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Normalizzare l’immersione spettatoriale Talking is Not Always the Solution di Omer Fast

Nel documento Atmosfere mediali (pagine 88-104)

Vincenzo Estremo, Francesco Federici

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Abstract

Le pratiche artistiche contemporanee si intersecano con la questione del dispositivo e degli ambienti mediali, di particolare importanza nell’attuale panorama, rifacendosi spesso a un contesto legato alla fine della specificità mediale. Alcuni artisti, come Omer Fast, decidono di legare l’esperienza spet- tatoriale alla costruzione di un ambiente in grado di modificare la gestione della percezione che viene così ampliata fino a un livello corporeo e tattile, chiedendo allo spettatore un’immersione in uno spazio ridefinito, come nella mostra Talking is not always the solution (2016-17). Partendo da quest’ultima si vuole considerare la funzione degli ambienti mediali nelle pratiche audiovisi- ve contemporanee, riflettendo sia sulla loro dimensione materiale che sul loro ruolo nel ridefinire l’effetto del reale in ambito cinematografico.

Artistic practices often intersect with the question of the dispositif and with media environments. This kind of works have relevance in the current artistic landscape and often refers to a context linked to the end of medium specificity. Some artists like Omer Fast, recently decided to link the spectato- rial experience to the construction of an environment that has the ability of modifying the management of perception, and thus expands to a bodily and tactile level which asks the spectator to immerse herself/himself in a rede- fined space, as it happens in the exhibition “Talking is not always the solution” (2016-17). Starting from this case study we want to consider the role of me- dia environments in contemporary audiovisual practices in order to reflect on both their material dimension(s) and on their role in redefining the effect of reality in the cinematographic field.

Keywords

Site; immagini in movimento; arte contemporanea; materialità; ambiente

mediale

Site; moving images; contemporary art; materiality; media environment

1 Sebbene questo lavoro sia il risultato di una continua e stretta collaborazione, i paragrafi Normalizzare e Spazi familiari sono stati scritti da Vincenzo Estremo mentre i paragrafi Luo- ghi per la visione e Spazi performativi sono stati scritti da Francesco Federici. L’Introduzione

Introduzione

Osservare l’arte contemporanea permette da ormai molto tempo di analizzare alcune forme progettuali che vanno a incrociarsi con le prati- che cinematografiche e più in generale mediali. L’introduzione delle im- magini in movimento nel contesto artistico ha permesso, come vedre- mo in seguito, di riconsiderare alcuni concetti come quello di dispositivo e medium alla luce dell’evoluzione dell’esperienza spettatoriale nell’am- bito museale. Questo permette anche di osservare la permeabilità di concetti e pratiche fra diversi spazi sociali e di considerare l’esperienza visiva all’interno di una più ampia cultura visuale, meno coinvolta da deli- mitazioni di campo o di settore. Queste esperienze ricorrono sempre più spesso a tecnologie capaci di estendere e riorganizzare il campo del visi- bile, appropriandosi di elementi iconici, tattili e virtuali e di componenti non propriamente riconducibili all’arte contemporanea, una sostanziale estensione delle possibilità di descrivere e commentare i fatti della con- temporaneità che si lega all’inevitabile impatto culturale dei media. Una dimensione sempre più complessa e che travalica il panorama pretta- mente visivo e si costruisce e si articola in una vera compartecipazione mediale. L’arte contemporanea e più in generale l’esperienza artistica, come del resto quella cinematografica, risponde ad alcune suggestio- ni che sono dettate dalla sua storia e dalle sue diverse evoluzioni2, ma

rimane uno dei più fecondi terreni di osservazione per comprendere la reciproca influenza dei media e per analizzare, almeno in alcune sue componenti, il concetto di atmosfera mediale. Nel presente testo si la- vorerà alla descrizione e definizione di una specifica forma di esperienza percettiva delle immagini in movimento, resa possibile dalla rilocazio- ne delle immagini in spazi architettonicamente, scenograficamente e narrativamente articolati. Un’esperienza significativa della moltitudine linguistica che caratterizza il mediascape contemporaneo con cui l’arte interagisce di continuo. Un nuovo e possibile dispositivo, risultante dalle rinnovate possibilità di ripensare il rapporto tra immagini in movimento e milieu mediale e i cui effetti travalicano l’ambito estetico, sconfinando nella dimensione sociale e politica delle immagini stesse.

