Al termine di questa esposizione ci sembra quasi inutile rilevare quanto sia difficile, problematica ed anche un poco ambigua la posizione di qual-sivoglia figura professionale si cimenti nel tratta-mento dei pazienti affetti da schizofrenia.
La data di edizione delle principale LG disponibili, normalmente citate come punti di riferimento, è or-mai vecchia: l’ultima è stata edita nel 2004 (APA) 4 ed è stata espressamente dichiarata obsoleta.
Gli aggiornamenti disponibili (specie gli aggior-namenti Cochrane) 26 e gli ultimi studi di tratta-mento pubblicati (CATIE, CUtLASS, EUFEST, CA-FE, TEOSS) 15-17 19 20 sono molto cauti, quando non espressamente negativi, nella valutazione dell’ef-ficacia degli antipsicotici atipici verso gli antipsi-cotici tipici.
Se fosse, quindi, solo per questo aspetto, sarebbe ragionevole concludere che non vi è differenza alcuna tra gli antipsicotici che abbiamo a dispo-sizione per il trattamento dei sintomi positivi della schizofrenia.
Una conferma indiretta di ciò viene dalla pratica clinica corrente nei paesi in via di sviluppo, dove le risorse economiche limitate rendono, per così dire, obbligatorio l’utilizzo di farmaci antipsicoti-ci poco costosi, e dove i risultati di efficaantipsicoti-cia sono soddisfacenti: è anche evidente che, in queste na-zioni, le classi farmacologiche a disposizione e i programmi terapeutici non farmacologici saranno differenti sia come offerta differenziale che come intensità di cura rispetto ai paesi industrializzati.
È altresì evidente che l’avere ancora, nel panorama assistenziale, gli ospedali psichiatrici o non averli, cambia radicalmente l’atteggiamento terapeutico ed anche il profilo “ideologico” sotteso alla impo-stazione del trattamento stesso.
È anche plausibile il pensare che questi due fat-ti siano tra loro dipendenfat-ti, nel senso che a più basso livello di sviluppo si accompagna una più evidente impostazione di trattamento che prevede la custodia come suo elemento basilare.
Questi due aspetti, per citare solo i primi che possono venire in mente, comportano che le LG non possano essere in alcun modo generalizzate:
è quindi implicito che quelle che abbiamo a di-sposizione, così come tutto il resto del materiale
documentale e bibliografico, si riferisce alla realtà dei paesi completamente sviluppati e dove l’ospe-dale psichiatrico non è più presente oppure, se presente, non è l’esclusivo punto di riferimento istituzionale per il trattamento dei pazienti con di-sturbo schizofrenico.
Con questa preliminare importante limitazione ed entrando nel merito di quanto viene suggerito per i paesi sviluppati, appare in tutta la sua evidenza il fatto che la terapia psicofarmacologica ha la sua indicazione per il trattamento estemporaneo dei sintomi positivi nel primo episodio.
Su questo punto, pur con alcune sfumature di lin-guaggio (in alcuni casi si “consiglia”, in altri lo si pone come un fatto pressoché obbligatorio) tutti i documenti a disposizione sono concordi.
L’accordo è del tutto inesistente per quanto riguar-da il proseguimento del trattamento psicofarmaco-logico, sia in termini di dosaggio che di durata: si varia dal mantenimento della dose massima per pochi mesi ad una dose dimezzata per qualche anno o per almeno 5 anni.
Anche per il trattamento depot le indicazioni sono varie e contraddittorie: alcune pubblicazioni pro-pongono la terapia depot fin dal primo episodio, per garantire l’assunzione del farmaco e per ridur-re al minimo il periodo di psicosi non trattata; altri limitano la terapia depot ai soli pazienti che non sono accondiscendenti ad assumere la terapia psi-cofarmacologica.
Il problema dell’evoluzione del disturbo, della comparsa o della compresenza di sintomi defici-tari (ideativi, affettivi e cognitivi) trova un limitatis-simo spazio: tutto il capitolo della psicopatologia deficitaria è, prima di tutto, esaminato, discusso ed oggetto di suggerimenti come esito collaterale del trattamento dei sintomi positivi con medicamenti iatrogeni dal punto di vista extrapiramidale.
