, perciò tace e svaluta i propri sentimenti perché non vi è uno spazio sociale in cui poterli condividere. Con lo scoppio dell’Intifada (primo e secondo stralcio) le domande di senso permarranno con prepotenza201. Non più incentrate sull’esistenza dissociata dalla realtà esterna, ma scaturenti dal disagio provocato dall’ambiente circostante di crisi: nella migliore delle ipotesi si desidera essere qualcun altro o altrove, nella peggiore, di non essere vivo202. Lo stato d’animo descritto con le parole “confusione”, “perdita di speranza”, “mancanza di un futuro” è analogo al sentimento “sentirsi con il morale a pezzi o distrutto”, “lo spirito e il carattere distrutto” (Giacaman 2018:21; Gaston Aaron e Hill 2016:80): linguaggio specifico utilizzato dai palestinesi per esprimere il profondo senso di afflizione. E questa condizione rappresenta uno dei tanti volti dell’articolato concetto della sofferenza palestinese (Giacaman 2018:20-21).

198 V.INTERVISTA 1 ESTRATTO D 199 V. INTERVISTA 1 ESTRATTO E

200Questi sono i primi periodi in cui anche le donne approcciano il mondo del lavoro.

201«Perché questo sta capitando solo al nostro paese? Perché? Perché Israele vuole ucciderci? Che cosa gli

abbiamo fatto? Era tutto così confuso!»; «pensavo qual’è il senso? […]qual è il senso di vivere? […]perchè io? perché viviamo così?, perché noi?».

121 Stato comprensibile dato che tra i beit sahouriani non si parla d’altro che di lottare contro gli Israeliani attraverso il lancio delle pietre e il boicottaggio delle tasse: la famiglia di Issa interrompe l’acquisto dei prodotti israeliani e la vendita dei propri a questi ultimi, ma continua a pagare le tasse per evitare la perdita dei propri macchinari. Questo discorso fa immergere Issa nello spirito collettivo della rivolta: «[se avevi una fabbrica, gli israeliani] venivano e prendevano i tuoi macchinari attraverso grosse gru…la svuotavano…sono palestinese e non mi interessa, questa è la mia situazione patriottica, non ti pagherò tasse![…] è così che noi lottiamo contro di te» [Issa, Intervista di gruppo, 18/7/2016]. Si fa rappresentante di un’ideale condiviso e comune, simulando un dialogo tra un palestinese e un israeliano, in un slancio immedesimativo nel passato. Riproduce una memoria collettiva (che suona come uno slogan) che non lo riguarda direttamente ma è prodotto di specifici quadri

sociali (Halbwachs 1997) senza i quali non ne sarebbe stato a conoscenza, «è una memoria

presa dal di fuori» (Halbwachs 2001:124), inscritta nelle azioni dei propri concittadini.

Issa: creiamo dove viviamo… una comunità […] ci incontriamo… avevo 15, 16 anni… e avrei detto “ok, 15 di noi andranno a casa di queste persone e le aiuteranno a finire la casa”, perché non c’erano ingegneri per fare il calcestruzzo e fare le cose tecniche, semplicemente lavoravamo duro per aiutarli a non spendere altri soldi e ovviamente quando facevamo questo…. non so come spiegarlo… in Beit Sahour c’era una comunità qui e una comunità lì… tipo piccole comunità.. perciò dalla comunità vicino a noi, ne sarebbero arrivati altri 15, e altri il giorno seguente, perciò avresti avuto 60, 70 persone […]

Chiara: come si dice in arabo comunità? Issa: si dice ḥahī (ﻲﺣ)

Chiara: ḥahī significa quartiere giusto? Issa: sì quartiere

Chiara: quindi ti riferisci a distretti?

