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Note finali su rigore, pudore, parzialità etnografica e potere

Quando Eric Gandini viene a presentare in anteprima Videocracy presso il nostro laboratorio, ci colpisce un dettaglio del suo intervento sul funziona- mento dell’industria culturale nel paese in cui è cresciuto professionalmen- te (la Svezia); il regista ci restituisce un paesaggio di formazione visiva e civile delle generazioni in cui le televisioni pubbliche, forse le sole esistenti, nella prima fascia serale, ancora nel corso degli anni Novanta, programmavano essenzialmente, e quindi investivano e producevano, documentari. Noi al contrario siamo vissuti e cresciuti dentro un orizzonte barbarico per quanto concerne i codici, i format e gli stili veicolati dalle televisioni commerciali e fatti propri, in un orribile monopolio mascherato da concorrenza, dagli stessi canali sedicenti pubblici. Quale cultura visuale ha sedimentato questo tipo di industria culturale? Quali sguardi ha educato e costruito? Videocracy, oggetto militante e sociologico al tempo stesso, prova a rispondere a que- ste domande.

D’altro lato, nel campo delle scienze sociali, per noi ricercatori e ricerca- trici di mezz’età è ancora vivo il ricordo di come nel corso degli anni ’90 si dibattesse della legittimità dei metodi qualitativi, del conflitto micro-macro, dell’attendibilità delle procedure di ricerca non-standard, mentre oltre atlan- tico gli anni Settanta avevano definitivamente rotto ogni argine positivista al procedere delle scienze sociali. Oggi, quando gli archivi sembrano essersi democratizzati, le procedure di auto-rappresentazione diffuse, i costi e i sa- peri della riproducibilità e della registrazione diminuiti, ricerchiamo – già in ritardo e comunque in affanno - un riconoscimento accademico per altre pratiche di ricerca, quelle che, in una società dello spettacolo, intendono sia porre sotto osservazione le immagini prodotte – che nulla hanno di inno- cente o neutrale – sia esplorare il sociale attraverso la produzione propria di immagini. Abbiamo dovuto fare i conti con un determinato tipo di industria culturale nazionale, ma anche con una scienza – la sociologia – che con- trariamente ai suoi esordi ha voluto chiudersi sul numero, sul testo scritto e sulla parola, evacuando dall’analisi il contesto polisensoriale dei materiali e dei documenti raccolti: il corpo, il suono, gli odori, i colori.

Il corpo, come ci ricordano Faccioli e Losacco (2010) era infatti appan- naggio di altre scienze – la medicina, la biologia, la psicologia – mentre l’im- di Luca Queirolo Palmas e Luisa Stagi

magine e il suo movimento – dopo un avvio congiunto con le scienze so- ciali sotto il segno della scuola di Chicago - erano trasmigrate, o espulse dal positivismo imperante, per andare a collocarsi sotto le braccia accoglienti del campo artistico.

Ad oggi in Italia, siamo allo stato embrionale dei visual studies; contiamo su tre manuali di sociologia visuale (Frisina 2013; Mattioli 1991; Faccioli, Lo- sacco, 2010), oltre che su esperienze pirata e rizomatiche dentro l’accade- mia, fra le quali appunto ci collochiamo. Abbiamo scelto di lavorare, come il nostro manifesto anticipava, su una specifica curvatura della sociologia visuale, quella della produzione di immagini, nel tentativo di coniugare ci- nema e sociologia.