Il problema delle varie EPS occupa un grande spa-zio sia nelle LG che negli aggiornamenti e negli studi clinici cui si è fatto riferimento più sopra (CA-TIE, CUtLASS, EUFEST, CAFE, TEOSS) 15-17 19 20. È su questo punto specifico che tutte le raccoman-dazioni pubblicate sono concordi nel dichiarare la superiorità degli antipsicotici atipici sugli antipsi-cotici tipici.
Ma la complessità degli EC che man mano si sono evidenziati anche per gli antipsicotici atipici ha re-so molto complicato ed oggetto di grande dibattito l’atteggiamento che deve essere consigliato agli psichiatri clinici.
Gli antipsicotici tipici ed atipici sono gravati da EC che possono di fatto coinvolgere qualunque di-stretto somatico. Il problema non è stabilire quale sia l’EC mediamente più grave tra i farmaci utiliz-zati, ma quello più pericoloso e/o fonte di ridot-ta adesione terapeutica per il singolo paziente 53. Lo psichiatra dovrà, quindi, incrociare i dati della letteratura, dei trial clinici e delle LG con anam-nesi personale e familiare, storia clinica pregres-sa ed attuale in relazione alla farmacoterapia del suo “caso clinico”. L’elemento di attenzione con-siste nello scrutinare i possibili EC con strumenti di indagine sistematica – ad esempio checklist o strumenti di auto- ed etero-valutazione, come la Drug Attidute Inventory (DAI) 54 – in quanto non tutti gli EC sono immediatamente misurabili dal clinico o riferibili dal paziente. Se l’acinesia o la scialorrea possono, infatti, facilmente essere indi-viduati, è verosimile che una disfunzione erettile o una ipertrigliceridemia necessitino di un esame sistematico.
Per la valutazione e la gestione degli EC neurolo-gici, metabolici e cardiovascolari il clinico potrà fare facilmente riferimento, oltre alle LG APA 4, al-le LG della WFSBP 5 6. Queste ultime, infatti sono corredate di tabelle che riassumono i principali EC e le indicazioni per la loro gestione (Tabelle IV e V delle LG WFSBP per il trattamento in acuto 5 e Ta-belle III e IV per il trattamento a lungo termine 6).
È interessante notare come, negli ultimi anni, vi sia una crescente consapevolezza che alcuni de-gli EC, segnatamente quelli dismetabolici, neces-sitano di particolare attenzione multidisciplinare.
Se lo psichiatra aveva sufficienti conoscenze per affrontare problematiche relative ad EC extrapi-ramidali e dell’iperprolattinemia, le tematiche dismetaboliche richiedono, come indicato dalle LG e, soprattutto, dalle raccomandazioni EPA-EASD-ESC, l’intervento di specialisti di altre disci-pline 46. Questo non significa rendere la materia più complessa, quanto piuttosto sottolineare una necessità di integrazione di conoscenze ed inter-venti per ottimizzare la gestione degli EC. Se tale osservazione si unisce alla recente affermazione dell’OMS di “No health without mental health!”, i due aspetti di salute fisica e mentale dovranno essere valutati costantemente in parallelo per non privare i pazienti psichiatrici delle cure mediche necessarie ma anche le persone affette da distur-bi medici della spesso indispensadistur-bile valutazione psicopatologica.
Va ricordato che alcune conoscenze relative alla farmacocinetica e, quindi, al dosaggio del farmaco sono rilevanti per il controllo di alcuni EC. È inte-ressante notare come vi siano marcate differenze nei dosaggi utilizzati dai clinici in differenti paesi a parità di indicazioni registrative 55 56.
Non esistono farmaci di prima, seconda o terza scelta in relazione agli EC. Il clinico deve assicurare a tutti i pazienti in trattamento la stessa attenzione nella ricerca degli EC, nella loro valutazione e nella decisione clinica in base al costo/beneficio del sin-golo trattamento. Tale pratica dovrebbe essere con-divisa quanto meno in ambito locale/regionale.
La componente deficitaria di tipo affettivo è, poi, da un lato ascritta a quanto appena detto: dall’al-tro è considerata a sé stante, come comorbidità e, quindi, come tale, da trattare con farmaci antide-pressivi: ma gli accenni a ciò sono appena abboz-zati, gli studi clinici controllati sono scarsissimi ed ulteriori dati vengono richiesti.