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Luoghi per la visione

Parlare di ambienti mediali e azioni artistiche richiede in prima istanza una riflessione sui luoghi della visione. Sebbene gli spazi che ospitano oggi le immagini in movimento possano essere associati a diversi modelli sociali e istituzionali, nel caso del percorso che vorremmo proporre in questa sede è fondamentale guardare a un processo che ha coinvolto e coinvolge tuttora le molteplici e ininterrotte interferenze fra cinema e arte contemporanea. In quest’ottica l’architettura dello spazio di visione nonché la sua interpretazio- ne da parte dei costruttori di quello spazio – l’artista, il curatore, lo scenografo – e da parte di chi osserva e percepisce – lo spettatore/visitatore – si pone come uno dei nodi da analizzare andando a toccare di conseguenza proprio lo statuto dello sguardo e dell’esperienza spettatoriale.

In coda a una lunga serie di riflessioni sul tema, Erika Balsom nota proprio come nella letteratura artistica e cinematografica si trovi spesso un’opposi- zione più o meno netta fra lo spettatore passivo della sala cinematografica e quello attivo della galleria d’arte.

The assumption here is that the movie theater constitutes a space of ideological regression, whilst the gallery is a clear-sighted realm exempt from such mystification. Cinematic spectatorship functions as a kind of straw man against which the inherent critical value of gallery spectatorship is asserted. The movie theater is a space of disciplinary confinement; the gallery is a space of freedom.3

Del resto, quando agli inizi degli anni Novanta, i lavori di cinema esposto si affacciavano sulla scena museale europea, un osservatore come Jean- Christoph Royoux scriveva che il cinéma d’exposition aveva prodotto come conseguenza “l’invention d’un rapport démocratique à l’œuvre d’art”4 e,

sempre sull’onda di questi lavori, altri continueranno, negli anni successivi e fino a oggi, a contribuire alla comprensione di uno spettatore in bilico fra una posizione attiva e passiva, come nel più classico dispositivo cine- matografico5.

3 E. Balsom, Exhibiting Cinema in Contemporary Art, Amsterdam University Press, Amster-

dam 2013, p. 50.

4 J-C. Royoux, Pour un cinéma d’exposition 1: Retour sur quelques jalons historiques, in “Om-

nibus”, n. 20, 1997, p. 10.

5 Tra i molti D. Païni, Le Temps exposé. Le cinéma de la salle au musée, Cahiers du cinéma, Paris

2002; C. Fowler, Room for Experiment. Gallery Films and Vertical Time from Maya Deren to Eija-

In questo contesto diviene chiaro come il riferimento all’arte contempo- ranea sia fondamentale, non solo per l’analisi del lavoro di Omer Fast che proporremo in seguito, ma per le ormai evidenti, reciproche influenze fra le trasformazioni dell’arte contemporanea e del cinema sulla questione del dispositivo e conseguentemente dello statuto spettatoriale, considerando anche come sia stato superato l’utilizzo del criterio della spazialità come elemento distintivo fra una presunta appartenenza da parte dell’autore dell’opera al mondo dell’arte o a quello del cinema6.

Erika Suderburg, in un importante testo sulle installazioni, scrive come l’inizio degli anni Duemila abbia rappresentato la coda di una serie di episodi, gesti e momenti artistici particolarmente interessanti e, in un certo senso, sconcertanti, legati in diversi modi all’arte delle installazioni, riconoscendo come una quantità pressoché inesauribile di lavori artistici ricadesse sotto ai termini site specific e installazione, entrambi con una storia molto complessa. In particolare, nel caso del primo, traccia una genealogia parziale:

Site specific derives from the delineation and examination of the site of the

gallery in relation to space unconfined by the gallery and in relation to the spectator. As discursive terminology, site specific is solely and precisely rooted within Western Euro-American modernism, born, as it were, lodged between modernist notions of liberal progressiveness and radical tropes both formal and conceptual. It is the recognition on the part of minimalist and earthworks artists of the 1960s and 1970s that “site” in and of itself is part of the experience of the work of art. Robert Smithson’s use of the terms site and nonsite to label his works that removed samples from exterior sites and placed them into the “neutral” space of the gallery demanded an expansion of what could be thought of as art.7

Potremmo legare questo percorso del site alla conclusione della speci- ficità mediale, che ha influito sugli spazi fisici dell’arte e sulla costruzione dei lavori artistici, come evidenziato ancora da Suderburg: “Collectively the work of installation and site specificity engages the aural, spatial, visual, and environmental planes of perception and interpretation. This

Éditions du Centre Pompidou, Paris 2006; E. Balsom, Exhibiting Cinema in Contemporary

Art, op. cit.