Issa: sì, piccoli distretti […] si sarebbero riuniti da ogni distretto.. e non era necessario dirglielo, l’avrebbero comunque saputo che saremmo andati lì […] avresti avuto 80 persone ad aiutare… e in 2, 3 giorni avrebbero finito la casa. Loro non vogliono soldi!...Qualcuno aveva grandi terreni e dava la terra ad altri per piantare pomodori… noi lo facevamo!…e raccoglierli e darli a coloro che ne avevano bisogno…e quando volevamo pulire la terra e qualsiasi cosa…ci saremmo organizzati…e il giorno dopo ci sarebbero state 500 persone a lavorare la terra tutto il giorno, felici, cantando e ridendo… e quando la comunità ci vedeva così, portava caffè, tè, succhi, frutta per sostenerci…e così che si creava la comunità, è così che l’intera Beit Sahour era diventata un’unica casa, l’Intifada aveva portato questo a Beit Sahour, si sa bene, in tutto il mondo, come Beit Sahour abbia resistito davanti all’esattore delle tasse israeliano, quando ci siamo rifiutati di pagare le tasse ad Israele…siamo stati l’unica città…è stato quando avevo 16 anni, quindi nel 1988/87… avevo 15, 16 anni…

Chiara: ma mi hai detto che hai lasciato la Palestina nel 1991, quindi a 17 anni…

Issa: ah sì…era nel 1984…ero più giovane scusami! Tanto tempo fa ormai! È pieno di video su

Youtube, siamo stati l’unica città dell’intera Palestina che ha resistito davanti all’esattore “no! Io

non pagherò!”[Issa, intervista del 8/9/2016203].

122 Viene descritto chiaramente come la forza di Beit Sahour provenga dal forte sentimento di solidarietà comunitaria (uno dei lati positivi dell’Intifada) e come essa fosse necessaria per permettere di combattere il medesimo nemico (Bowman, 2001:52). Si abbandona il concetto di una vita vissuta in solitudine ed individualmente, per adottare una prospettiva collettiva. Beit Sahour diventa un’unica famiglia, «un’unica casa»: non si tiene più conto dei confini delle mura dell’abitazione fisica, ma dei confini della cittadina stessa e del rapporto di supporto reciproco tra gli abitanti di questa città-casa allargata. Spicca, ancora una volta, confusione nella collocazione temporale dei fatti dopo il mio intervento204: ḥahī

sembra far riferimento ai quartieri in cui risiedono i vari comitati popolari, ma nel 1984 essi non sono stati ancora realizzati ed allo stesso tempo non sembrerebbe corrispondere neanche all’hamula, forse la difficoltà nel trovare il giusto “quadro sociale” è dovuto al fatto che siano

memorie mai riportate in inglese (considerata la difficoltà ad esprimersi)205 oppure

“arruginite” perché non oralmente rammentate da tempo. A parte ciò, ancora una volta Issa si dipinge come parte attiva al boicottaggio mediante un “noi” dalla doppia valenza: si riferisce alla partecipazione popolare e di massa da una parte, e alla generazione dei giovani e dei bambini dall’altra (Alazzeh, 2015: 255). Tuttavia, l’elogio del boicottaggio scaturisce in realtà dalla sollecitazione dei genitori disapprovanti l’uso della forza e della violenza:

Issa: Non ho mai avuto un’infanzia, tutto è sempre stato difficile con i problemi che c’erano lì, perchè la mia famiglia è sempre stata molto conservatrice tipo “non andare fuori, potresti essere sparato dagli israeliani, non andare a lanciare pietre!”… noi non possiamo, perché tutti lo fanno?! Perché non lo puoi fare? Perché? Perciò solevamo rifugiarci dietro i nostri genitori [Issa, Intervista di gruppo, 18/7/2016206].

Il processo di adultizzazione iniziato dall’età di 7 anni ricorda i riti di passaggio verso l’adultità discussi da Peteet (1994: 34-35): durante l’Intifada il raggiungimento della maturità maschile (manhood)207 avviene attraverso la resistenza, il martirio e la temerarietà in una

204 Issa mi ha sempre detto che all’età di 17 anni, nel 1991, era partito per l’Inghilterra, ma in realtà ne aveva già

18. Al di là di questo insistente errore anagrafico, effettivamente Issa nel 1988 aveva 15 anni. Per cui la data del 1984 credo sia solo frutto di confusione e calcoli temporali non accurati: non si capisce se si riferisca a episodi di fratellanza comunitaria precedenti, oppure al rifiuto di pagare le tasse da parte degli abitanti di Beit Sahour (posteriore all’Intifada).