La perdita di capacità cognitive, nel senso più ampio del termine, da quelle individuali investi-gabili con strumenti e metodiche neuroscientifi-che a quelle sociali o, recentissimamente, a quel-le cosiddette “economiche”, è stata, negli ultimi vent’anni, costantemente osservata, quantificata ed, almeno con alcune ipotesi di lavoro, spiegata.
I tentativi terapeutici per porvi rimedio, dalla tera-pia cognitiva a quella psicoterapica a quella farma-cologica non hanno dato alcun risultato sostanzia-le: vi è da aggiungere anche che le pochissime LG che fanno cenno a questo problema (APA 2009) 8 lamentano la pressoché assoluta mancanza di stu-di clinici controllati in questo campo.
Solo il Guidelines Watch APA del 2009 accenna, verso la fine, al problema dell’abuso di sostanze (fumo, alcool e stupefacenti) nei soggetti che sof-frono di schizofrenia 8.
Anche tutti gli studi più recenti, citati prima, e ri-guardanti il trattamento psicofarmacologico della schizofrenia non fanno cenno a questa variabile nelle valutazioni di esito.
Lo studio CATIE del 2006 considera l’abuso di sostanze come una variabile epidemiologica da valutare nella descrizione del disturbo schizofre-nico, ma senza fare cenno ad una sua possibile interferenza o peso nella scelta del trattamento o nel suo esito 15.
Il disturbo schizofrenico adolescenziale è un al-tro argomento decisamente poco, per non dire per nulla, affrontato nella letteratura.
L’argomento è, per la psichiatria italiana, di gran-de attualità, sia perché mancano protocolli stan-dardizzati relativi al passaggio in cura di pazienti psicotici dalle Unità Operative di Neuropsichia-tria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (UONPIA) a quelle di Psichiatria, sia per la carenza di reparti di degenza UONPIA, con la conseguenza che ado-lescenti psicotici vengono sempre più frequente-mente ricoverati nei Servizi Psichiatrici di Diagno-si e Cura (SPDC).
Anche in questo caso la comorbidità con l’abuso di sostanze è assai frequente e non esistono LG o semplicemente suggerimenti pubblicati condivisi-bili.
Un altro punto non affrontato, né nelle LG né nel-la letteratura più recente, e che, in parte almeno, si sovrappone a quanto appena detto, riguarda la compresenza di ritardo mentale: tenuto conto che il problema della comorbidità è sempre considerato di grande importanza, questa carenza pare strana.
In generale, la presenza di ritardo mentale è con-siderato, insieme ad altri, come un fattore progno-sticamente sfavorevole, ma nulla è detto su di una possibile specificità o particolarità di interventi integrati in funzione di ciò. Anche in questo caso non sono presenti studi clinici controllati.
Allo stesso modo, ed all’altro estremo del panora-ma, non vi sono dati disponibili e quindi suggeri-menti o indicazioni strutturate sulla comorbidità tra disturbi cognitivi dell’anziano e disturbo schi-zofrenico cronico che di per sé, per definizione, porta ad un decadimento cognitivo.
Ciò vale sia per l’orientamento diagnostico, an-cora molto condizionato da una organizzazione gerarchica, sia, e di maggiore importanza per l’ar-gomento che stiamo trattando, per le implicazioni terapeutiche.
Per quanto riguarda poi il problema degli inter-venti psicologici, non sono presenti dati controllati sulla loro effectiveness.
È da sottolineare come nessuna delle LG statunitensi esprima raccomandazioni per alcuna delle terapie psicologiche (cognitiva, familiare, sistema psicolo-gico di vario tipo), al contrario di quelle anglosasso-ni ove la terapia coganglosasso-nitiva è raccomandata.
A parte la contraddittorietà dei dati sperimentali a supporto vuoi di una o dell’altra posizione, il motivo di tale vaghezza e discrepanza su di un tema così importante è da ricercarsi nella presso-ché totale assenza di ipotesi consistenti sulle basi patogenetiche del disturbo, mancando le quali
di-viene difficile pensare a rimedi così complessi ed articolati come quelli psicologici.
Ringraziamenti
Bristol-Myers Squibb ha supportato gli Autori nel-la stesura del manoscritto con un grant educazio-nale.
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