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NOTA CRITICA

Nel documento G.B. Marino (?), Inni Profani (pagine 109-134)

Sul finire dell’Ottocento, anzi per precisione “entro il 1890”, il giovane Benedetto Croce segnalò ad Angelo Borzelli, che sapeva interessato alla letteratura in area napoletana tra Cinque e Seicento e al Marino in modo particolare, un codice di recente acquistato dalla Società Napoletana di Storia Patria che aveva avuto modo di consultare reputandolo di per sé piuttosto interessante e indispen- sabile per il suo interlocutore. La carta di copertina del codice recita infatti: “Inni Profani. Scritti nella sua prima prigionia nella Vicaria del Signor Cavalier Marino. Con aggiunta de’ Profumi del Sonno”; il Borzelli ne diede entusiatico ragguaglio in una plaquette per nozze nel 1892 (La Polinnia del Cavalier Marino? Nozze Dottor Erasmo De Nuccio e Maria Zona - De Nuccio. Agosto 1892) e poi inserì la notizia nella sua biografia mariniana (A. BORZELLI, Il Cavalier Giam-

battista Marino (1569-1625), Napoli, Gennaro Maria Priore Editore,

1898), in entrambe le pubblicazioni avanzando l’ipotesi, con la pro- messa che si sarebbe premurato in seguito di verificarla, che in quel- le carte manoscritte potesse celarsi l’abbozzo di una delle numerose opere la cui composizione era stata vantata del Marino e che sono state ritenute perdute non essendo mai giunte alla stampa. L’opera in questione sarebbe stata la Polinnia, il cui progetto il Marino aveva enunciato, tramite Onorato Claretti, nella famosa lettera prefatoria alla III parte della Lira nella stampa del 1614: “La Polinnia ancora è un’opera bella, piena di buona dottrina e varia, sì come accenna il titolo istesso, ch’altro non importa se non canto di molte cose, a concorrenza quasi del Pontano, il quale trattando di cose celestiali, appellò il suo libro l’Urania, Musa a cui è attribuita la cura de’ Cieli e delle stelle. Percioché incominciando il Poeta dagli elementi, e passando poi ordinatamente dai misti imperfetti ai più perfetti, abbraccia quasi tutte le creature dell’Universo, tratta di tutte le Virtù

et arti più nobili, e discorre tutta la scala della Natura, infino a tanto che di sfera in sfera perviene agli Angioli, si conduce ai Santi et arriva allo stesso Iddio. Consiste tutta in tanti Inni, o vogliamo dir canzonette; et ancorché di Pindaro fra’ Greci, del Marullo e d’altri fra’ Latini, e di Bernardo Tasso fra’ Toscani se ne veggano qua e là in questo genere sparsi alcuni, nondimeno oltre l’essere differen- tissimi dallo stile del Cavalier Marino, il quale par che in questo penda più tosto alla foggia tenuta ne’ Cori dagli antichi Tragici, sono anche di numero assai minori, poiché, eccettuate alcune poche Deità, non hanno tocche tutte le materie occupate da lui” (G. B.

MARINO, La Lira, a cura di Maurizio Slawinski, Torino, Res, 2007,

vol. II pp. 41-42).

L’ipotesi Polinnia sarebbe stata da lì a poco smentita dallo stes- so Borzelli in un opuscoletto specificamente dedicato alla emenda- zione del suo precedente errore (Di un manoscritto della Società

napoletana di Storia Patria falsamente attribuito al Cavalier Ma- rino. Noticina di Angelo Borzelli, Napoli, Stabilimento Tipografico

di Gennaro M. Priore, 1899). Senonché, mentre la monografia del 1898 ha avuto larga fortuna e diffusione, divenendo giustamente uno dei principali riferimenti della bibliografia mariniana e quasi elemento basilare di ogni approccio iniziale allo studio del Marino, dell’opuscoletto si è persa completamente la traccia fino a che, pro- prio trattando dell’enigma Polinnia, Emilio Russo non ne ha richia- mato la memoria nella sua recente monografia mariniana (E. RUSSO,

Marino, Roma, Salerno, 2008, p. 242).