205 «Non so come spiegarlo… in Beit Sahour c’erano una comunità qui e una comunità lì… tipo piccole

comunità...».

206 V.INTERVISTA 1 ESTRATTO G

207Che non è mera ultimazione di un processo di trasformazione biologica, ma è determinata da azioni atte a

123 situazione sociale sotto pressione per l’occupazione208 ed in cui tutte le persone sono coinvolte sin da piccole. Le persone dai 5 ai 20 anni di età vengono generalmente chiamate “giovani” (Collins, 2004a: 38)209 a causa del loro prevalente coinvolgimento nell’Intifada210. Tra questi il quattordicenne Issa, travolto dallo spirito patriottico e goliardico, sostituisce le proibizioni genitoriali con l’azione fisica:

Issa: sì, certo [noi lanciavamo pietre…] eravamo un gruppo di giovani, seduti sulla casa di qualcuno, e loro dicevano “andiamo!”…a volte ci sedevamo e ascoltavamo della musica patriottica […] e questo ti fa [venire la voglia di] “andiamo a lottare!!! Su!!!”. Perciò andavamo e lanciavamo pietre per tre ore e poi fuggivamo perché avrebbero cominciato a sparare e lanciare gas lacrimogeni […] e le [altre] persone, poverine, soffrivano perché…mettevamo delle pietre nelle strade perché per impedire ai soldati di venire…e per noi era più semplice fuggire… allora facevano uscire le persone da casa per ripulire le strade… e una volta sono venuti a casa nostra alle tre di notte e stava piovendo e hanno detto “ venite tutti per strada”, solo per umiliarci! E a volte quando le persone scrivevano graffiti sui muri, dicevano “venite e ripitturate il muro!” e una volta ho detto al soldato “se lo dipingessi, dareste modo di riscriverci di nuovo sopra, lasciatelo così e loro non ci riscriveranno più sopra!” e lui “bè hai ragione![…] lascialo così”… alcuni erano bravi….erano umani [Issa, intervista del 8/9/2016211].

È noto che le identità siano in continua formazione, infatti l’identità palestinese è un processo relativo al diventare più che semplicemente relativo all’essere già. Per i palestinesi sottostanti a un potere straniero, l’Intifada diventa un’occasione per non essere vittime della privazione di ogni potere o diritto, e per impugnare l’unica arma a disposizione e la prima conosciuta dal genere umano (le pietre), per manifestare la propria frustrazione, e soprattutto ristabilire una propria identità che appunto non è data ma un «object of conscious action and deliberation» (Peteet, 2011: 145). Attaccare con delle armi, per quanto rustiche, genera

208 La manhood sarebbe facilmente perdibile – al pari dell’onore (V.§ Cap. II) – se si ha una ‘aql (ragione,

razionalità, prudenza e saggezza) debole: il che condurrebbe ad esporsi irresponsabilmente compromettendo la propria protezione. Ciò spiegherebbe perché ai bambini come Issa non fossero permesse le bravate e gli errori: essi non lasciavano spazio alla mascolinità e quindi all’‘aql (anche se normalmente, in una realtà non violenta o di crisi, veniva raggiunta all’età di 20 anni (Peteet, 1994: 35) e non a quella di 10).

209 I maschi sono tradizionalmente suddivisi in questo modo: bambino (tifl: nascita-6 anni); ragazzino (walad:

6-13 anni); ragazzo (shab: 14-25 anni); uomo (rajul: 25-60 anni); anziano (ikhtyār: oltre i 60 anni). I ricercatori che scrivevano in inglese cominciarono a definirli genericamente “children” ma questi ultimi trovandolo offensivo cominciarono a farsi chiamare shabāb (plur. di shab) più esplicitamente mascolino (Collins 2004a:

Documenti correlati