In uno dei manuali sopra citati, Losacco colloca il film sociologico dentro una tassonomia della restituzione, segnala l’assenza di una tradizione docu- mentaristica sociologica e mette in guardia, se leggiamo bene, dal pericolo della mancanza di oggettività e dal rischio di partigianeria. Occorrerebbe, secondo questo approccio, “offrire per ogni prodotto audiovisivo che vuo- le definirsi sociologico, una garanzia di attendibilità dei contenuti e delle procedure di realizzazione attraverso un sistema di tutele metodologiche che guidino e vincolino il sociologo filmaker nella produzione di prodotti di tal genere” (2010:243). E ancora per evitare il militantismo, si tratterebbe di ricercare l’obiettività della rappresentazione senza proporsi una dimensione di denuncia sociale (2010: 247), affrontando “le tematiche proposte con il di- stacco, o sarebbe meglio dire, l’avalutatività che deve contraddistinguere il lavoro sociologico” (2010: 255). Una strada alternativa che l’autore propone è quella di riconoscere la parzialità delle nostre rappresentazioni e quindi la debolezza della nostra scienza sociale oppure di tradurre la partitura di una ricerca rigorosa in un saggio sociologico visuale, sceneggiando i tipi ideali estratti dall’analisi in un lavoro di recitazione attoriale.

Noi abbiamo scelto di riconoscere la parzialità delle nostre etnografie visuali e filmiche, di contestare la distanza come assioma della scienza e di confrontarci, come ripetuto in quasi tutti gli interventi di questo volume, con la sfida di una sociologia pubblica e partigiana. è proprio sul film, sul- la costruzione di una tradizione sociologica documentarista, che da quasi dieci anni investe il nostro laboratorio, con tutte le sue contraddizioni – a nostro modo di intendere fertili e utili – come quelle messe a nudo da Mas- simo Cannarella nella sua auto-polemologia della sociologia visuale.

In questa scelta ci sentiamo vicini alle pratiche innovative di cinema e di

antropologia condivisa di Rouch o alle tesi di Ruby (2004) sulla morte dell’og-

gettività. Non abbiamo cercato l’avalutatività nelle nostre esplorazioni, così come Rouch rifiutava il film etnografico inteso come registrazione di un evento, proprio perché contestava un’idea solida e stabile di cultura, di un territorio rappresentabile in modo obiettivo, una realtà che doveva essere colta e rispecchiata. Per questa ragione, Rouch mescolava fiction e gioco, te- atro e dialoghi, arte e ironia, antropologia e messa in scena, pensiero critico e critica coloniale. Certo, non si possono filmare le cose come hanno luogo, ma si possono creare dei luoghi per generare delle relazioni, o creare degli

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oggetti per accedere a dei luoghi da una posizione privilegiata.

Filmiamo ed etnografiamo la relazione fra noi e i soggetti, fra i ricercatori ed i ricercati, fra i registi ed i loro soggetti. Come racconta Rouch: “è questo permanente dialogo continuo che mi sembra essere uno degli aspetti più interessanti del progresso attuale dell’etnografia. La conoscenza non è più un segreto custodito nei templi occidentali della conoscenza; è il risultato di un’infinita ricerca in cui gli etnografi e coloro che sono studiati si incontrano su una strada che alcuni di noi chiamano antropologia condivisa” (1971:7). Da qui, seguendo Ruby (2004) e Myeroff (1992), si tratterebbe di dar luogo ad una terza voce, il prodotto sincretico di un incontro e di sguardi incrocia- ti, nei quali si “fondono visione interna ed esterna” (Ruby 2004: 83), ovvero quella dei nativi (ammesso che esistano) e quella dei ricercatori; una terza voce capace di sfidare quello che Lacan chiamava il terzo fantasmatico, il discorso dominante, l’alone che ricopre l’interazione prefigurando il visibile, definendo a priori ció e colui che ho di fronte, non un soggetto ma appunto una figura fantasmatica, perché costruita e riflessa come effetto di poteri ed ingiunzioni.

I film che abbiamo realizzato scartano rispetto all’epistemologia della distanza e utilizzano un canone per trasgredirlo. Il nostro manifesto partiva dalla divulgazione ma alludeva ad altri dispositivi prima ancora di sperimen- tarli. Oggi, a distanza di dodici film da quella data, abbiamo maturato nuove pratiche e strategie, nuovi dubbi e consapevolezze. C’è ricerca sociologica dietro le nostre produzioni? Il film è sociologico? E se fossero invece doman- de sbagliate?