Nel volume del 1898 il Borzelli non soltanto comunicò l’esistenza del codice ma stampò per ulteriore documentazione, e nell’entu- siasmo del supposto ritrovamento di un abbozzo della perduta Po-

linnia, un elenco degli inni e un breve saggio di tre di essi. Tuttavia

la caoticità della descrizione e la scelta estemporanea di tre inni, selezionati a caso e trascritti anche non senza qualche errore, finì per convincere gli studiosi dello scarso interesse del ritrovamento, sia perché di primo acchito l’elenco dei componimenti non pareva,

NOTA CRITICA

Sul finire dell’Ottocento, anzi per precisione “entro il 1890”, il giovane Benedetto Croce segnalò ad Angelo Borzelli, che sapeva interessato alla letteratura in area napoletana tra Cinque e Seicento e al Marino in modo particolare, un codice di recente acquistato dalla Società Napoletana di Storia Patria che aveva avuto modo di consultare reputandolo di per sé piuttosto interessante e indispen- sabile per il suo interlocutore. La carta di copertina del codice recita infatti: “Inni Profani. Scritti nella sua prima prigionia nella Vicaria del Signor Cavalier Marino. Con aggiunta de’ Profumi del Sonno”; il Borzelli ne diede entusiatico ragguaglio in una plaquette per nozze nel 1892 (La Polinnia del Cavalier Marino? Nozze Dottor Erasmo De Nuccio e Maria Zona - De Nuccio. Agosto 1892) e poi inserì la notizia nella sua biografia mariniana (A. BORZELLI, Il Cavalier Giam-

battista Marino (1569-1625), Napoli, Gennaro Maria Priore Editore,

1898), in entrambe le pubblicazioni avanzando l’ipotesi, con la pro- messa che si sarebbe premurato in seguito di verificarla, che in quel- le carte manoscritte potesse celarsi l’abbozzo di una delle numerose opere la cui composizione era stata vantata del Marino e che sono state ritenute perdute non essendo mai giunte alla stampa. L’opera in questione sarebbe stata la Polinnia, il cui progetto il Marino aveva enunciato, tramite Onorato Claretti, nella famosa lettera prefatoria alla III parte della Lira nella stampa del 1614: “La Polinnia ancora è un’opera bella, piena di buona dottrina e varia, sì come accenna il titolo istesso, ch’altro non importa se non canto di molte cose, a concorrenza quasi del Pontano, il quale trattando di cose celestiali, appellò il suo libro l’Urania, Musa a cui è attribuita la cura de’ Cieli e delle stelle. Percioché incominciando il Poeta dagli elementi, e passando poi ordinatamente dai misti imperfetti ai più perfetti, abbraccia quasi tutte le creature dell’Universo, tratta di tutte le Virtù

et arti più nobili, e discorre tutta la scala della Natura, infino a tanto che di sfera in sfera perviene agli Angioli, si conduce ai Santi et arriva allo stesso Iddio. Consiste tutta in tanti Inni, o vogliamo dir canzonette; et ancorché di Pindaro fra’ Greci, del Marullo e d’altri fra’ Latini, e di Bernardo Tasso fra’ Toscani se ne veggano qua e là in questo genere sparsi alcuni, nondimeno oltre l’essere differen- tissimi dallo stile del Cavalier Marino, il quale par che in questo penda più tosto alla foggia tenuta ne’ Cori dagli antichi Tragici, sono anche di numero assai minori, poiché, eccettuate alcune poche Deità, non hanno tocche tutte le materie occupate da lui” (G. B.

MARINO, La Lira, a cura di Maurizio Slawinski, Torino, Res, 2007,

vol. II pp. 41-42).

L’ipotesi Polinnia sarebbe stata da lì a poco smentita dallo stes- so Borzelli in un opuscoletto specificamente dedicato alla emenda- zione del suo precedente errore (Di un manoscritto della Società

napoletana di Storia Patria falsamente attribuito al Cavalier Ma- rino. Noticina di Angelo Borzelli, Napoli, Stabilimento Tipografico

di Gennaro M. Priore, 1899). Senonché, mentre la monografia del 1898 ha avuto larga fortuna e diffusione, divenendo giustamente uno dei principali riferimenti della bibliografia mariniana e quasi elemento basilare di ogni approccio iniziale allo studio del Marino, dell’opuscoletto si è persa completamente la traccia fino a che, pro- prio trattando dell’enigma Polinnia, Emilio Russo non ne ha richia- mato la memoria nella sua recente monografia mariniana (E. RUSSO,

Marino, Roma, Salerno, 2008, p. 242).