6 J. Steetkamp, Moving Images and Visual Art. Revisiting the Space Criterion, in “Cinéma&Cie”,

vol. 9, n. 12, 2009, p. 65.

7 E. Suderburg (a cura di), Space, Site, Intervention. Situating Installation Art, University of Min-

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work grows out of the collapse of medium specificity and the bound- aries that had defined disciplines within the visual arts beginning in the 1960s”8. Senza dubbio le pratiche degli anni Sessanta e del decennio

successivo hanno cambiato radicalmente il modo di fare e di intendere l’arte, andando a toccare le forme video e cinematografiche, anche nei percorsi legati alla temporalità della visione9, complicando il panorama

delle immagini in movimento che progressivamente, ma seguendo una tradizione che risale talvolta a forme di spettacolo precinematografico, si sono inserite nella progettazione architettonica, in quella d’interni, in contesti sia pubblici che privati, nei percorsi urbani, nelle fiere e han- no infine trovato nuove forme nelle evoluzioni digitali e virtuali. Questo quadro così ricco e influenzato da diverse pratiche ha richiesto fin da subito una riflessione accurata sulla terminologia da impiegare, dando spesso prova della difficoltà nel trovare un lessico adatto e soprattutto condiviso e, come suggerisce Miwon Kwon, talvolta spostando il centro della riflessione dei lavori artistici realizzati su questa scorta in un “discur- sive realm” capace di funzionare esso stesso da site, ovvero “interrogating its currency in relation to aesthetic imperatives, institutional demands, socioeconomic ramifications, or political efficacy”10. È la stessa Kwon a

legare questo sviluppo a un’analisi di James Meyer, il quale distingue fra un literal site e un functional site, il primo essendo in situ, un luogo effet- tivo e unico, il secondo non automaticamente legato a un luogo fisico. Quest’ultimo è infatti “a process, an operation occurring between sites, a mapping of institutional and discursive filiations and the bodies that move between them (the artist’s above all). It is an informational site, a locus of overlap of text, photograph and video recordings, physical places and things”11. Il richiamo a un valore che esula dalla spazialità del site serve a comprendere come le pratiche artistiche contemporanee

godano di una complessità costruttiva, a livello concettuale, che le porta a essere il centro proficuo di sperimentazioni linguistiche, fra le quali il cinema e il video hanno una delle parti più importanti12. Il concetto di

8 Ivi, p. 2.

9 P. M. Lee, Chronophobia. On Time in the Art of the 1960s, The MIT Press, Cambridge 2004. 10 M. Kwon, One Place after Another: Site Specific Art and Locational Identity, The MIT Press,

Cambridge 2002, p. 28.

11 J. Meyer, The Functional Site; or, The Transformation of Site Specificity, in E. Suderburg (a

cura di), op. cit., p. 25.

12 Cfr. N. Bourriaud, Radicant. Pour une esthétique de la globalisation, Denoël, Paris 2009; tr. it. Il radicante. Per un’estetica della globalizzazione, postmedia books, Milano 2014.

site va infine visto in relazione con i concetti di dispositivo e medium13,

debitori anch’essi di una lunga e complessa genealogia come recente- mente mostrato14. Negli scambi fra questi tre concetti infatti la reciproca

relazione fra cinema e arte contemporanea, in particolar modo attraver- so il video, e i cambiamenti dello spazio espositivo si pongono come elementi principali per osservare le mutazioni dello spazio di visione e quindi le modifiche dell’ambiente che accoglie il lavoro artistico e l’atto della sua fruizione.