Diverse sono le articolazioni temporali fra film e ricerca, quella in cui la seconda antecede la prima è solo una delle possibilità che abbiamo speri- mentato nei nostri primi lavori (In between e Transportes/Transpuertos). In Yo

no me complico, ad esempio, il film apre il campo di ricerca, nel senso che

permette ai ricercatori di posizionarsi dentro quel campo come attori legit- timati a parlare ed agire. Il film diventa luogo e grazie ai mille dibattiti che punteggiano la sua storia, l’equivalente di una foto-stimolo in movimento; un vettore che lanciamo in un campo per registrare i posizionamenti dei di- versi attori sociali. A distanza di molti anni, le ricercatrici che hanno animato quel salto nel buio sono ancora lì ad esplorare quei mondi – i generi e i loro travisamenti, le mascolinità e femminilità egemoniche e contro-egemoni- che, le violenze e le agency, le linee del colore e le sentinelle della morale – in un posizionamento che è senza mediazioni ricerca-azione e co-ricerca. E poi c’è la contemporaneità fra ricerca e film; in tal senso fare un film è fare un’etnografia. E non è detto che il film ne sia la scrittura. In fondo lo usiamo come pretesto, come invenzione di un fare condiviso che ci permet- te di guardare altrimenti e di generare una prossimità, una durata, un luogo laboratoriale dove costruire appunto una terza voce. La nostra filmografia si muove su questi due piani, più che su quello della divulgazione e della ricerca di un’attendibilità sociologica interna al formato documentario.

Da un lato abbiamo film – come la trilogia di Alessandro Diaco (Yo no

di pre-esistente, siano esse le culture giovanili proletarie della periferia di Cornigliano, la messa al lavoro e l’ostracismo dei corpi migranti e guerrie- ri nelle palestre dei quartieri non più operai, le declinazioni del genere e delle sessualità nelle avanguardie LGBTI; dall’altro lato abbiamo film che hanno costruito il campo come un laboratorio sperimentale – Loro dentro,

Buscando Respeto, Permiso de soñar – estendendo l’idea della bolla spazio-

temporale evocata nel manifesto per una sociologia filmica e visuale e ge- nerando luoghi, durate lunghe e gruppi stabili con cui provare un’autorialità ibrida, con cui condividere il potere della rappresentazione (Balma Tivola 2004). In questi laboratori di scrittura, sociologia e cinema, in cui conver- gono i soggetti le cui storie rinviano ai mondi più generali che vogliamo raccontare – le gang in Buscando Respeto, le tossicodipendenze e il rapporto fra giovani migranti e servizi in Permiso de soñar, i giovani detenuti in Loro

dentro – fare film è il pretesto per un’etnografia. In essi, e grazie ad essi, ci

interroghiamo sulle strategie di rappresentazione dei subalterni, su ciò che viene esposto e ciò che viene occultato, su come costruiscono se stessi, in una politica dell’identità che negozia con noi ricercatori e/o con le nostre proposte di rappresentazioni o azioni. La pratica del laboratorio di cinema etnografico che sedimentiamo è in fondo simile alla proposta di Touraine (1978) sui gruppi di intervento sociologico. Seguendo la descrizione di Fri- sina (2013:124-125): “il gruppo è simile a individui che condividono un’espe- rienza o un impegno simile, che si riconoscono nella problematica esposta dai ricercatori … L’intervento sociologico non pretende la rappresentatività, non è il suo obiettivo … I ricercatori creano uno spazio sperimentale per- ché, oltre a confrontarsi fra di loro, gli attori possono incontrare e discutere con coloro che identificano come avversari, cioè interlocutori cruciali per il cambiamento ricercato”.