Nel volume del 1898 il Borzelli non soltanto comunicò l’esistenza del codice ma stampò per ulteriore documentazione, e nell’entu- siasmo del supposto ritrovamento di un abbozzo della perduta Po-

linnia, un elenco degli inni e un breve saggio di tre di essi. Tuttavia

la caoticità della descrizione e la scelta estemporanea di tre inni, selezionati a caso e trascritti anche non senza qualche errore, finì per convincere gli studiosi dello scarso interesse del ritrovamento, sia perché di primo acchito l’elenco dei componimenti non pareva,

NOTA CRITICA

Sul finire dell’Ottocento, anzi per precisione “entro il 1890”, il giovane Benedetto Croce segnalò ad Angelo Borzelli, che sapeva interessato alla letteratura in area napoletana tra Cinque e Seicento e al Marino in modo particolare, un codice di recente acquistato dalla Società Napoletana di Storia Patria che aveva avuto modo di consultare reputandolo di per sé piuttosto interessante e indispen- sabile per il suo interlocutore. La carta di copertina del codice recita infatti: “Inni Profani. Scritti nella sua prima prigionia nella Vicaria del Signor Cavalier Marino. Con aggiunta de’ Profumi del Sonno”; il Borzelli ne diede entusiatico ragguaglio in una plaquette per nozze nel 1892 (La Polinnia del Cavalier Marino? Nozze Dottor Erasmo De Nuccio e Maria Zona - De Nuccio. Agosto 1892) e poi inserì la notizia nella sua biografia mariniana (A. BORZELLI, Il Cavalier Giam-

battista Marino (1569-1625), Napoli, Gennaro Maria Priore Editore,

1898), in entrambe le pubblicazioni avanzando l’ipotesi, con la pro- messa che si sarebbe premurato in seguito di verificarla, che in quel- le carte manoscritte potesse celarsi l’abbozzo di una delle numerose opere la cui composizione era stata vantata del Marino e che sono state ritenute perdute non essendo mai giunte alla stampa. L’opera in questione sarebbe stata la Polinnia, il cui progetto il Marino aveva enunciato, tramite Onorato Claretti, nella famosa lettera prefatoria alla III parte della Lira nella stampa del 1614: “La Polinnia ancora è un’opera bella, piena di buona dottrina e varia, sì come accenna il titolo istesso, ch’altro non importa se non canto di molte cose, a concorrenza quasi del Pontano, il quale trattando di cose celestiali, appellò il suo libro l’Urania, Musa a cui è attribuita la cura de’ Cieli e delle stelle. Percioché incominciando il Poeta dagli elementi, e passando poi ordinatamente dai misti imperfetti ai più perfetti, abbraccia quasi tutte le creature dell’Universo, tratta di tutte le Virtù

et arti più nobili, e discorre tutta la scala della Natura, infino a tanto che di sfera in sfera perviene agli Angioli, si conduce ai Santi et arriva allo stesso Iddio. Consiste tutta in tanti Inni, o vogliamo dir canzonette; et ancorché di Pindaro fra’ Greci, del Marullo e d’altri fra’ Latini, e di Bernardo Tasso fra’ Toscani se ne veggano qua e là in questo genere sparsi alcuni, nondimeno oltre l’essere differen- tissimi dallo stile del Cavalier Marino, il quale par che in questo penda più tosto alla foggia tenuta ne’ Cori dagli antichi Tragici, sono anche di numero assai minori, poiché, eccettuate alcune poche Deità, non hanno tocche tutte le materie occupate da lui” (G. B.

MARINO, La Lira, a cura di Maurizio Slawinski, Torino, Res, 2007,

vol. II pp. 41-42).

L’ipotesi Polinnia sarebbe stata da lì a poco smentita dallo stes- so Borzelli in un opuscoletto specificamente dedicato alla emenda- zione del suo precedente errore (Di un manoscritto della Società

napoletana di Storia Patria falsamente attribuito al Cavalier Ma- rino. Noticina di Angelo Borzelli, Napoli, Stabilimento Tipografico

di Gennaro M. Priore, 1899). Senonché, mentre la monografia del 1898 ha avuto larga fortuna e diffusione, divenendo giustamente uno dei principali riferimenti della bibliografia mariniana e quasi elemento basilare di ogni approccio iniziale allo studio del Marino, dell’opuscoletto si è persa completamente la traccia fino a che, pro- prio trattando dell’enigma Polinnia, Emilio Russo non ne ha richia- mato la memoria nella sua recente monografia mariniana (E. RUSSO,

Marino, Roma, Salerno, 2008, p. 242).