Normalizzazione

Volendo quindi contestualizzare il climate recente in cui il site per l’e- sposizione delle immagini in movimento ha prodotto correlazioni tra esperienze spettatoriali e ambienti immersivi, ci sarebbero da fare alcuni distinguo sulla natura stessa di questa immersività. Se da un punto di vista puramente tecnologico l’affermarsi di tecniche di proiezione sempre più precise e potenti ha rappresentato un naturale ampliamento delle possi- bilità linguistiche ed estetiche, dall’altro lato si è andata affermando una sorta di reazione teorica a queste stesse modalità espositive. In questo caso, volendosi occupare di questa seconda opzione, si inizierà col dire che essa rappresenta una sorta di ricostruzione ambientale riflessiva, in cui la mimesis iperrealista gioca un ruolo importante nel condizionare il signifi- cato finale delle installazioni di immagini in movimento. Per provare a spie- gare questo fenomeno è necessario partire dall’osservazione dello spazio della società in cui avvengono queste esperienze. Un’azione che intende andare oltre la (ri)costruzione sociale della sfera del visibile per spingersi verso l’individuazione delle “costruzioni visuali del sociale”, come direbbe William John Thomas Mitchell15. A partire da queste premesse, si proverà

ad avanzare delle ipotesi di analisi sulle ragioni delle particolari condizioni

13 Cfr. F. Federici, Cinema esposto. Arte contemporanea, museo, immagini in movimento, Fo-

rum, Udine 2017, p. 69 e ss.

14 Cfr. F. Kessler, Notes on dispositif, 2007, http://www.hum.uu.nl/medewerkers/ f.e.kessler/

Dispositif%20Notes11-2007.pdf, s.p. (ultima consultazione 10 aprile 2019); F. Casetti, La que-

stione del dispositivo, in “Fata Morgana”, n. 20, 2013; A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Cultura visuale. Immagini sguardi media dispositivi, Einaudi, Torino 2016; C. Saba, Medium/media, arte, in “Fata Morgana”, n. 33, 2017.

15 W.J.T. Mitchell, Image Science. Iconology, Visual Culture, and Media Aesthetics, University

of Chicago Press, Chicago 2015, tr. it., Scienza delle immagini. Iconologia, cultura visuale ed

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espositive, tentando di individuare il modo in cui, a una certa apertura linguistica sia corrisposta una parallela normalizzazione delle esperienze estetiche. Per fare ciò, si guarderà a uno specifico caso studio, illustrando i nessi, i limiti e le concatenazioni che caratterizzano l’apparato espositivo dei lavori di Omer Fast nella mostra Talking is not always the solution (2016) svoltasi al Martin-Gropius-Bau di Berlino.

Per Talking is not always the solution (2016), gli architetti dello Studio Miessen – in collaborazione con lo scenografo Heike Schuppelius – han- no sviluppato, sotto indicazione di Omer Fast, diverse tipologie di sale d’attesa che si snodano attraverso la mostra come una serie di spazi in- terstiziali caricati di un particolare valore ideologico. Questi luoghi sono la riproduzione fedele di alcuni spazi della nostra contemporaneità. Fast ha deciso di installare i suoi lavori video provando a fare in modo che questi si confondessero completamente con l’ambiente. Se le esperien- ze percettive dipendono dalle condizioni in cui ci troviamo, è altrettanto vero che il dibattito intorno ai media si è sviluppato ben oltre la prospet- tiva mcluhaniana. Sostenere che l’immersione polisensoriale negli spazi mediali si è andata intensificando a partire dall’aumento delle esperienze spettatoriali mediante protesi tecnomorfe e grazie al perfezionamento delle tecniche di esposizione audio-video delle immagini in movimento, significherebbe avallare una medium specificity da cui l’arte si è andata smarcando con sempre più convinzione16. Vi sono fattori collaterali, ma

non liminali, che hanno a che vedere con l’affermarsi dell’accessibilità tec- nologica degli apparati digitali. L’occupazione capillare dei media degli spazi che ci circondano ha quindi delle conseguenze politiche e sociali che si legano alla ridefinizione del concetto di dispositivo17. Nel caso di

Omer Fast ci troviamo di fronte a un’immersione che non è sintomatica degli elementi tecnologici, ma che riflette sottilmente gli epifenomeni della stessa cultura digitale rintracciabili nelle mutazioni dell’organizzazio- ne sociale. Volendo partire dal concetto di modernità liquida di Zygmunt Bauman18, è possibile osservare come il sociologo e filosofo polacco ab-

bia lavorato proprio alla definizione di alcune conseguenze di queste immersioni, descrivendo gli effetti del digitale mediante l’enumerazione delle caratteristiche di una società in cui a dominare sono la vita e il la-