Da questi laboratori sperimentali nasce anche un prodotto visuale che a quel punto rientra in circolo su un campo più esteso rispetto al gruppo che lo ha generato e inizia a produrre ricerca attraverso la pratica della restituzio- ne e traduzione di ritorno. Film come vettori di accesso al campo, film come costruttori di campi etnografici, film come cartine di tornasole dei rapporti di potere sul campo attraverso l’opera della restituzione. Queste le attendi- bilità oblique, lontane da avalutatività ed obiettività, che abbiamo provato a giocare nella nostra sociologia visuale.

La cicogna e lo stagno

Nei quadri di Corrado Zeni, un noto pittore genovese amico di alcuni di noi, sono rappresentate persone, solitamente di genere femminile, catturate mentre stanno compiendo una serie di azioni. Queste figure e le loro azioni risultano integrate nel quadro, tuttavia, ed è forse uno degli aspetti più af- fascinanti di queste opere, in chi le osserva rimane un sospeso, un dubbio rispetto a quale relazioni davvero le leghi.

ma, controllo e piacere, non a caso uno degli oggetti privilegiati dei nostri lavori. Successivamente, parlando con l’autore, abbiamo scoperto che que- ste tre donne non avevano niente a che fare una con l’altra e neppure erano parte dello stesso scenario: la donna seduta è una madonnara incontrata a Parigi, la donna nell’acqua è stata fotografata al Central Park di New York, la donna che cammina proviene da un’immagine trovata su una rivista. Ecco, pensiamo che a volte il lavoro che si compie nelle ricerche sociologiche possa essere assimilato alla modalità in cui opera Zeni: si raccolgono delle storie e poi si mettono insieme in uno scenario costruito ad hoc. Delle com- plesse traiettorie biografiche o dei molteplici scenari nei quali tali traiettorie si possono situare noi scegliamo solo alcuni elementi, quelli che ci interes- sano, e, infine, ne distilliamo solo la parte funzionale alla forma del nostro racconto. Quando chiediamo ai soggetti della nostra ricerca di raccontarci la loro storia (di padre separato, di migrante, di sex worker ecc.) stiamo di- cendo che ci interessano solo per una parte, quella che li lega al mondo sociale che vogliamo studiare. Nello scenario che costruiamo, poi, saranno collocati solo alcuni frammenti biografici, scelti secondo logiche che, a se- conda dei casi, vengono giustificate con note metodologiche più o meno accurate. Questo vale nella ricerca cosiddetta qualitativa o non standard che si basa su storie e racconti di vita, ma è altrettanto valido per la ricerca costruita attraverso le survey e le basi campionarie.

La prima riflessione che si vuole affrontare è il rapporto tra potere e rigore metodologico. La considerazione che si intende argomentare è che il potere del ricercatore nell’ambito visuale sia stemperato dall’esigenza di dare conto del proprio operato a chi viene coinvolto nella ricerca. La se- conda riguarda la complessa questione del rapporto tra oggettività, rigore e forme della restituzione e verrà affrontata nei termini di una riflessione sul posto della sociologia, ovvero sulla spendibilità del sapere sociologico. Infine si giungerà alla questione del posizionamento dei ricercatori e delle ricercatrici all’interno del campo nei termini di “etica della ricerca”.

Il posto del soggetto

Uno spunto argomentativo utile ad affrontare la questione del potere del soggetto coinvolto all’interno delle ricerca è il racconto di Karen Blixen, già utilizzato da Cavarero (2001) e da Gherardi e Poggio (2003):

Un uomo che viveva presso uno stagno una notte fu svegliato da un gran rumore. Uscì allora nel buio e si diresse verso lo stagno ma, nell’oscurità, correndo in su e in giù, a destra e a manca, guidato solo dal rumore, cadde e inciampò più volte. Finché trovò una falla sull’argine da cui uscivano acqua e pesci: si mise subito al lavoro per tapparla e, solo quando ebbe finito, se ne tornò a letto. La mattina dopo, affacciandosi alla finestra, vide con sorpresa che le orme dei suoi passi avevano disegnato sul terreno la figura di una cicogna.