Nel volume del 1898 il Borzelli non soltanto comunicò l’esistenza del codice ma stampò per ulteriore documentazione, e nell’entu- siasmo del supposto ritrovamento di un abbozzo della perduta Po-

linnia, un elenco degli inni e un breve saggio di tre di essi. Tuttavia

la caoticità della descrizione e la scelta estemporanea di tre inni, selezionati a caso e trascritti anche non senza qualche errore, finì per convincere gli studiosi dello scarso interesse del ritrovamento, sia perché di primo acchito l’elenco dei componimenti non pareva,

108 NOTE

checché ne dicesse il Borzelli, collimare con quanto si conosceva del progetto della Polinnia, sia, soprattutto, perché la versificazione un po’ stentata di quanto era stato esemplato alla lettura pareva escludere l’ipotesi della paternità mariniana. Per mero scrupolo, nel- l’allestimento della rimeria extravagante pubblicata in appendice al- l’edizione della Lira, insieme a Maurizio Slawinski e a Rossana So- dano si decise di esaminare un po’ più a fondo la questione: per quanto riguardava l’appendice delle rime mariniane disperse appar- ve subito chiaro che non vi era alcuna pertinenza del codice na- poletano, contenendo esso un’opera compiuta e non frammenti di- spersi, come poteva lasciar sospettare la descrizione del Borzelli; d’altro canto la ruvidezza dello stile scrittorio sembrava anche ren- dere molto improbabile la paternità mariniana, così che in quell’oc- casione il materiale venne messo da parte e a ragione Slawinski lo escluse dalla sua edizione.

Nel contempo però, scorso nella sua interezza, il codice ci rivelò la sua vera natura: si trattava di un volgarizzamento degli Inni Orfici. Sotto questo profilo esso tornò a riacquistare un certo interesse e anche dal punto di vista del possibile rapporto con l’ambito mari- niano tornò a destare una certa curiosità: è infatti ben nota la pas- sione del Marino per i testi e gli autori orfici, e in particolare per Nonno di Panopoli, la cui opera è tra le principali fonti di imitazione tanto della Sampogna quanto dell’Adone. L’assidua frequentazione delle Dionisiache di Nonno da parte del Marino suggerì insomma una maggiore cautela nel ritenere del tutto improbabile un impegno del medesimo nella traduzione degli Inni Orfici. Mentre si andava insinuando tale dubbio sulla legittima possibilità che in qualche mo- do il Marino avesse potuto essere coinvolto in un progetto di vol- garizzamento dell’opera che nel corso del secolo Henri Estiènne aveva edito e Giuseppe Giusto Scaligero traslato in lingua latina, la lettura di un sonetto di corrispondenza edito nella III parte della

Lira suonò come una vera e propria rivelazione. È il caso di ripor-

tarlo per intero:

Del Signor Leandro Bovarini

Tu che per gl’Inni tuoi chiari e sublimi E per gl’incensi onde Parnaso odora Nel tempio sei fra’ sacerdoti primi Ove l’Eternità la gente adora; Questi versi, MARIN, se punto stimi

Che ’ntempestivo un tuo fedel non mora, Offri su l’Ara a lei; che ’ncolti et imi Fien tersi e degni, se tua man gli onora. E se ’l mio nome in lor non si rinova

Qual Fenice immortal, ma vien che resti Ne la cuna e nel cenere sepolto, Gran pregio fia che dica il mondo: Questi

Per man di tal fu da la luce tolto, Ch’altrui dà lume, e vita eterna e nova.

La prima quartina non sembra lasciare adito a dubbi: dal momento che non si ha traccia di altri “inni” composti dal Marino, se non di un Inno alle stelle di dubbia paternità e non certo pertinente al contesto del sonetto, il riferimento agli Inni profani sembra per- fettamente calzante, e tanto più per il richiamo agli “incensi” del v. 2, che appare proprio una specifica citazione dell’innografia or- fica. E anche il successivo accenno al “tempio […] Ove l’Eternità la gente adora”, del quale Marino è “fra’ sacerdoti primi”, se di primo acchito può apparire come una più che consueta allusione al potere della poesia di eternare nella fama i propri “sacerdoti”, a ben vedere può essere interpretato invece come un più pregnante riferimento alla promessa d’“Eternità” della religione orfica. Anzi, il tono della quartina e l’insistenza con cui ci si appella al Marino quasi come all’officiante di un rito, induce il sospetto che l’impegno di volga- rizzamento degli Inni Orfici non sia da considerare un’impresa let- teraria, ma il servizio reso a una sorta di segreta associazione ef- fettivamente dedita a una qualche forma di esoterico rituale, cele-