16 A. Pinotti, A. Somaini, op. cit., p. 159. 17 F. Casetti, op. cit., pp. 21-24.

18 Cfr. Z. Bauman, Liquid Modernity, Polity, Cambridge 2000, tr. it., Modernità liquida, Laterza,

voro incorporeo. La diffusione dei mezzi digitali agevola la creazione di spazi in cui è possibile un’immersione completa e costante ma del tutto eterogenea, spazi in cui le attività umane vengono avvolte, inghiottite e assoggettate. All’interno di questi macro contenitori emergono delle mi- cro-condizioni mediali che sono come bolle in cui rifugiarsi al fine di tro- vare un nuovo luogo di fruizione19. La relazione di costante tensione tra

queste due espressioni, quella del rumore dei macro apparati mediali e quella delle isole di concentrazione personale, sono il frutto di una condi- zione produttiva tipica della società contemporanea. Una condizione che non si pone più in una prospettiva posizionale, ma che è contraddistinta dall’assemblaggio di fenomeni eterogenei in qualche modo connessi tra loro. In questo caso, si intende affrontare proprio la tensione esistente tra gli aspetti fenomenici di quelle esperienze mediali che volutamente ri- producono le caratteristiche distintive della società contemporanea fatta di incertezze, instabilità, complessità, mutevolezza e gli intenti narrativi di queste stesse esperienze, al fine di mostrare in che modo questa nor- malizzazione estetica attui un processo cine-dialettico o icono-dialettico. Mark Fisher ha descritto l’uniformazione sociale di cui si accennava, come una condizione di capitalist realism20, ovvero uno status socio economico

in cui non esistono alternative al capitalismo, il cui ultimo stadio sem- bra essere stato propiziato dall’affermazione della cultura digitale21. In

questa prospettiva avviene definitivamente il rovesciamento del mito della tecnologia capace di liberare l’uomo dal lavoro e si crea una con- dizione sistemica di avanzato sfruttamento, in cui l’immersione continua dell’uomo nel lavoro produce una subalternità a forme di lavoro deter- ritorializzanti. La scrittura di Fisher, mimetica e totalmente aderente alla sua contemporaneità, prende le mosse dalla riconsiderazione critica del post-11 settembre per arrivare a descrivere i primi sintomi di quella lenta e inesorabile scomparsa del futuro come prospettiva eccitante e positiva. Fisher racconta le esperienze dell’oggi, sottolineando con preoccupazio-

19 F. Casetti, op. cit., pp. 13; G. Bruno, Public Intimacy. Architecture and the Visual Arts, MIT

Press, Cambridge 2007.

20 M. Fisher, Capitalist Realism. Is There No Alternative?, Zero Books, New York 2009, tr. it., Realismo Capitalista, NOT, Roma, 2018.

21 F. Jameson, Postmodernism or the Cultural Logic of Late Capitalism, Verso, London 1991,

tr. it., Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma 2007. Secondo Jameson il terzo salto tecnologico nell’evoluzione capitalistica è dovuto all’invenzione dei motori nucleari e della cibernetica. Una condizione che inaugura una nuova era mec- canica capace di plasmare le forme elementari della percezione umana, e di elaborare, produrre ed esprimere cultura.

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ne il ritorno fantasmatico a un passato sempre più irrealista e nostalgi- co. La mancanza di futuro o l’assenza di alternative22, questa immersione

normalizzante in una condizione di riproposizione mimetica della realtà circostante, produce quindi, una rifrazione del senso stesso dei contenuti fruiti. Una deviazione intenzionale del testo filmico rispetto alla sua di- rezione originaria, che si viene a creare a partire da un’inversione delle apparenze e da una completa estraneità al mondo che questo stesso am- biente mediale riproduce con precisione.

Spazi performativi

La scelta di Omer Fast segue, del resto, uno degli ultimi sintomi di un richiamo a essere attenti non solamente al contenuto (il racconto della guerra), ma al contenitore. Lo spazio che Fast e lo studio Miessen scelgo- no di rappresentare rientra in quel performance space 23 che deriva, an-

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