109

checché ne dicesse il Borzelli, collimare con quanto si conosceva del progetto della Polinnia, sia, soprattutto, perché la versificazione un po’ stentata di quanto era stato esemplato alla lettura pareva escludere l’ipotesi della paternità mariniana. Per mero scrupolo, nel- l’allestimento della rimeria extravagante pubblicata in appendice al- l’edizione della Lira, insieme a Maurizio Slawinski e a Rossana So- dano si decise di esaminare un po’ più a fondo la questione: per quanto riguardava l’appendice delle rime mariniane disperse appar- ve subito chiaro che non vi era alcuna pertinenza del codice na- poletano, contenendo esso un’opera compiuta e non frammenti di- spersi, come poteva lasciar sospettare la descrizione del Borzelli; d’altro canto la ruvidezza dello stile scrittorio sembrava anche ren- dere molto improbabile la paternità mariniana, così che in quell’oc- casione il materiale venne messo da parte e a ragione Slawinski lo escluse dalla sua edizione.

Nel contempo però, scorso nella sua interezza, il codice ci rivelò la sua vera natura: si trattava di un volgarizzamento degli Inni Orfici. Sotto questo profilo esso tornò a riacquistare un certo interesse e anche dal punto di vista del possibile rapporto con l’ambito mari- niano tornò a destare una certa curiosità: è infatti ben nota la pas- sione del Marino per i testi e gli autori orfici, e in particolare per Nonno di Panopoli, la cui opera è tra le principali fonti di imitazione tanto della Sampogna quanto dell’Adone. L’assidua frequentazione delle Dionisiache di Nonno da parte del Marino suggerì insomma una maggiore cautela nel ritenere del tutto improbabile un impegno del medesimo nella traduzione degli Inni Orfici. Mentre si andava insinuando tale dubbio sulla legittima possibilità che in qualche mo- do il Marino avesse potuto essere coinvolto in un progetto di vol- garizzamento dell’opera che nel corso del secolo Henri Estiènne aveva edito e Giuseppe Giusto Scaligero traslato in lingua latina, la lettura di un sonetto di corrispondenza edito nella III parte della

Lira suonò come una vera e propria rivelazione. È il caso di ripor-

tarlo per intero:

Del Signor Leandro Bovarini

Tu che per gl’Inni tuoi chiari e sublimi E per gl’incensi onde Parnaso odora Nel tempio sei fra’ sacerdoti primi Ove l’Eternità la gente adora; Questi versi, MARIN, se punto stimi

Che ’ntempestivo un tuo fedel non mora, Offri su l’Ara a lei; che ’ncolti et imi Fien tersi e degni, se tua man gli onora. E se ’l mio nome in lor non si rinova

Qual Fenice immortal, ma vien che resti Ne la cuna e nel cenere sepolto, Gran pregio fia che dica il mondo: Questi

Per man di tal fu da la luce tolto, Ch’altrui dà lume, e vita eterna e nova.

La prima quartina non sembra lasciare adito a dubbi: dal momento che non si ha traccia di altri “inni” composti dal Marino, se non di un Inno alle stelle di dubbia paternità e non certo pertinente al contesto del sonetto, il riferimento agli Inni profani sembra per- fettamente calzante, e tanto più per il richiamo agli “incensi” del v. 2, che appare proprio una specifica citazione dell’innografia or- fica. E anche il successivo accenno al “tempio […] Ove l’Eternità la gente adora”, del quale Marino è “fra’ sacerdoti primi”, se di primo acchito può apparire come una più che consueta allusione al potere della poesia di eternare nella fama i propri “sacerdoti”, a ben vedere può essere interpretato invece come un più pregnante riferimento alla promessa d’“Eternità” della religione orfica. Anzi, il tono della quartina e l’insistenza con cui ci si appella al Marino quasi come all’officiante di un rito, induce il sospetto che l’impegno di volga- rizzamento degli Inni Orfici non sia da considerare un’impresa let-

Nel documento G.B. Marino (?), Inni Profani (pagine 109-134)

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